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Beyazid_II

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Commenti

Beyazid_II
Newbie
20/07/2018 | 15:01

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@Poker said:
Ho incontrato la modella del topic (mia ex compagna di scuola) e abbiamo bevuto un caffè. E' arrivato un mio amico (super-fisicato, fa arti marziali) che non è uno stupido, ma con lei è andato in tilt e ha cominciato a sparare una cazzata dietro l'altra, mettendo in difficoltà anche la sua ragazza (simpatica, ma 5/6 di fisico) che è andata in bagno, secondo me per togliersi dall'imbarazzo. All'ennesima cazzata, la modella l'ha seccato chiedendogli a mo' di battuta com'è andato l'esame di maturità e ci ha salutato.

Einstein si deve aggiornare. Non solo la stupidità umana e la percorribilità dell’universo sono infiniti, ma anche la stronzaggine della donna italiana.
E’ perfettamente vero che gli energumeni palestrati, se non dotati di un altrettanto sviluppato cervello e di un altrettanto gonfio portafoglio, non possono ambire alle modelle. E’ verissimo che queste, vedendosi eccellere nella bellezza fisica, ricercano in un uomo l’eccellenza in altre qualità, come l’intelligenza, la cultura, il saper vivere, il saper ascoltare, la bella parola e la vivace dialettica, oppure le capacità necessarie ad emergere socialmente, ad affermarsi nel lavoro ed a produrre ricchezza. E’ però altrettanto vero che il tuo amico non sembra abbia fatto nulla di offensivo o scandaloso.

Si è semplicemente seduto da te vedendoti in piacevole (?) compagnia. E, seguendo tanto l’onda del proprio naturale ed ingenuo trasporto verso la bellezza quanto la pretesa sociale delle “dame” di venire corteggiate a priori, ha cercato di costruire con le parole, con le battute, con lo spirito, qualcosa da contrapporre alla bellezza.
Magari perché non ha studiato troppo, magari perché non ha un’intelligenza sopraffina, magari perché era semplicemente troppo angustiato dal desiderio, ha ottenuto un effetto tragicomico fantozziano.
Meritava per questo di essere “seccato”?

A volte certe donne sono, psicologicamente, come quei cecchini nella Polonia occupata dai nazisti che si divertivano a “seccare” a caso i passanti. E’ veramente una forma di bullismo, perché vede chi si trova in una posizione di forza (in questo caso psico-sessuale) infierire su chi è più debole in maniera simile a quanto fisicamente si può fare a scuola sui ragazzi più piccoli.

E non fanno così solo le modelle, ma quasi tutte quelle che, poste sul piedistallo dall’illusione del disio, possono esaminare con calma i “pretendenti”, rilassarsi ed iniziare a pensare se divertirsi con loro o su di loro, mentre questi sono sottoposti alla stessa tensione di un esame.

Una volta una mia amica virtuale (ex-modella ed ex-escort) mi confessava che anch’ella si “divertiva” in tale modo: sollevare nell’illusione il malcapitato di turno solo per farlo cadere col massimo del fragore, dell’irrisione e dell’umiliazione pubblica o privata possibile. “E’ più forte di me” – mi spiegava, e poi, per non farmi arrabbiare aggiungeva – “ma succede solo perché certa gente non ha il senso della realtà e delle proprie possibilità. Solo chi ha ali di cera cade volendosi avvicinare al sole. Voi non avete ali di cera” (ci davamo del voi per darci l'idea di vivere in un romanzo ottocentesco: per la serie "quando due svitati s'incontrano").

Per giustificarsi, presentano insomma il loro comportamento come la “giusta punizione per la superbia”, mentre non si accorgono che quelle che dovrebbero essere punite per la propria superbia sono proprio loro: chi si credono di essere per poter sciogliere le ali di cera, il dio del sole?
Sono loro a fingere di non sapere che se qualcosa è finto, simulato, destinato a disciogliersi, è proprio la loro bellezza (luce riflessa come quella della luna), basata quasi esclusivamente sull’illusione del nostro desiderio (il vero sole, la vera fonte creativa di bellezza e di arte) quando non, spesso, sul trucco, sui vestiti e sulla chirurgia plastica.

Meriterebbero davvero uno schiaffo, almeno morale. Ma troveranno prima o poi un tuo amico che ad una domanda ironica del genere sia capace di rispondere “è andata benissimo, ho preso il massimo dei voti e l’encomio, perché lì le esaminatrici non erano stronze come te”.

Beyazid_II
Newbie
20/07/2018 | 11:41

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@FlautoMagico said:
Non è questione del paese, con un lavoro ben remunerato si sta bene dappertutto in europa, è ovvio che se guadagnate poco lasciando l'italia rinunciate a quel minimo di stato sociale che ancora rimane e vi date la zappa sui piedi.

Ma la probabilità di trovare un lavoro ben remunerato è la stessa qui e, ad esempio, in Germania? Non scherziamo. Là c'è persino una legge che stabilisce retribuzioni minime in base al titolo di studio (e ti giuro che l'università in sè non è affatto migliore di qua), qua abbiamo avuto ministri e sottosegretari che per giustificare lo sfruttamento socioeconomico dei neolaureati dicevano che i giovani sono "choosy". E, soprattutto, ci sono agenzie di collocamento che funzionano davvero. Ti trovano sul serio un lavoro retribuito, se hai le qualità adeguate. Coglione io tutta la vita a non essere andato là quando potevo.
E dire che l'ho fatto per amore, ma non di una femmina umana...

P.S.
L'unica cosa davvero negativa della Germania è la sua "Inciviltà culinaria". Soprattutto per un italiano, vedere il riso dato come contorno al secondo è raccapricciante. E mi ricordo ancora i pomeriggi passati a tentare invano di digerire il costolone di maiale con mille odiose salse e delle immangiabili patate.

Beyazid_II
Newbie
20/07/2018 | 11:38

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@Tango

Io invece ammetto perfettamente l'errore. Se potessi rinascere, fuggirei in Germania subito dopo la laurea. Ora, per lo stesso lavoro, sarei pagato da 2 a 3 volte di più.

Certo, 15 anni fa non potevo certo sapere che l'Italia sarebbe finita così!

Beyazid_II
Newbie
20/07/2018 | 11:36

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@Leopoldo48

Concordo con te e @Forus, sulla situazione generale, ma aggiungo che, comunque, specie per i giovani che hanno studiato, l'Italia è un gradino sotto gli altri paesi occidentali, soprattutto sotto quanto potrebbe essere con le risorse del nostro popolo (siamo sempre quelli che hanno fatto uscire l'Europa e il mondo dal medioevo in cui, per dirla con Nietzsche, "tedeschi ed altri plantigradi" ci avevano fatto piombare).

Detto questo, posso solo ammirare la Germania di oggi, che ha saputo diventare ancora più ricca e potente dopo la caduta del muro (anche se a spese nostre). Ho vissuto là in diverse fasi per quasi un anno e devo ammettere che i livelli di ordine pubblico (non solo apparente), di senso civico, di stato sociale (quello vero), di rispetto (non solo in termini di vane parole, ma di consistenti tutele e retribuzioni) del lavoro e dello studio e, non ultimo, di "vivibilità spiccia" per l'uomo comune (dagli FKK consentiti da leggi illuminate alle donne che, anche quando belle, colte ed emancipate, non se la tirano neanche un decimo dell'italiana media) sono impensabili da noi.

Certo, se devo pensare ai "paradisi del nord" dove un preservativo rotto è stupro, dove devi pisciare seduto per non essere sessista e dove devi farti firmare una liberatoria solo per inziare a corteggiare (altrimenti c'è la presunzione di colpa in caso di accusa di violenza), quando gli "ospiti extraeuropei" sono accolti a braccia aperte dagli/dalle antirazzisti/e anche quando esercitano la poligamia e l'assalto alla passante, allora mi tengo la "terrona" Italia.

Beyazid_II
Newbie
20/07/2018 | 11:21

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@Serendipity said:
@Beyazid_II mi piacerebbe conoscerti. In che zona del pianeta abiti? Se ricordo bene hai detto che frequenti i postriboli, eventualmente potremmo incontrarci in uno di questi locali (terra neutrale)

Nella Bassa il giorno io vidi
Ed io son nella pianura
Gran Sultano e puttanier;

Le città rifuggo e i lidi:
Preferisco la natura,
La montagna e gli efkaka
'*

Beyazid_II
Newbie
20/07/2018 | 11:12

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@FlautoMagico said:
Penso che abbia rinunciato da parecchio a sedurre…

...soprattutto è da parecchio che ho smesso di seguire, in amore, i consigli degli amici.

Beyazid_II
Newbie
20/07/2018 | 11:10

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@marko_kraljevic said:
Gesummaria. Ti parlo da amico e - credo - da uomo di cultura. Evita le citazioni. Se intendi usare il sapere come mezzo di seduzione devi dissimularlo. La donna deve percepire la tua cultura anche parlando di futilità. Anzi: dovrai parlare solo di futilità.

Per Ercole! Siamo su un forum dove alle donne non è nemmeno consentito intervenire. Siamo fra di noi. C'è bisogno di far finta di sedurre? C'è bisogno di usare le citazioni a scopo esornativo? C'è bisogno di comportarsi da attori che interpretano la parte dei casanova colti (ma con moderazione per non annoiare) o da giullari per far divertire (smodatamente) le donne? Se io cito versi o opere è solo perchè sento una consonanza fra quanto cantato o descritto dai loro autori e quanto io ho sentito e vissuto (più ho sentito e vissuto certi momenti, più il ricordo vi accosta immagini e suoni dalle poesie). Di quanto percepirebbe una donna che non c'è, a leggere qui, dove non leggerà mai, "francamente me ne infischio" (come direbbe il film più amato dalle donne).

Lasciatevelo dire, cari amanti del free, le donne vi hanno davvero "esteriorizzato". Pare che ogni atto, detto, parola, sguardo e scelta di vita debba essere funzione non quanto piace a voi, di quanto si conforma alla vostro essere interiore, ma di quanto piacerebbe o meno ad un'immaginaria donna che guardi dall'esterno, anzi agli occhi superficiali della società moderna nella quale i giudizi di valore e di gusto si formano sull'approvazione del sesso femminile.

Ma poi, di grazia, le donne sono davvero così "futili"? Io stesso, che, come si sarà ben capito, non sono certo un estimatore della presunta "gentilezza" di quel sesso (secondo me i più "complessi" e "delicati" siamo, dietro le apparenze contrarie, proprio noi), ho avuto occasione (e proprio di occasioni si deve parlare, capitate per caso e non cercate) di apprezzare tanto in giovin ragazze neppure vent'enni quanto in dame nel pieno fiorire della loro bellezza fisica e intellettiva (fra i trenta e i quaranta) la disposizione ad abbandonarsi al dialogo ed alla riflessione su temi filosofici e letterari non certo banali, una volta prese per mano, l'altra volta esse stesse conduttrici del racconto.

Miracoli della rete, dell'anonimato, della distanza, della chat?
Forse, semplicemente, miracolo del mettere da parte i "ruoli sessuali" stabiliti dalle convenzioni di un mondo reale non per questo necessariamente "vero". E non ve lo dice certo il solito filofemminista fissato con "l'abbattere i pregiudizi di genere".
Ve lo dice un nemico giurato del corteggiamento, inteso in senso lato non solo come obbligo nostro a farci avanti per primi, agire socialmente e metterci intellettualmente in mostra, ma anche come "stile" di vita "intrisecamente cortigiano" volto sempre alla ricerca del compiacimento altrui tramite quella "sprezzatura" che è nata con Baldassar Castiglione e continua ancor oggi ad informare i consigli di seduzione non più verso il signore da servire ma verso qualsiasi presunta "signora" (che pretenderebbe il "servitium amoris" gratis).

Se devo parlare solo di futilità, tanto vale entrare in un FKK e pagare una mezz'ora in più per il tempo "social" da spendere in camera con una bella e leggiadra fanciulla che per mestiere non pretende recite e corteggiamenti (e quindi permette un dialogo spontaneo sgravato da obblighi). L'ho fatto un paio di volte in Carinzia e mi sono divertito quasi più che a scopare.

Beyazid_II
Newbie
19/07/2018 | 19:59

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CAPITOLO SECONDO:
"perchè l'amore sessuale è natura, i sessi esistono ed i loro desideri sono dispari"

Avevo smesso di proseguire il topic dato che tutti mi sembravate anche troppo d’accordo, ma ieri ho trovato le motivazioni per proseguire il discorso. Nella bacheca della mia sciagurata facoltà ho letto la scritta “progressista”: “le vere donne hanno la vagina” seguita dalla denuncia “questa è transfobia” (era la solita pubblicità progresso sotto le bandierine arcobaleno).

Io avrei detto “tautologia”, ovvero verità ovvia. Evidentemente anche l’ovvio viene contestato, anzi, perseguitato, in questa fase “sintetica” del logos egalitario. Per chi frequenta questo sito, che vive su una grande sineddoche (figura retorica consistente considerare una parte, in questo caso “la gnocca” per il tutto, ovvero “la bella fanciulla che la porta”) non può, tautologicamente esistere “gnocca” senza gnocca”. Evidentemente fuori di qua vivono su un altro pianeta, in cui enunciare una verità biologica verificabile praticamente in ogni specie in cui esista la differenziazione sessuale è “potenzialmente reato” (per non dire “d’opinione”, chè evocherebbe una sorta di censura - quale in effetti vi è oggi - dicono “d’odio”).
Nello stessa bacheca “voi siete tutti alla moda, artisti e sensibili” – “questa è omofobia” (e allora non si possono neppure fare i complimenti! Anche le delicatezze verbali sono “pregiudizio”, “discriminazione” e “odio”; praticamente non odia solo chi sta zitto).

Cos’è un “crimine d’odio”? Ve lo spiego con un frammento di filmaccio hollywoodiano visto per caso dalla tv lasciata accesa di casa mia. Dopo aver mostrato i duri addestramenti dei paracadutisti, le loro spacconate tipicamente yankee e le solite scene di guerra “alla rambo” (in cui i russi sono sempre nemici e i radicalisti islamici prendono il posto dei vietkong), il regista decide di mostrare uno di loro farsi agnellino alle prese con l’approccio di una appena passabile passera femminista:
-“posso offrirti da bere senza che sia considerato crimine d’odio?”- (io manco avrei attaccato discorso sapendo la controparte una propagandista universitaria che insegna “teorie di genere”, ma evidentemente il biondino del film era in lunga astinenza da crociato fantozziano).
-“scommetto che non sai fare un’altra battuta”- (ecco che le stesse femmine tanto veementi nel pretendere parità di diritti moderni tengono ben stretti i loro antichissimi privilegi, primo fra i quali quello di poter starsene sul piedistallo delle corteggiate a schernire chi ha il dovere sociale di farsi avanti per primo)
-“potrei ma non la farò”- “certo”- (sguardo di compatimento, di irrisione e di strafottente superiorità “culturale” di una lei che pare la quint’essenza della sinistra mondialista).
Bla bla bla e poi “ho studenti che potrebbero mostrare la tua battuta sul crimine d’odio come una micro-aggressione”. Quanto mi sarebbe piaciuto rendere il film interattivo per introdurre una riposta multipla:

1) “e se ti mando affanculo l’aggressione diventa macro?”;
2) “ti avranno insegnato tutto quello che sai” (battuta di Monkey Island indimenticabile per gli amanti di avventure grafiche della mia generazione);
3) “solo perché hanno come insegnante una che spara maxi-cazzate”.
L’aspirante paracadutista biondino (lo stesso che nella scena prima avrebbe doluto “far ingoiare tutti i denti” al suo istruttore) inizia invece, fra l’impaurito e l’affamato, a zerbinarsi alla tipa fino ad accettare come regola la di lei grande menzogna (pseudo)egalitaria, ricevendo in cambio un “ma non ho voglia di discutere i capisaldi della dottrina di genere con il primo ragazzo carino…”.
Ci sarebbe voluto l’angioletto (o diavoletto) custode a urlargli nell’orecchio: “ma ti rendi conto, brutto idiota, del tipo di “civiltà” che stai difendendo? Se non vuoi, per “sacro” patriottismo mettere in dubbio di essere davvero dalla parte giusta, ti converrebbe almeno cercare imparare qualcosa dai tuoi nemici quanto ai rapporti con le donne? Anche un grande sterminatore di turchi come il Principe Eugenio Von Savoy lo faceva!

Sempre dalla stessa America “democratica” provengono i tentativi di far apparire “scientifica” la grande menzogna egalitaria: come era falso un secolo fa il discorso behaviorista che voleva far credere la mente umana di qualsiasi uomo una tabula rasa programmabile con qualsiasi qualità, è falsa oggi la teoria del gender che (contro le evidenze dell’etologia, delle biologia, delle neuroscienze) vorrebbe far credere il genere sessuale essere una arbitraria “costruzione”.
Se anche le qualità personali e le sfumature di comportamento e di pensiero che crediamo discendere dal "puro spirito" sono in realtà determinate in gran parte dalla natura (geni, evoluzione ecc.), figuriamoci il sesso (che è già scritto in “xx” o “xy”)!

Il patetico tentativo di far credere il contrario discende solo dalla perfidia femminista del volerci impedire di bilanciare la naturale preminenza femminea nel “mondo come volontà” (quello degli istinti diseguali, dei desideri naturali dispari, dei bisogni psicosessuali asimmetrici, quello in cui davvero si decide della felicità individuale e del destino della discendenza, quello che si può davvero chiamare “metafisica” in quanto è la spiegazione non ulteriormente spiegabile di tutto il resto, la causa prima non causata di tutto quanto nel mondo semplicemente fisico si spiega con il legame causa-effetto - “si vuole vivere, mangiare, dormire e scopare semplicemente perché….si vuole”, mentre “si vogliono un buon lavoro, un buon guadagno, una buona posizione sociale proprio perché si vuole vivere bene, mangiare bene, dormire sicuri e scopare molto” - ) con le nostre costruzioni individuali (studio, lavoro, posizione sociale, fama, ricchezza, cultura, potere e quant’altro possa conseguire da merito o fortune di ognuno) o collettive (istituzioni civili, religioni, costruzioni artistiche o sociali e quant’altro uomini saggi hanno edificato nei secoli delle loro civiltà non già per opprimere ma per non essere troppo oppressi e dare anche a noi le stesse possibilità di scelta e la stessa forza contrattuale possedute per natura dalle donne in quanto davvero conta innanzi alla natura, alla discendenza ed alla felicità individuale) nel “mondo come rappresentazione” (proprio quello che vogliono bollare come “discriminazione”, “maschilismo”, “sessismo”, dopo aver negato la realtà di una “natura” in sé “sessista” a svantaggio degli uomini, se si considerano dal punto di vista individuale ed eudemonico le conseguenze dello schema biologico nel quale al sesso femminile è dato il privilegiato e “comodo” ruolo di poter star ferme ad attirare tutti e selezionare chi eccelle nelle doti qualificanti la specie e al sesso maschile quello ingrato, ”scomodo” e periglioso di propagare la vita – farsi avanti, competere, mostrare valore o primato, affrontare ogni rischio, colpa e dolore nella speranza di essere scelti - in conseguenza di un desiderio che sia accende con la rapidità del fulmine e muove all’azione con l’intensità del tuono non appena la bellezza – o vogliam dire la sua illusione – si rende sensibile nelle grazie che, per dirla con Dante, è bello tacere ma che con Schopenhauer esamineremo a campione fuori da ogni poesia).

Perché si cerca di emergere nello studio, di procurarsi un lavoro ben rispettato e remunerato, di raggiungere una posizione di preminenza o almeno prestigio nella società? Non perché studio, lavoro e posizione sociale non sono natura siano mondo come volontà (sono solo costrutti sociali, solo rappresentazione)! Ma perché si vuole essere riconosciuti, si vuole avere possibilità di vivere liberi e felici, si vuole sentirsi apprezzati sessualmente e socialmente (questi sono gli impulsi fondamentali).
E, poiché già dalla bellezza hanno le donne la possibilità di essere universalmente mirate, socialmente accettate e amorosamente disiate (al primo sguardo e per quello che sono, senza dover obbligatoriamente fare qualcosa per “dimostrare” o compiere particolari imprese cui sono invece costretti i cavalieri i quali senza esse restano puro nulla socialmente trasparente e negletto dalle “dame”), già dai loro ruoli naturali di madri, amanti o confidenti hanno esse la possibilità di influire nelle scelte degli uomini (e quindi nell’andamento del mondo) tramite quanto di essi vi è di più profondo e irrazionale (e quindi influenzabile), già da giovani, senza alcun bisogno di affermarsi nelle varie costruzioni culturali, ricevono ovunque il sorriso degli astanti, lo sguardo dei passanti, i complimenti dei parlanti e le tacite o esplicite profferte di tutti (e, con esse, implicitamente, l’apprezzamento, l’ammirazione, l’accrescimento di autostima) è veramente disumano non voler riconoscere come, se davvero c’è (o c’era) qualcosa di prevalentemente maschile negli studi più socialmente ed economicamente riconosciuti (come quelli tecnico-scientifici), nelle attività più remunerate (oltre che, spesso, pericolose e faticose o comunque più stressanti psicologicamente e più implicanti rinunce in termini di tempo libero e stile di vita), nell’arte più seguita e rappresentata (come il cinema) la causa sia non una fantomatica discriminazione, non un presunto soffitto di vetro, non un maschilismo strisciante, bensì un reale e orgoglioso, umano e disperato, tentativo dei migliori fra gli uomini di avere quanto quasi tutte le donne hanno in termini di “pari opportunità” effettuali (e non solo teoriche).

Invece, come involontariamente mostra la stessa scena del film propagandistico filofemminista, le donne raccontano di “lottare contro le discriminazioni di genere” nello stesso momento in cui, con sciocca superficialità o consapevole perfidia, sfruttano senza limiti, remore né regole le disparità naturali in loro favore nella sfera erotico-sentimentale e da lì in tutto.
Ovvio che per poter continuare a fare le doppiogiochiste hanno bisogno di convincere la fallace mente umana maschile che quegli stessi privilegi naturali femminili che stanno sfruttando non esistano! Ecco dove nasce “Il gender”, il genere sessuale come pura costruzione!
Tutta una gigantesca costruzione teorica senza alcuna dimostrazione nella realtà biologica e quotidiana volta primieramente a tacciare di maschilismo, discriminazione ed odio l’uomo che vuole soltanto bilanciare in desiderabilità e potere la bellezza femminile e l’influsso materno, rendere pari le opportunità di vivere liberi e felici fra uomini e donne, ed acquisire socialmente quella posizione necessaria ad essere desiderato, apprezzato, accettato per poter finalmente amare su un piano di parità colei da cui è attratto per natura. Tutto questo si chiama oggi “crimine d’odio”.

E allora sia giusto odiare. Sia doveroso odiare. Sia un diritto odiare. Già Oswald Spengler aveva intuito che odiare è un diritto di ogni uomo ben nato al pari di amare. Del resto lo stesso “progressista” Carducci (l’autore dopo tutto dell’Inno a Satana identificato nella locomotiva e quindi nell’avanzamento tecnologico contro religioni e misticismi) aveva un “petto ov’odio e amor mai non s’addorme”.
Meglio, mille volte meglio un odio sincero, sgorgante dal più profondo di un animo che ama la verità e la vita (motivato dai fatti che ci vedono impediti di compensare in desiderabilità e potere quanto le donne hanno per natura da disparità di numeri desideri e da predisposizioni psicologiche ad esser madri, potenzialmente accusabili di molestia per uno sguardo o per un complimento e di violenza per un invito o un approccio, culturalmente accusati di sessismo quando semplicemente non nascondiamo il nostro desiderio per la bellezza, non reprimiamo o pervertiamo i nostri impulsi più forti, profondi e sani e seguiamo la nostra natura, i nostri bisogni d’ebbrezza e piacere dei sensi, i nostri comportamenti “sessualmente poligami”) piuttosto che l’amore falso per la presunta umanità senza genere e senza patria (quello delle boldriniane sacerdotesse dell’accoglienza e dell’inclusione che, nei fatti, rendono sempre più invivibile la vita degli uomini reali e sempre più morta l’identità nazionale).

Esse commettono, come spiegato, l’ingiustizia (eterni privilegi di natura e cultura assieme ai moderni diritti, sentenza a senso unico nei divorzi, distruzione dell’oggettività e della certezza del diritto nelle cosiddette violenze o molestie, stronzaggine eletta a modus vivendi sociale e sessuale nei termini da me precisati più volte su questo forum) e poi pretendono di poter chiamare odio ogni possibile contromossa da parte nostra. La scusa dell’odio è ideata dal femminismo politicamente corretto solo per mettere a tacere qualunque contestazione, qualunque argomento, qualunque risposta alla propaganda femminil-femminista, specie quando la narrazione ufficiale sarebbe in difficoltà a negare l’evidenza. Poiché l’evidenza non può essere ovviamente negata, si è inventato il reato d’opinione (anzi d’odio) perché sia almeno taciuta. Per timore di perdere il lavoro, di dover pagare una multa o semplicemente per brama di essere considerati “socialmente evoluti”. E gli intellettuali di sinistra ci sono cascati tutti. Pecore da gregge!

Più coglioni di quel paracadutista del film, con l’aggravante di aver studiato e di non aver capito nulla.
E poi parlano di scienza? E poi dicono che sono i “populisti” ad opporsi alla scienza? Ma cosa è scientifico? Ciò che può essere messo in dubbio (Poppet docet, limitatamente a questo).
La storia romana è scienza, perché chiunque può mettere in dubbio che Giulio Cesare sia stato davvero il quel grande conquistatore che si è autoraccontato o che Nerone abbia davvero dato alle fiamme Roma come racconta la propaganda filo-senatoria prima e filo-cristiana poi. Ci sono i documenti per discutere e le fonti per provare a giudicare con distacco.
La storia del novecento non è scienza, perché nessuno può mettere in dubbio la versione fornita dai vincitori (i “cesari” moderni) e soprattutto nessuno può culturalmente dubitare che la visione del mondo sedicente “democratica” sia davvero “universalmente preferibile” a tutte le alternative via via eliminate con le due guerre mondiali e la guerra fredda (prussianesimo, zarismo, fascismo, comunismo ecc.). Peggio, nessuno può neanche immaginare un paradigma politico-culturale diverso da quello “egalitario” e “progressista” perché il solo fatto di mettere in dubbio gli “immortali principi” è considerato “umanamente inaccettabile” (ecco perché Putin è anacronisticamente bollato come “fascista” anche quando non fa altro che difendersi da una Nato la quale fa “espansione di spazio vitale ad est” esattamente come il III Reich). Peggio ancora: la storia non è più oggetto di studio distaccato (se mai lo è stata), ma è il mito fondativo del presente con il quale si pretende di decidere il futuro dei popoli. Tanto che ogni “deviazione” dal “destino manifesto” viene a priori condannata tramite il riferimento sistematico alla “storia” (che però viene identificata non con l’intero sviluppo etnoculturale e storico-politico dei vari popoli, ma con l’esatto segmento di tempo in cui chi governa il mondo oggi è diventato padrone del vapore).

Almeno sulla storia della nostra piccola vita di uomini singoli potremmo avere ancora diritto di parola?
O volete usare la grande storia anche per dire che quanto abbiamo vissuto e continuiamo a vivere non sia vero?
Quindi vi invito a dubitare di tutto mettendo ogni teoria a confronto con la nostra esperienza quotidiana. La scienza deve infatti spiegare anche quanto è realtà spiccia (come l’acqua che bolle ad un po’ più di 100 gradi se ci mettiamo del sale). Se la migliore teoria scientifica non è in grado di spiegare quanto vediamo tutti i giorni deve essere rigettata o comunque rivista. Non fidatevi quindi degli antropologi che per sostenere le loro teorie vi invitano ad andare con loro in Africa o in Polinesia, oppure ad attendere che una ninfomane vi si butti fra le braccia. Guardate in voi, nei vostri sensi, nei vostri istinti, nei vostri desideri, per verificare se quanto vi dirò qui sull’amore sessuale sia vero o meno. Pensate alla vostra vita. Pensate alle gnocche di cui scrivete o alle melanzane di cui vi lamentate. Non vi è verifica più probante di quella degli istinti. Il ragionamento può sbagliare, la mente può mentire, ma le narici ed il basso ventre non mentono e non sbagliano mai.

Secondo Schopenhauer, L’Amore…

È fondato sul sesso

“Ogni innamoramento, per quanto si atteggi a etereo, è radicato esclusivamente nell’istinto sessuale, anzi non è che un istinto sessuale ulteriormente determinato, specializzato e addirittura individualizzato nel senso più rigoroso del termine.“

Vi siete mai davvero innamorati di una donna che non vi attraesse? Avreste mai voluto da una donna che trovavate bella “solo amicizia”? Avendo di fronte la donna più bella del mondo, vorreste davvero soltanto parlare di poesia?

*Ma è una forza metafisica...

“Ciò che alla fin fine attira con tanta violenza due individui di sesso diverso esclusivamente l’uno all’altro è la volontà di vivere che si manifesta nell’intera specie.
Non vi siete mai detti “quanto è egoista l’amore”?*

... e una misteriosa prescrizione

Uomini e donne, finché la vecchiaia non li abbia ridotti a un’esistenza quasi vegetale, si abbandonano incessantemente all’infaticabile ricerca del compagno loro conveniente. Il passante e la sconosciuta che sfiorandosi per strada si scambiano un’occhiata, o coloro che si sbirciano da lontano a teatro, il popolano che alza gli occhi verso le imperatrici, la gran dama che getta lo sguardo su qualche povero diavolo e lo trova ben fatto ... tutti sono guidati dal medesimo istinto, tutti obbediscono alla stessa misteriosa prescrizione... Una bocca sorridente, che mette in mostra bei denti, vi fa sognare un giorno intero: è perché la bellezza dei denti, che svolge un ruolo tanto importante come condizione per il compiersi delle funzioni digestive, è eminentemente ereditaria. Una gamba elegante e un piede grazioso vi precipitano in pericolose emozioni; non crediate che ciò accada perché gambe degne di Diana su piedi ben fatti siano, secondo il detto di Gesù Siracide, come colonne auree su basi d’argento: è perché le dimensioni minori del tarso e del metatarso distinguono l’uomo e la donna da tutti i loro fratelli del regno animale. Una bocca fine e l’ovale sottile del viso vi estasiano: è che la strettezza delle mascelle è caratteristica del volto umano. Un mento sfuggente non vi piace: è perché la sporgenza del mento, mentum prominulum, è un tratto esclusivo della razza umana.
Alzi la mano chi non ama un bel paio di gambe, una boccuccia delicata, un viso da dipinto. Come si può non vedere in qualcosa che ci trascende (che è, appunto meta-fisico) la ragione per cui, senza alcun motivo, ci voltiamo verso una sconosciuta rapiti dalla sua bellezza e con l’intenzione pure di seguirla. E per la quale anche la sconosciuta, a volte, ricambia lo sguardo. Qui tutto è spiegato.

Una follia
Questa elevata, reciproca passione dei futuri genitori, che tutto sminuisce fuorché se stessa, è un vaneggiamento senza pari in virtù del quale l’innamorato darebbe tutti i beni del mondo per copulare con una certa donna, la quale in verità non gli procura un piacere maggiore di quello che egli avrebbe con una qualsiasi altra.
Qua pare di sentire davvero una discussione fra scapoli e ammogliati all’uscita di un FKK. Il marito un tempo innamorato che ha speso (per matrimoni, figli, divorzi ecc.) a causa di una donna di medio livello estetico-intellettuale quanto gli sarebbe bastato per spassarsela nel lusso (e con escort di lusso) per anni. Il coetaneo single che si vanta di non aver mai ceduto all’inganno. E l’uno e l’altro ad invidiarsi segretamente a vicenda. L’uno per non poter più godere realmente (no cash ormai), l’altro per non aver mai avuto almeno l’illusione di godere massimamente (l’ora è fuggita).

È cieco
La volontà della specie è talmente più potente di quella dell’individuo da far chiudere gli occhi all’innamorato su tutte le caratteristiche per lui ripugnanti, da farlo passare sopra a tutto, da fargli disconoscere tutto e da indurlo a legarsi per sempre con l’oggetto della sua passione: così interamente lo acceca quella illusione, la quale, non appena sia appagata la volontà della specie, svanisce, lasciandogli dietro un’odiosa compagna di vita. Solo così si spiega perché vediamo spesso uomini molto ragionevoli, anzi eccellenti, uniti a vipere e diavoli di mogli, e non comprendiamo com’essi abbiano potuto fare una scelta del genere.

Come si vede, anche duecento anni fa si facevano nei bar di Danzica le stesse considerazioni dei 3D di gnoccatravel. Pare di leggere i post di chi si felicita di non aver commesso gli errori dei coetanei che hanno sposato le melanzane.

È commedia o tragedia
L’innamoramento negli esseri umani presenta spesso fenomeni comici, talvolta anche tragici; gli uni e gli altri perché gli uomini, posseduti dallo spirito della specie, ne sono ora dominati e non appartengono più a se stessi.
Chi, ripresosi da un’illusione amorosa, non si è mai sorpreso a maledirsi per la figura ridicola che ha fatto davanti a sé o al mondo per una gnocca o per il danno che a causa della gnocca è ricaduto sulla sua vita?

È poesia
La sensazione di operare in faccende di importanza tanto trascendente eleva l’innamorato così in alto al di sopra di tutte le cose terrene, anzi al di sopra di se stesso, e dà ai suoi desideri molto fisici un rivestimento tanto metafisico da far diventare l’amore un episodio poetico perfino nella vita dell’uomo più prosaico.
Difatti non ho mai valutato con troppa indulgenza i poeti d’amore. Tutti sono capaci di scrivere poesie da innamorati. I veri poeti sono quelli che sanno cantare il sentimento profondo in ogni momento della vita, quando gli altri uomini vedono solo la banalità. Vero poeta è, per eccellenza, l’altro pessimista coevo di Schopenhauer, Leopardi. Per un pelo un giorno, a Venezia, non si poterono incontrare!

Non è la religione della bellezza
L’amore è per voi una religione; amando, voi credete di praticare il culto della bellezza e di entrare nei concer ti celesti. Non inebriatevi di parole: no, voi risolvete, a vostra insaputa, un problema di armonie fisiologiche.
Chi non ha mai parlato di “chimica” a proposito dell’attrazione reciproca, sia fisica, sia mentale, con una gnocca? Specie quando, vista da altri occhi, la stessa gnocca non pare di bellezza e intelletto così speciali? Qui c’è la base scientifica.
È il sospiro della specie
Lo struggente desiderio d’amore, l’ίμερος, che i poeti di tutti i tempi si sono incessantemente affannati a esprimere in innumerevoli variazioni, senza mai esaurire l’argomento, anzi senza riuscire a rendergli giustizia, questo desiderio che collega al possesso di una determinata donna l’idea di una beatitudine infinita e al pensiero che non lo si possa conseguire un indicibile dolore – questo desiderio e questo dolore dell’amore non possono attingere la loro materia dai bisogni di un individuo effimero, ma sono il sospiro dello spirito della specie, la quale si vede qui in procinto di acquistare o perdere un mezzo insostituibile per i suoi fini e manda quindi un, gemito profondo.

Ecco spiegato, con parole migliori delle mie, il significato di “metafisica” nel caso dell’amore sessuale. Ecco perché l’amore non è mai un fatto borghesemente “individuale”.

È una trama occulta

Se noi ora ... guardiamo nel guazzabuglio della vita, scorgiamo che gli uomini, immersi nella miseria e nelle sofferenze, si affannano con tutte le loro forze per soddisfare i loro infiniti bisogni e per evitare il dolore nelle sue molteplici forme, senza tuttavia poter sperare in cambio nient’altro che di conservare per un breve lasso di tempo proprio questa tormentata esistenza individuale. Eppure, in mezzo a quel guazzabuglio vediamo gli sguardi di due innamorati incontrarsi spasimando di desiderio: ma perché sono così misteriosi, trepidi e furtivi? Perché quegli innamorati sono dei traditori: tramano di nascosto per perpetuare tutte quelle miserie e tutti quei tormenti che altrimenti avrebbero avuto presto una fine, una fine che essi vogliono impedire, come prima di loro l’hanno impedita i loro simili.

Qui il pessimismo di Schopenhauer (la cui radice affonda, come nel caso del Leopardi, nella constatazione inevitabile che, posta la felicità come fine dell’individuo effimero, la vita è necessariamente infelice essendo la natura del piacere sempre “sperata” e quindi futura e illusoria –ché nell’appagamento il piacere stesso svanisce e nel raggiungimento qualunque meta perde quell’aurea di idealità che la rendeva desiderabile da lontano - e quella del dolore invece sempre presente e reale) è in grado vedere in chiaroscuro la vita come un romanzo misterioso. Aveva proprio ragione il Leopardi: l’opera di genio serve sempre di consolazione.

Attenti all’amore!

L’amore è il male. Codesto turbamento che vi rapisce, codesta serietà e codesto silenzio sono una meditazione del genio della specie. L’adolescente pronto a morire per colei che ama e il cui fiero sguardo non ha che lampi di generosità; la vergine che avanza circonfusa della sua grazia come di un’aurora, rivestita di una bellezza che fa mormorare tra loro come cicale i vecchi e cadere in ginocchio chiunque abbia un cuore umano, sono due macchine nelle mani di questo genio imperioso. Esso non ha che un pensiero, un pensiero positivo e senza poesia: la durata del genere umano. Ammirate, se volete, i suoi procedimenti; ma non dimenticate che esso non pensa che a colmare i vuoti, a riparare le brecce, a mantenere l’equilibrio tra le provviste e la spesa, a tenere sempre abbondantemente popolata la stalla in cui il dolore e la morte recluteranno presto le loro vittime.

Tutto lo stilnovo è riassunto nella prosa del filosofo di Danzica, ma qui la scienza non è “dottrina religiosa”, ma realtà fisica. Dietro l’attrazione sublimata in poesia c’è la prosaica realtà della specie. Ecco perché Nietzsche aveva ragione nel sostenere che in un uomo di intelletto “Il grado e la specie della sessualità si elevano fino alle vette del suo spirito”. Ecco perché prima dicevo che anche le qualità apparentemente più “angelicate” hanno una base biologica.

L’amore esclusivo

È un’illusione della voluttà a ingannare l’uomo, facendogli credere che troverà fra le braccia di una donna, dalla bellezza conforme ai suoi ideali, un piacere più grande che in quelle di una qualsiasi altra; o addirittura a convincerlo fermamente, se indirizzata esclusivamente su un’unica donna, che il possederla gli procurerebbe un’immensa felicità.
Su questo, credo, siamo tutti d’accordo. Altrimenti non saremmo su gnoccatravel, ma fra le braccia dell’onesta consorte.

L’amore spirituale
Fu una donna, Diotima, che insegnò a Socrate la scienza dell’amore spirituale; e fu Socrate, il divino Socrate, che, per eternare a suo piacimento il dolore della terra, trasmise al mondo, attraverso i suoi discepoli, questa scienza funesta.

Però sono stato il divino Platone e il grande Plotino a renderla organismo filosofico sulla cui base i Bembo, i Ficino costruirono l’immenso edificio della poetica e della filosofia umanistico-rinascimentale.

L’amore vero

Poiché non esistono due individui perfettamente uguali, ci sarà una sola determinata donna che corrisponderà nel modo più perfetto a un determinato uomo. La vera passione d’amore è tanto rara quanto il caso che quei due si incontrino.

Questo spiega statisticamente perché ci siano tanti uomini disillusi sull’amore eppure qualcuno che ancora lo magnifica con la prosa, la poesia o la vita.

L’amore in tempi di contagio

La sifilide estende i suoi effetti molto più in là di quanto potrebbe apparire a prima vista, poiché tale influsso non è semplicemente fisico, ma pure morale. Da quando la faretra di Amore contiene anche dardi avvelenati, nel rapporto reciproco dei sessi è intervenuto un elemento estraneo, ostile, anzi diabolico, e in ogni relazione è penetrata un’oscura e terribile sfiducia.

Almeno, due secoli dopo, usiamo sempre il preservativo!

Amore e fede

L’amore è come la fede: non si può ottenere con la forza. Cupido, dio dell’amore Gli antichi personificarono il genio della specie in Cupido, un dio ostile, crudele e quindi malfamato, malgrado il suo aspetto infantile, un demone capriccioso e dispotico, e però signore degli dèi e degli uomini: σύδ’ ώθεών τύραννεκ’,ανθρώπων, Έρως!
(Tu, deorum hominumque tyranne, Amor!)
[Tu Amore, tiranno degli dèi e degli uomini!]
Micidiali saette, la cecità e le ali sono i suoi attributi. Queste ultime alludono all’incostanza: la quale subentra di regola con la delusione che è conseguenza dell’appagamento.

Qualche tempo dopo Nietzsche dirà “il cristianesimo diede del veleno da bere ad Eros: ei non ne morì, ma si tramutò in vizio”.

Spinoza

La definizione dell’amore di Spinoza, per la sua esuberante ingenuità, merita di essere riportata al
fine di rasserenare: Amor est titillatio, concomitante idea causae externae
(Ethica, IV,prop. 44, dem.).

Per la sua solleticante coglionaggine, Spinoza andrebbe eletto “padre spirituale” degli antropologi culturali, degli intellettuali progressisti e del politicamente corretto.

Amore allo specchio

Un uomo che ama senza speranza la sua bella crudele può paragonarla epigrammaticamente allo specchio concavo, poiché quest’ultimo, come la donna amata, brilla, incendia e consuma, rimanendo esso stesso freddo.

Qui sta tutto il vantaggio delle donne, poter suscitare disio con la bellezza e quindi senza dover ancora entrare in contatto emotivo con il desiderante. Qui sta tutta la nostra difficoltà: essere angustiati dal desiderio prima ancora di aver possibilità di mostrare a nostra volta eventuali doti di sentimento o intelletto con cui poter essere apprezzati. Altro che “cervello multitasking” o “intelligenza più raffinata”! Il “fica-power” può essere riassunto nell’immagine dello specchio concavo. Concavo, appunto, come una vagina.

Amanti e pensieri

La presenza di un pensiero è come la presenza di un’amante: noi crediamo che non dimenticheremo mai il pensiero e che l’amante non ci sarà mai indifferente. Eppure, lontano dagli occhi lontano dal cuore: anche i pensieri più belli, se non li abbiamo fissati sulla carta, diventano irrecuperabili, e all’amante, se non l’abbiamo sposata, cercheremo un giorno di sfuggire.
Questo accostamento fra amore e pensiero è probabilmente una delle osservazioni più profonde e vere siano mai state enunciate. Mi smentisca qui chi non si è mai illuso e poi disilluso sulla presunta “fissità” dell’attrazione.

Il suicidio per amore

Nei gradi più alti dell’innamoramento questa chimera si fa poi così radiosa che, se non può essere raggiunta, la vita stessa perde ogni attrattiva e appare ormai così vuota di gioia, insulsa e inaccettabile che la nausea che suscita supera perfino il terrore della morte, per cui allora viene talvolta accorciata volontariamente. Qui la volontà dell’uomo è caduta nel vortice della volontà della specie, oppure questa ha preso a tal punto il sopravvento sulla volontà individuale che, se quest’ultima non può operare in quanto specie, disdegna di farlo anche in quanto individuo. L’individuo è qui un vaso troppo fragile per poter sopportare l’infinita brama della volontà della specie concentrata su un oggetto determinato. In questo caso, dunque, l’esito è il suicidio, talvolta il doppio suicidio degli amanti: a meno che la natura, per salvare la vita, non faccia subentrare la follia, che ricopre allora con il suo velo la coscienza di quello stato senza speranza.

Meglio, molto meglio delle elucubrazioni contemporanee femministe sul cosiddetto femmicidio-suicidio in chiave vittimistica a senso unico, questa disamina di Schopenhauer spiega le “ragioni” della “follia” omicida-suicida. Proprio perché a volte nell’uomo è realtà e non finzione il verso che il Tasso rivolse all’amata nelle languide Rime (“vita de la mia vita”), una volta abbandonato da essa si uccide o uccide. Una volta spenta la prima vita (la donna amata “partita”), la seconda non ha più senso. In conseguenza neanche più legge. E quindi, detto per inciso, a nulla valgono educazione, propaganda, leggi speciali, cultura eccetera, per contrastare certi episodi, perché l’educazione è una costruzione che richiede a priori un senso, la propaganda è rappresentazione che necessita di uno spettatore interessato, le leggi speciali sono minacce verso chi valuta razionalmente il futuro, perché tutto quanto il progressismo chiama “cultura” è in fondo apparenza (rispetto alla “natura”, con tutte le riserve del caso sulla discutibile e prima discussa distinzione natura-cultura). E come si può educare, far riflettere, minacciare, con l’apparenza, chi vuole uccidere o morire perché non vede più alcun senso, alcun interesse a vivere, perchè il suo mondo come volontà non ha più le condizioni di vita? L’incapacità delle donne moderne di comprendere questo punto non finisce mai di stupire. Ma forse basterebbe dire che non vogliono capire per non far crollare il mito della loro presunta maggiore sensibilità amorosa. Giacché questo è chiaro: se sono prevalentemente gli uomini a disperarsi per amore fino ad uccidere e ad uccidersi (quando in caso contrario le donne si rifanno una vita con un altro uomo, a volte pure con i soldi del primo, e in certi casi pure pianificando la fuga dopo aver ucciso o fatto uccidere l’ex-marito) non possono certo essere le donne a “conoscere di più il vero amore”. La loro maggiore “razionalità”, la loro superiore “capacità di risolvere il problema psicologico” potrebbero semplicemente essere lette come maggiore falsità di fondo nell’amore. Possono “passarci sopra” perché per loro il cosiddetto amore era più prosaicamente interesse, progetto di vita, benessere sentimentale.

Se nemmeno Schopenhauer vi ha convinto ed ancora credete agli antropologi che vi raccontano di desideri uguali fra uomini e donne, fate almeno un esperimento mentale.

Pensate a due speci, chiamiamole A) e B).

In A) come pretenderebbero gli antropologi culturali, gli impulsi siano “naturalmente” uguali (anziché, come io dico, opposti complementari) fra maschi e femmine.

In B) invece il desiderio dei primi verso le grazie delle seconde sorga con molta maggiore immediatezza ed infinita maggiore intensità rispetto al reciproco.

Supponiamo inoltre che le doti qualificanti la specie si trasmettano per via genetica e siano rilevanti nel caso maschile in quanto le cure parentali (e la “protezione sociale”) del padre sono decisive per la sopravvivenza della futura prole (in pericolo invece nel caso di un padre disinteressato, assente o “debole”, o di una madre sola). Tale supposizione, per inciso, è biologicamente verificabile nei mammiferi (laddove per società si consideri quella studiata dall’etologia, non i costrutti culturali degli antropologi).

La specie A) tenderebbe a formare società in cui i migliori maschi e le più belle femmine si cercano e si incontrano naturalmente, mentre i mediocri di ambo i sessi finiscono per accontentarsi l’uno dell’altra. Come risultato, tutti o quasi si accoppiano e tutti i geni si trasmettono. E’ quello che gli antropologi raccontano succederebbe nel mondo umano presente.

La specie B) tenderebbe a costruire società in cui i pochi maschi portatori dei geni “migliori” conquistano di fatto l’interesse di tutte le femmine in quanto queste, meno interessate al sesso, preferiscono rimanere solo ed aspettare (anche se spesso in vano) “Il principe” piuttosto che “accontentarsi” di un maschio mediocre. I maschi, invece, non possono fare a meno del sesso, e pur di ottenere le grazie di una sia pur mediocre femmina, danno vita ad una competizione feroce e disperata (nella quale “i migliori” rilucono ancora di più). Come conseguenza, solo i maschi portatori dei geni “migliori” trasmettono il proprio patrimonio, mentre i mediocri muoiono senza scopare e senza figliare. E’ quello che vediamo tutti i giorni nel mondo reale e non è contraddetto dal fatto che anche gli sfigati si sposino. Semplicemente, la struttura sociale del matrimonio monogamico fu inventata proprio per dare un “contentino” agli uomini “beta” (la mogliettina mediocre), impedendo agli “alfa” di sposarne cento alla volta come Priamo. Nel mondo del sesso “libero” la “legge della giungla” emerge invece in tutta la sua brutalità. Ed è per questo che esiste e deve esistere (se non si vuole anche la violenza della giungla) la prostituzione.

Pensate un po’ dal punto di vista spietato e disumano della Natura Onnipossente, quale, fra le speci A) e B) ha maggiore probabilità di sopravvivere del evolvere. La A) dove tutti i geni si trasmettono o la B) dove lo fanno solo i “più adatti”?

Dovete poi sapere che in molti aspetti della ricerca scientifica, in mancanza di altri elementi di valutazione, si può assumere per vera l’ipotesi “più efficiente”, con l’argomento sufficiente che “la natura di solito sceglie quella”. E’ così persino nella meccanica razionale (quando si minimizza l’energia potenziale per trovare la condizione di equilibrio). E’ così nella biologia, dove l’evoluzione si cura di eliminare le combinazioni meno “efficienti”. Negli studi “information theory oriented” sul metabolismo cellulare, processo complesso (fondamentale per la comprensione dei meccanismi che generano e che, se opportunamente corretti, potrebbero invece impedire, i tumori) in cui l’associazione fra gli “input” (codice genetico) e gli output (prodotti della cellula, riproduzione della stessa ecc.) avrebbe teoricamente miliardi di combinazioni valide, si prende per verosimile quella che massimizza gli output.

Perché per interpretare la sessualità umana, dovendo scegliere fra A) e B), abbiamo ancora dei dubbi?

Beyazid_II
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18/07/2018 | 15:05

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INTERMEZZO E ANTICIPAZIONI (PAGINE DI META’ VOLUME CON ILLUSTRAZIONI)

Siamo arrivati a metà circa di questa specie di romanzo a puntate nato per spiegare il mio nick. Come a metà di ogni libro, non saranno inappropriate alcune illustrazioni.

Scelgo qui, dalla Gerusalemme Liberata, quei due personaggi femminili che, nella discussione appena avuta, rappresentano per me i due volti dell’interiorità maschile non solo del Tasso, ma di qualunque giovane maschio debba preservare la propria sensibilità, la propria ingenua capacità di stupirsi e di amare, la propria sincerità di affetti in un mondo in cui la società e le donne lo pretendono invece tetragono (ai colpi della sventura come a quelli della perfidia), freddamente intelligente, ed impenetrabilmente “guerriero”.

Non posso non partire da Erminia, vera e propria trasposizione letteraria del poeta che ha conosciuto l’amore infelice per la sorella di Alfonso II d’Este, immagine e quasi simbolo del fanciullo interiore in cui ciascuno di noi si è trasformato almeno una volta nella vita nel momento in cui è stato attratto, con la rapidità del fulmine e l’intensità del tuono, dalla bellezza (o, per meglio dire, da quell’insieme di grazia, leggiadria, mondanità, attesa ingenua della vita e gioia innocente che persino le fanciulle per cui non proviamo interesse sanno, come rileva quel memorabile brano dello Zibaldone, suscitare) e ha sentito di non avere ancora alcuna arma sotto mano per contrapporsi, bilanciare, attirare a sua volta.

Mi è sempre sembrata molto più maschile che femminile questa figura di amante ignorato, preso dalle sue fantasticherie e infelice. Se non altro perché fin da giovanissime le femmine non sono senz’armi, avendo appunto la bellezza (quando questa manca supplisce l’illusione generata dal nostro desiderio) e mille altri trucchi (per lo più derivanti, o dalle disparità psicologiche correlate alla predisposizione materna a comunicare anche senza parlare, a plasmare un’anima quando è ancora “verde come fogliolina pur mo’ nata” e quindi a capire in anticipo i bisogni, le paure e i punti deboli per “manipolare”, o dalla convenzione sociale e naturale che impone pressoché soltanto al maschio l’ingrato, periglioso, faticoso e doloroso compito di uscire allo scoperto, senza certezze, senza orientamento, senza scudi e senza armatura, nelle faccende erotico-sentimentali dell’ars amandi in tutto e per tutto assimilabile a quella bellica) per farsi notare (e quindi apprezzare).

Quando miriamo le grazie dei una fanciulla, la idealizziamo, la accostiamo alla “intatta luna”, a quell’alone di luce diffusa che ammanta ogni cosa lontana di una vaghezza sconosciuta alle cose vicine (perché “in luogo degli occhi del corpo vedono gli occhi dell’immaginazione”), a quell’aurea di idealità armoniosa e beata che rende le cose sognate infinitamente superiori alle cose reali (proprio perché non ancora dissolte dal contatto col reale come avveniva nel castello di Atlante), a quella stessa luna sul cui lato oscuro, come insegnava l’Ariosto, finiscono tutte le cose perse sulla terra (dalle promesse non mantenuta al tempo dissipato dai fannulloni, dai sospiri degli amanti al senno di Orlando) e quindi ci predisponiamo a mutare le nostre debolezze erotiche in altrettante debolezze sentimentali, ma al contempo sappiamo come difficile sia poter trovare in noi qualcosa di altrettanto immediatamente evidente ed intersoggettivamente valido con cui far sembrare gradito e non molesto il primo dialogo con la portatrice di bellezza, come raro sia, anche procurata l’occasione, trovare le parole e i modi per rendere sensibili all’udito e all’anima eventuali doti di sentimento o intelletto potenzialmente apprezzabili dall’interlocutrice, come quasi impossibile risulti, anche nella rara occasione di colloquio solus ad solam, comunicare un desiderio, un apprezzamento, un flusso di sentimenti, che non si confondano con la brutalità, la banalità, la finzione, siamo davvero come Erminia sulle mura di Gerusalemme quando non ha che gli occhi lucidi, le mute labbra e il sospiro rotto per esprimere l’amore verso Tancredi (che ha la possibilità di combattere ed è universalmente ammirato).

Il re dei Saraceni chiede ad Erminia (che aveva conosciuto Tancredi assieme agli altri cavalieri cristiani durante un periodo di prigionia dorata) chi sia quel cavaliere così feroce in viso e abile nelle armi. Ed ella sulle prime non riesce neanche a rispondere, vinta dall’emozione, dal rossore e dalla voce rotta dal pianto e dal sospiro (impiegherà un po’ per dissimulare l’indifferenza e l’odio richiesti dal suo ruolo di nemica dei cristiani):

“Chi è dunque costui, che così bene
s’adatta in giostra, e fero in vista è tanto? –
A quella, in vece di risposta, viene
su le labra un sospir, su gli occhi il pianto.
Pur gli spirti e le lagrime ritiene,
ma non così che lor non mostri alquanto:
ché gli occhi pregni un bel purpureo giro
tinse, e roco spuntò mezzo il sospiro.”

Raramente ho visto in una donna una reazione simile al solo vedere un uomo da cui un tempo ha ricevuto soltanto un sorriso e qualche gentilezza. E’ la natura stessa a difenderla da questo genere di debolezza erotico-sentimentale (poiché suo è il privilegiato ruolo di selezionatrice di vita che le permette almeno in principio di attirare senza essere attirata e la pone piuttosto sul freddo piedistallo “turandottiano” di “gelo che ti dà foco e dal tuo foco più gelo prende”). Poiché il suo istinto è sentirsi bella e disiata per poter attirare tutti e selezionare fra tutti colui che eccelle nelle doti volute (in quanto qualificanti la specie) non potrà quasi mai sentirsi rapita (come noi) al primo sguardo (ché se i desideri fossero uguali fra i sessi non vi sarebbe la selezione sessuale), ma semmai, essere soltanto poi “incantata” dal suono della parole, dal significato della azioni, dalle prospettive di vita, quando già ha avuto modo di mettere alla prova, sondare, valutare. Prima che ciò possa anche solo essere immaginato, una bella ragazza resta inizialmente molto più simile, con il suo viso truccato ed il suo abbigliamento leggiadro alla moda ovvero sessualmente “aggressivo”, al Tancredi così abile nella mondana giostra delle armi e feroce nel viso. Tante volte invece, davanti alle grazie di una fanciulla o alle bellezze di una donna, io mi sono sentito Erminia, anche e soprattutto quando, conscio dell’incomunicabilità o comunque della difficoltà di risultare credibile come cavaliere, dell’irrealtà insomma di certe situazioni giovanili, volevo convincere me stesso di non essere interessato ed esteriormente mi comportavo di conseguenza.
Erminia è invece tanto innamorata da tentare l’irreale. Prende le armi di Clorinda e, così travestita, esce dalle mura sorvegliate per andare in cerca di Tancredi.

“ Era la notte, e ’l suo stellato velo
chiaro spiegava e senza nube alcuna
e già spargea rai luminosi e gelo
di vive perle la sorgente luna.
L’innamorata donna iva co ’l cielo
le sue fiamme sfogando ad una ad una,
e secretari del suo amore antico
fea i muti campi e quel silenzio amico. “

Perfetta è la consonanza fra il paesaggio lunare in cui la fanciulla si aggira e la passione silenziosa della sua anima. Ma è davvero un’anima femminile? Una volta, in intimo colloquio virtuale con quel personaggio femminile per antonomasia che occuperà l’ultimo capitolo di questo strano romanzo, accostai questa ottava del Tasso a quella parte del “Trovatore” in cui avevo sempre immaginato di farmi io stesso “musica al vento” per raggiungere la donna in una forma di bellezza finalmente in grado di essere udita: “Tacea la notte placida / E bella in ciel sereno /La luna il viso argenteo /Mostrava lieto e pieno ... /Quando suonar per l'aere, /Infino allor sì muto, ... /Dolci s'udiro e flebili /Gli accordi d'un liuto, /E versi melanconici /Un Trovator cantò. “

Non nascondo, infatti, che quelle stesse stelle dell’Orsa a cui il Leopardi confidava i propri teneri sensi e i propri tristi e cari moti del cor, quella stessa luna davanti alla quale si interrogava solitario sul senso del cosmo e sull’infelicità umana prima ancora di vedervi l’ideale della donna irraggiungibile, quello stesso cielo notturno e muto, insomma in cui risuonavano i chiaroscuri del cuore, avevano in me mantenuto il senso del luogo non solo letterario in cui avrei potuto finalmente comunicare con l’amata, una volta superate le incomunicabilità, le difficoltà contingenti, le convenzioni ostili e le barriere sociali: “Versi di prece ed umile, / Qual d'uom che prega Iddio; / In quella ripeteasi / Un nome ... il nome mio! / Corsi al veron sollecita … / Egli era, egli era desso! ... / Gioia provai che agl' angeli /Solo è provar concesso! ... /Al core, al guardo estatico, /La terra un ciel sembrò! “

Prima ancora che potessi confidare alla mia amica che al di là del denaro, delle escort (anche nel pay scambierei volentieri un'intera nottata di sesso pornografico con qualche ora di passeggiata alla luce della luna, immersi nel silenzio in cui solo la musicalità delle parole scelte, la dolcezza dei dialoghi sinceri e la profondità degli echi suscitati nell'anima dai racconti possono risuonare eroticamente) e della savana (questo termine diventerà familiare al lettore nell’ultima capitolo, quasi come sinonimo del mondo pay ed indipay) la cosa cui avrei aspirato era proprio suscitare con la bellezza non corporale e non mortale della poesia un simile amore corrisposto in colei che mi avesse fatto invaghire con la bellezza corporale e mortale del corpo, ella esclamò, con innocentissima crudezza: “come erano facili le ragazze in queste opere ottocentesche! La danno via solo per una serenata?”. Ovvio che ella intendesse come comportamento meno facile il verificare solidità economico-finanziarie, oltreché psichiche, la stronzaggine insomma del continuare (per effettivo interesse economico-sentimentale o per gratuito sfoggio di preminenza erotica) a negarsi solo per vedere fino a che punto un uomo è disposto ad offrire e soffrire. Ovvio che una eventuale compagna che usi questo tipo di criterio non abbia nulla a che spartire con la Leonora verdiana ("Di tale amor, che dirsi / Mal può dalla parola, /D'amor, che intendo io sola. / Il cor s'inebriò! / Il mio destino compiersi /Non può che a lui dappresso ... /S'io non vivrò per esso, /Per esso morirò!"), né tantomeno con la purezza fanciullesca dell’Ermina del Tasso. Del resto, la mia amica non aveva motivo di mentire. Non aveva motivo di ritenere tutti gli uomini indegni d’affetto e di stima avendo conosciuto prima il suo principe poi il suo cantore. Eppure ha detto quanto, semplicemente, ho poi sempre riscontrato nelle donne come genere. Non è un problema di comunicazione. Non è un problema di barriere sociali o di convenzioni. Non è neanche un problema di fortuna nell’incontrare o no una fanciulla più o meno sensibile. Semplicemente, l’animo di Erminia non potrà quasi mai risiedere in una donna. L’impulso femminile alla selezione per “il bene della specie” è radicalmente antitetico alla poesia, anzi è radicalmente antitetico, come ha ammesso il buon @Tesista76, al sentimento in generale.

L’animo femminile è impoetico sotto il doppio profilo dell’assenza di “Pietas” per chi non emerge nella lotta e della mancanza di senso estetico nella scelta. Noi siamo abbastanza sinceri nell’ammettere che miriamo prima di tutto la bellezza e non ci innamoreremo mai di uno scorfano (che, per dirla con “Rimini Rimini”, buttiamo anche quando peschiamo). Le donne invece, raccontando di non guardare troppo alla bellezza “esteriore”, danno l’illusione di essere le prime ammiratrici di una specie di bellezza “interiore”. La realtà è che, al contrario, mentre noi, come da dottrina neoplatonica, partiamo dalla bellezza del corpo per amare poi quella dell’anima (detta brutalmente, anche una qualunque “normale” anima umana, se guardata con l’attenzione di chi è perdutamente infatuato dalle grazie della fanciulla che la anima, risulta interessante e amorevole) esse ignorano la bellezza tout court, e preferiscono la “praticità” di quelle doti (le chiamano “carisma”, “facilità di rapporti”, “mascolinità”) che permettono di primeggiare socialmente e di portare loro doni costosi, vita agiata e “protezione” (anche quando non ne hanno bisogno). Quanto alla mancanza di “Pietas” (che non va intesa con la parola pietà falsificata dal cristianesimo in senso appunto pietista-umanitario verso chiunque – e quindi, in fondo, verso nessuno - al contrario molto presente fra le donne), basti pensare a come oggi considerino parimenti “diritti” tanto lo stronzeggiare sui coetanei che non hanno armi da contrapporre alla bellezza quanto l’accogliere tutti i migranti del mondo (con l’ovvia conseguenza di una società con nessuna barriera all’ingresso e ostacoli insormontabili nella conquista di ogni donna, l’esatto opposto di quanto sarebbe umanamente auspicabile per i concittadini maschi, ovvero tanta selezione all’ingresso del proprio “club sociale” in modo da ridurre la concorrenza, disciplinarla con criteri oggettivi e noti a priori – auspicabilmente pure meritocratici - ed abbattere quella specie di “onnipotenza” data ad ogni donna dalla possibilità di selezionare per arbitrio, capriccio e crudeltà o comunque con criteri soggettivi ed inconoscibili a priori per gli esaminandi). Loro chiamano giustizia, anzi natura, la società egalitaria che non permette a noi il bilanciamento di desiderabilità e potere, si compiacciono che i “deboli” (in senso erotico-sentimentale) siano sbranati o periscano di fame (amorosamente parlando, ma per certe escort e certe mogli anche in senso letterale) e concepiscono come “normali” le pene amorose a senso unico. E il fatto che la mia amica, oltre che la modella, avesse fatto anche la escort non la rende meno rappresentativa del genere femminile, anzi. Non ho mai incontrato nessuna “non-escort” che con i fatti (o anche solo con qualche battuta rivelatrice) sia mai stata in grado di smentirla.

Meglio tornare ad Erminia, la quale, quando avvista le tende nemiche, si sente come a casa. Nemmeno la consapevolezza di stare per tradire la propria gente (vita “rea”) e i dubbi su quanto sia davvero conveniente o anche solo possibile arrivare ad essere accettata da Tancredi e vivere con lui in un mondo avverso (vita “combattuta”) possono offuscare la gioia data dal semplice avvicinarsi all’amato (ed è per quello che le tende latina, cioè cristiane e quindi nemiche, sono belle agli occhi suoi). Nella speranza che il Cielo abbia la compassione di trattare umanamente chi per amore si macchi di una qualche colpa, il dialogo interiore di Erminia si conclude con l’apparente contraddizione esistenziale del poter trovar la vera pace in mezzo alla guerra:

Poi rimirando il campo ella dicea:
"O belle a gli occhi miei tende latine!
Aura spira da voi che mi ricrea
e mi conforta pur che m’avicine;
cosí a mia vita combattuta e rea
qualche onesto riposo il Ciel destine,
come in voi solo il cerco, e solo parmi
che trovar pace io possa in mezzo a l’armi.

L’ingenuità delle speranze di Ermina si dissolve ovviamente al contatto con la realtà della guerra. Viene infatti davvero scambiata per Clorinda e, inseguita da chi vuole vendicare la morte del padre ucciso dall’eroina, è costretta a fuggire. Lo spavento scaccia per un attimo ogni speranza d’amore e fa riaffiorare il rimorso per aver scelto di tradire la patria “pagana”. La fanciulla, dopo aver corso disperatamente in mezzo alla selva per sfuggire ai suoi inseguitori, scoppia in lacrime e, vinta dalla stanchezza, si addormenta
Questa non può che essere la sorte di chiunque, per sincera attrazione verso una donna, si abbassi a recitare da seduttore per compiacere la sua vanagloria, da giullare per farla divertire (magari lasciandosi irridere nel disio), o comunque a dissimulare il proprio desiderio (per non apparire “debole” nella contrattazione” e “uguale” agli altri uomini) e a simulare doti non realmente possedute (sicurezza d’animo, capacità di leadership, spirito mondano, gusto modaiolo, ironia ariostesca e quant’altro, oltre che ovviamente ricchezza, potere e prestigio sociale a vari livelli).
Ammetto che io praticamente mai ho avuto l’avventatezza di fingermi “figo”, di recitare da conquistatore di donzelle, di simulare e dissimulare qualità “sociali” e individuali, ma tutte le volte nelle quali ho fatto qualcosa di anche solo vagamente simile per corteggiare ho avuto le amare lacrime come unico risultato e un dolce paesaggio come contorno. Ma, come ho già detto riprendendo Brecht, anche la notte più lunga eterna non è (nemmeno quella di Erminia).

Non si destò fin che garrir gli augelli
non sentí lieti e salutar gli albori,
e mormorar il fiume e gli arboscelli,
e con l’onda scherzar l’aura e co i fiori.
Apre i languidi lumi e guarda quelli
alberghi solitari de’ pastori,
e parle voce udir tra l’acqua e i rami
ch’a i sospiri ed al pianto la richiami.

Erminia viene soccorsa e consolata da un vecchio pastore, che le racconta una storia ancora più triste e infelice della sua. Ella sparisce per un po’ dalla trama, per comparire durante il duello di Tancredi con Argante. Si trova lì perché ha seguito una spia cristiana (anziché denunciarla) con il preciso scopo di ritentare la sorte, questa volta con più fortuna. Al contrario di tutti gli altri “spettatori” che sono innanzitutto ammirati dalle arti belliche dei due avversari, ella è soltanto preoccupata per il suo amato. Ecco perché, appena possibile, esce in cerca del luogo dove i due sono probabilmente arrivati alla fase mortale dello scontro. Trova prima il cadavere del saraceno e solo dopo, richiamata casualmente da una voce che non può non riconoscere, Tancredi esanime. Con due sol versi il Tasso sa dipingere tanto l’attrazione per quella “faccia scolorita e bella” quanto la concitazione innamorata del soccorso, sottolineata da due negazioni (“non scese no”) prima del verbo quasi visivamente rapido (“precipitò di sella”)

“A riguardar sovra il guerrier feroce
la male aventurosa era fermata,
quando dal suon de la dolente voce
per lo mezzo del cor fu saettata.
Al nome di Tancredi ella veloce
accorse in guisa d'ebra e forsennata.
Vista la faccia scolorita e bella,
non scese no, precipitò di sella;”

Erminia-Guercino.jpg

Nel quadro che qui riporto del Guercino, sembra scendere dall’alto sull’eroe come un angelo (bellissima poi a destra la caratterizzazione della spia Vafrino travestito da saraceno). Non si può non vedere, in questa fretta di soccorrere, l’atteggiamento di ogni “cavaliere” anche moderno che, prima ancora di conoscere come ciò possa confondersi con l’attuale “zerbinismo”, conosce la subitanea voglia di rispondere al telefono quando pensiamo sia “lei”, di precipitarsi senza riflettere ovunque ella sia (pensando di essere richiesti o addirittura indispensabili), di non misurare quanto ci costi, in termini di tempo, fatiche, irrisioni e possibili umiliazioni e ferite emotive perpetue, il nostro “soccorso”.

Vede che 'l mal da la stanchezza nasce
e da gli umori in troppa copia sparti.
Ma non ha fuor ch'un velo onde gli fasce
le sue ferite, in sì solinghe parti.
Amor le trova inusitate fasce,
e di pietà le insegna insolite arti:
l'asciugò con le chiome e rilegolle
pur con le chiome che troncar si volle,

Erminia, semplicemente, vede come il male di Tancredi risieda nell’eccessiva perdita di sangue e non esita a troncarsi le chiome per usarle come insolita fasciatura. E questa è l’immagine con cui voglio consegnare Ermina al vostro ricordo, così come è dipinta da Nicolas Poussin nell’opera “Tancredi ed Erminia” custodita all’Hermitage.

Nicolas_Poussin_080.jpg

E’ anche una delle ultime volte in cui la vediamo nella trama. Il suo ultimo desiderio che vuol mostrare al lettore è quello di trarre almeno qualche bacio dalla bocca dell’ignaro amato. Il miracolo riesce e Tancredi si riprende, ma è tanto debole da non capire. Per lui Erminia rimarrà per sempre una sconosciuta. Come sconosciute, per me, sono in fondo rimaste tutte le donne (evidentemente ancora meno sveglie di Tancredi, o semplicemente non abbastanza interessate) a cui ho avuto l’ardire di dedicare versi, lettere, o, per dirla con D’Annunzio, “colloqui, sogni e taciti pensieri” (non preoccupatevi, nel prossimo “grado di separazione” saranno tutte comunque raccontate).

Per quanto riguarda Clorinda, la storia è più breve. Non è certo la prima donna guerriera della letteratura (basterebbe ricordarsi della vergine Camilla in Virgilio). E’ però la prima che, oltre alle armi, sappia portare anche un’interiorità. E per questo merita di essere comunque accostata ad Erminia.
Fin dal momento in cui venne abbandonata fra le tigri, Clorinda ha imparato a non sentirsi mai indifesa rispetto ai pericoli esterni e per questo ha rifiutato ogni versione “passiva” della femminilità. Fin da piccola si veste e si comporta da maschiaccio. Da donna, diviene una professionista della guerra. E’ l’emblema non tanto della “donna moderna” (chè davvero tutte queste guerriere mascoline non si vedono in giro), bensì dell’uomo di tutti i tempi costretto a “passare sopra al sentimento”, a “cancellare il proprio presepe interiore” (per usare due efficaci espressioni di @Tesista76) al fine di giungere all’amore e al successo, di “sublimare se stesso” nella rinuncia alla propria interiorità profonda e delicata (“femminile” nella semplificazione “sessista”) in favore di quel “piccolo mondo” esterno in cui primeggiare è indispensabile per avere l’attenzione, la credibilità e l’interesse dell’altro sesso (il quale, più vicino com’è agli interessi della specie piuttosto che a quelli dell’individuo, vede soltanto nelle qualità conferenti primato o prestigio sociale l’attrattiva sessuale, legata com’è quest’ultima a livello istintuale, inconscio, alla necessità di selezionare la vita e di garantire sicurezza e benessere alla futura prole)
Difatti, anche Clorinda ottiene con il suo combattere prima ancora che con la sua bellezza nascosta l’ammirazione di tutti (amici e nemici) compreso Tancredi. E’ proprio per potersi battere contro un avversario tanto bravo (creduto uomo) che l’eroe cristiano la insegue. In questa scena solo apparentemente surreale (Tancredi arriva a dispiacersi non ci siano “spettatori” ad una lotta che si preannuncia memorabile ed a chiedere di “dichiararsi reciprocamente le generalità” affinché, comunque vada il duello, il sopravvissuto possa ricordare al mondo il valore del caduto) c’è tutta la verità del mondo moderno in cui un uomo riceve interesse dalla società e dalle donne solo e soltanto se è “visibile”, solo e soltanto se è “valoroso” (secondo la scala di valori in voga nella società, e quindi, sostanzialmente, di valori economici, di conoscenza legata ad applicazioni utilmente monetizzabili, di qualità personali adatte a produrre lavoro e ricchezza), solo e soltanto se è “acuto” (nel capire cosa volere e come ottenerlo, nel tener testa dialetticamente alla donna, in entrambi i casi come se stesse sempre incrociando la spada con avversari e avversarie).

“«Guerra e morte avrai;» disse «io non rifiuto
darlati, se la cerchi», e ferma attende.
Non vuol Tancredi, che pedon veduto
ha il suo nemico, usar cavallo, e scende.
E impugna l’uno e l’altro il ferro acuto,
ed aguzza l’orgoglio e l’ire accende;
e vansi a ritrovar non altrimenti
che duo tori gelosi e d’ira ardenti.”

A parte la cortesia cavalleresca del scendere da cavallo per non avere vantaggio sopra l’avversario appiedato, l’ottava è riempita di significato dall’ultimo verso: i contendenti, di sesso opposti, si scontrano come due tori ugualmente gelosi l’uno dell’altro e ugualmente accesi non d’amore ma di ira. Certo il Tasso non ha potuto vedere come si è “evoluta” oggi la società occidentale la quale, pur di abolire l’immagine antifemminista della donna mansueta, costringe tutti, uomini e donne, a scontrarsi in quella bolgia caotica e non certo meritocratica che si ostina a chiamare “competizione” lavorativa fino a creare non solo scontri inevitabili (come quelli per le posizioni più prestigiose e retribuite di cui in effetti sarebbero gli uomini ad avere più bisogno, non avendo nè il privilegio femminile di essere universalmente mirati, socialmente accettati e amorosamente disiati per la bellezza, né il modo di influire sulle cose e sugli uomini tramite quanto in essi vi è di più profondo e irrazionale, proprio delle donne per natura come notato da Rousseau) ma pure problemi evitabili (si veda ad esempio la propagande femminista oggi lamentosa persino verso l’uomo che chiami la propria controparte dialettica “signora” anziché preoccuparsi di cercare da qualche parte il suo corretto titolo di studio e accusatrice di presunte molestie per un complimento, uno sguardo, un tentato corteggiamento). Ha però Torquato potuto sicuramente constatare come anche solo sul piano dialettico e mondano della vita di corte le donne pretendessero dagli uomini un atteggiamento “combattivo”, concedendo attenzioni e favori solo a chi fosse in grado di tener loro testa in duello (verbale o psicologico). E’ capitato persino a me di ricevere rispetti e quasi complimenti da una femminista alle cui tesi favorevoli alle legge sullo stalking ho ostinatamente rifiutato qualsivoglia accondiscendenza. Ero diventato talmente veemente nella mia dialettica che mi aspettavo una risposta di insulti, e invece…

“Ma ecco omai l’ora fatale è giunta
che ‘l viver di Clorinda al suo fin deve.
Spinge egli il ferro nel bel sen di punta
che vi s’immerge e ‘l sangue avido beve;
e la veste, che d’or vago trapunta
le mammelle stringea tenera e leve,
l’empie d’un caldo fiume. Ella già sente
morirsi, e ‘l piè le manca egro e languente.”

Qui è il personaggio maschile a prevalere, ma a che prezzo! Solo dopo averla ferita mortalmente, scopre esservi la sua amata dentro l’armatura del cavaliere misterioso. Quella rima “punta-trapunta” sembra quasi sonoramente riprodurre lo stridore del ferro acuminato che perfora corazza e seni della bella guerriera e ne fa uscire un ininterrotto (“avido”, dice il Tasso) flusso di sangue, caldo e copioso come un fiume. Quelle stesse “mammelle” che avrebbero dovuto rappresentare l’amore sessuale, quasi materno, e che sono sempre state nascoste dentro l’armatura, tornano ad essere simbolo d’amore solo nel momento in cui questo diviene morte. Come in tutte le ottave del Tasso, le immagini possono essere ribaltate se viste in controluce. Se leggiamo infatti la bellezza femminile di Clorinda come un’allegoria per indicare l’interiorità sentimentale dell’uomo (bollata come “femminile” non tanto dal presunto sessismo del mondo di una volta, quanto dalla pretesa delle donne di ogni tempo di avere utilmente a fianco un uomo “forte e guerriero”) allora il duello vede il soccombere di ogni figura maschile abbia nascosto dentro l’armatura della “competizione sociale” (simboleggiata dalle “armi” e dalla “santa crociata”) un proprio “io” troppo delicato e sensibile per esser fatto scontrare senza filtri con l’esterno. In ogni caso, il momento in cui la bellezza (interiore e simboleggiata o esteriore e descritta, come volete) si mostra finalmente in tutta la sua fralezza è solo quello della sua morte (vi ricorda qualcosa a proposito delle vostre relazioni con le donne?).

D’un bel pallore ha il bianco volto asperso,
come a’ gigli sarian miste viole,
e gli occhi al cielo affisa, e in lei converso
sembra per la pietate il cielo e ‘l sole;
e la man nuda e fredda alzando verso
il cavaliero in vece di parole
gli dà pegno di pace. In questa forma
passa la bella donna, e par che dorma.

L’ultima ottava con cui salutiamo Clorinda è un chiaro e continuo richiamo al Petrarca dei Trionfi, in particolare quello della Morte su Laura. Come non ripensare a quel “pallida no ma più che neve bianca” di quel poemetto, alla descrizione degli “occhi soavi e più chiari che il sole” presente ovunque, a quella “essenza stessa della poesia fatta sensibile” (cito le parole di un famoso critico) che sono l’immortale chiusura “parea posar come persona stanca/ sendo lo spirto già da lei diviso/ è quello che morir chiama gli sciocchi/morte bella parea nel suo bel viso”)?
Si può soltanto commentare per accostamento di immagini:

1280px-Tancred_and_Clorinda_by_Lagrenee_-_detail_01.jpg

Questa è quella dipinta dal francese Luis Jean Francois Legrenée (geniale il petto per metà armato, per metà nudo e con la ferita al centro). La vita bellissima e fuggente è tutta negli occhi che paiono, per rubare le parole al Foscolo contemporaneo del pittore, cercare “morendo il sole”. Ingeneroso il giudizio di Diderot sul suo connazionale (“privo di immaginazione”). Ma, si sa, gli illuministi non hanno mai capito niente di arte (e quindi manco di vita).

Penso che, come spero di avervi dato occasione di rendervi conto con questo mio saggio improprio e improvvisato, ingeneroso sia pura il giudizio (più celebre) di Galileo sull’intera Gerusalemme Liberata, vista dallo scienziato come “meno bella” rispetto all’Orlando Furioso dell’Ariosto (preferito politicamente perché non ancora sottoposto ai vincoli della controriforma, ancora libero di usare la fantasia per raccontare le guerre fra pagani e cristiani, con tanto di castelli magici, di viaggi con l’Ippogrifo sulla luna per recuperare il senno, di una geografia immaginaria in cui le battaglie per la terra santa si combatto nelle periferia di Parigi, insomma non ancora costretto al criterio del “verosimile”).

Se è vero che il Tasso è stato certamente molto limitato (per non dire osteggiato) nella sua azione poetica della controriforma, è altrettanto vero che il suo genio è riuscito comunque a racchiudere nella metrica dell’ottava una complessità umana ancora superiore a quella ancora tutto sommato “lineare” (amore inseguito e sfuggito, ira funesta, scherzi della fortuna, maturazione e avventure varie) a cui guarda l’ironia ariostesca. A costo di nascondere se stesso in due personaggi femminili, a costo di svuotare gli eroi “ufficiali” maschili (“rapiti”, per così dire, dalle necessità storico-politiche di verosimiglianza e di adesione all’etica cattolico-controriformata) di pathos e di empatia, a costo di parteggiare segretamente per i “pagani” (ovvero gli Arabi dietro cui neanche tanto nascostamente si può vedere l’intera e ormai tramontata civiltà umanistico-rinascimentale basata sui valori della bellezza, della classicità, della Grecia e di Roma, insomma, precedenti il cristianesimo), quel “pazzo” di Torquato Tasso è riuscito a creare, per la prima volta nella storia della letteratura mondiale, un’opera nella quale le donne non sono solo dei simboli di virtù (come nello stilnovo), delle belle senz’anima da conquistare (come nei poemi cavallereschi precedenti), delle Lara Croft salta e spara e odiatrici di uomini (come in quel filo rosso che unisce la Camilla di Virgilio a tutta la moderna cinematografia femminista), ma hanno un’interiorità nella quale gli uomini si possono identificare, un’opera in cui ogni dolcezza ha un fondo amaro ed ogni amarezza un retrogusto dolce, in cui ogni vittoria in duello è prima di tutto una sconfitta e viceversa, in cui l’avversario è la persona amata e l’amico (militare e politico) un nemico (personale e umano), un’opera in chiaroscuro in cui ogni fatto ha almeno due interpretazioni opposte entrambe vere, un’opera, insomma, “moderna” nell’unico senso nobile possibile per la parola. Quando anche la presunta “modernità” dei nostri contemporanei femministi e progressisti saprà scrivere e rappresentare qualcosa di altrettanto moderno allora si potrà dire di essere finalmente usciti dalla Controriforma.

Lasciatemi chiudere questo (troppo lungo) intermezzo con un’ottava dell’ultimo canto, quando l’assalto finale dei Crociati e la caduta della Gerusalemme (nella quale, al di là della forma, il Tasso vede istintivamente tutto il mondo poetico e umano che aveva animato le corti italiane della più felice era ariostesca), sono imminenti. Solimano (il “fier Soldano”), il personaggio “nemico” in cui tutta la grandezza del presunto “male” è stata identificata come in una tempesta, ma che non riesce a non suscitare ammirazione (come del resto tutto quanto di grande, di nobile, di bello, di eroico il mondo “pagano” del rinascimento ha concepito nel suo “generare verso l’alto” in ogni ambito della vita prima di essere dannato e condannato da Lutero e dalla reazione controriformista) sale sulla torre più alta per rendersi conto della situazione militare.

Or mentre in guisa tal fera tenzone
È tra ’l Fedele esercito e ’l Pagano;
Salse in cima alla torre ad un balcone,
E mirò (benchè lunge) il fier Soldano,
Mirò (quasi in teatro, od in agone)
L’aspra tragedia dello stato umano:
I varj assalti, e ’l fero orror di morte,
E i gran giochi del caso e della sorte.

Che gran regista sarebbe stato il Tasso se fosse vissuto nel nostro secolo! Pare quasi un finale alla Sergio Leone, come nel “Buono, il brutto, il cattivo” in cui solo alla fine si passa dai primi piani caratteristici di gran parte del film al campo lungo in cui si vedono d’un tratto la prateria, il deserto arido e il cielo infinito. Anche il Tasso, se guardiamo bene, ha tenuto tutto il “film” della Gerusalemme liberata concentrato sui “primi piani” (spesso “interiori”) dei vari protagonisti (seguiti di volta in volta nelle pieghe delle loro pene e dei loro desideri e solo di quando in quando in scene corali di battaglia). Ed ora la vista si apre sullo spazio sconfinato del deserto, ai cui ultimi lembi la città di Gerusalemme viene assaltata dai Cristiani ebbri di fanatismo, di morte e di bottino (al di là della “santità” conclamata dell’impresa). Sembra proprio di essere lì con Solimano a vedere levarsi il fumo nero di rudimentali ordigni, il frastuono dei ferri che si scontrano e delle grida di rabbia e di dolore. E qua un assalitore che prova a scavalcare le mura e cade trafitto, e là un difensore che viene trucidato da dietro con un sanguinoso colpo alla schiena, e ovunque la percezione che la vita sia più precaria e negletta delle foglie d’autunno a cui molti secoli dopo farà riferimento Ungaretti. Sembra quasi il campo lungo della scena di guerra e massacro del film di Leone, quando sudisti e nordisti si scontrano sul fiume mentre i due protagonisti osservano dall’esterno (“quasi in teatro, od in agone”) resi vicini ai caduti, quasi unici “umani” in mezzo a tanta abitudine e disprezzo della vita e della sofferenza, proprio dal loro materiale e psicologico “distacco” rispetto alle vicende belliche (sono infatti lì in attesa solo per attraversare il fiume e andare a recuperare l’oro in un cimitero). Non è più il Solimano comandante dei “Saraceni” che guarda qui, ma è il Tasso poeta che con distacco guarda alla vicenda intera delle Crociate, la quale è solo sfondo per l’infelicità dello stato umano, “il basso stato e frale e il mal che ci fu dato in sorte” (che ci ha raccontato nelle vicende personali dei vari personaggi, soprattutto femminili, “reali” proprio in quanto “inventati” e quindi non “falsificati” dalla necessità della trama piegata alla propaganda politica e religiosa) e con partecipazione vede in tutto soltanto il rammarico per un mondo più vivibile (quello della “paganità” così come era stata immaginata poeticamente ed elaborata culturalmente dal rinascimento artistico e dall’umanesimo filosofico) destinato ad essere distrutto dal caso e dalla sorte. Mi fa ridere chi, nel grandi rivolgimenti delle “guerre” contemporanee, crede di intravvedere un “senso” utile ad orientarsi esistenzialmente nella ricerca della gnocca e nel rapporto con l’altro sesso o con la società in generale. Siamo meno guerrieri di Solimano e come lui circondati da vicende militari che si decidono a prescindere dalla volontà nostra e probabilmente anche dei potenti, rette come sono dal caos di rapporti di forza mutevoli per la fortuna e per la sostanziale irrazionalità della vita e degli esseri umani. Con Gerusalemme cade anche il sogno machiavellico di poter usare la storia come magistra vitae. Emerge il Guicciardini del “particulare”. E dalla prossima volta continuerò a raccontare la storia dei miei sei gradi di separazione, il mio particolare punto di vista sulla vita.

Non temete, se i primi tre capitoli sono sembrati quasi tratti da un romanzo ottocentesco e se hanno avuto troppa riflessione (quasi intimista e per qualcuno “biecamente romantica”) a fronte di vicende inconsistenti, i prossimi tre cambieranno totalmente registro.

  • Nel quarto grado di separazione farò iniziare a girare il “turbinio della vita”, con ritmo ariostesco (“Le donne, i cavalier, l’arme, gli amori, le cortesia, l’audaci imprese”).
  • Nel quinto, per dirla con le parole della serie “Westworld”, metterò “in dubbio la natura della mia realtà”, affrontando il passaggio dal “vecchio” mondo reale al “nuovo” mondo virtuale.
  • Nel sesto, cambiando un po’ il titolo di un film di qualche anno fa (“Io, Chiara e lo scuro”), narrerò delle mie avventure (virtuali, ma con conseguenze psichiche reali, come si trattasse appunto di righe di codice aggiunte segretamente nella mia “unità di controllo” di “residente”, per proseguire l’analogia con la serie TV di cui sopra) con un personaggio di cui (come ben saprà chi, una dozzina di anni fa, abbia frequentato l’altro forum) non si può non parlare raccontando la storia di Beyazid II Ottomano. Le avevo promesso di renderla immortale per le vie internettiane e, nonostante tutto, sono abituato a saldare i debiti anche dopo oltre dieci anni (anche se, magari, non nella moneta attesa).

Beyazid_II
Newbie
12/07/2018 | 19:23

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@Tesista76 said:

Se è vero che la melanzana è una meravigliosa maschera popolare dell’italiana di oggi, il figlio di melanzana è stato poco analizzato

Il figlio di melanzana, nasce da madre melanzana dagli anni 50 in poi, abituato fin dall’infanzia ad essere al centro dell’atattenzione, soddisfatti tutti i suoi capricci e tollerato nelle sue manifestazioni si affaccia alla pubertà con timidezza, con pochi approcci e svariate molestie si avvicina al gentil sesso

Verso i 17-18 anni, dopo migliaia di atti osceni ed abusi sul proprio pene, conosce l’amore, il primo amore, quello pagato dai genitori, senza particolari meriti sul campo scopa

Per forza di cose, la relazione non dura, e qui purtroppo la partita viene persa più dalla melanzanina, che perso iil ruolo di compagna, si troverà verso i 35 anni a chiedersi dove sono finiti i veri uomini, non rendendosi conto che averlo lasciato nelle mani della mater melanzanae non può che aver fatto male alla mente ed alla autostima del poveretto

Il resto del tempo tra i 20 ed i 30, il nostro eroe li passa cercando di lavorare adattandosi ad una società spietata a cui chiede compromessi violenti alla sua libertà intellettuale come l’affiliazione a un oratorio

Arrivato il momento di mettere su famiglia, nel migliore dei casi troverà una donna interessata a fare figli, da bomber quale si sente, dopo aver abusato qualche migliaio di volte della compagna, si troverà improvvisamente sui 40 a sentire la mancanza di un’avvenatura free, non rendendosi conto di non essere più il pischello dei 20. Non trovando più un ambiente favorevole inizierà a lamentarsi dei suoi insuccessi, della modernità, delle donne, dei cambiamenti climatici e di tutto quello che non è stato e che purtroppo non sarà

Il free esiste, riguarda i giovani, ogni anno sbocciano nuovi fiori femminili e i coetanei possono approfittarne i se si sbattono un po’

Il mondo degli adulti, dai 25 in poi è gestione delle nuove generazioni, non esiste più il free per nessuno e nessuna cosa, l’unico Free lo si concede ai bambini alti meno di un metro a gardaland

Come gestire il mondo degli adulti? Da adulti. Cosa fa un adulto? Conta e 💴

Le pay: massaggiatrici specializzate, spesso dotate di doti linguistiche superiori, viaggiano volentieri e vanno pagate in proporzione alla professionalità. Indispensabili per una sana attività sessuale fatta di stimoli e fantasie, permettono agli adulti un sano trattamento terapeutico con rischi limitati ed un costo definito

In Italia, grazie alla secolarizzazione, prima o tardi torneranno i bordelli, nel frattempo ai gran figli di melanzane non posso che suggerire di uscire dagli oratori e frequentare l’erasmus della gnocca, a cui tanti ricercatori qui dedicano con passione tanto tempo e fissare degli obbiettivi realistici in funzione dell’eta

Se aveste scritto questo post 30 anni fa, nel 1988, sarebbe stata una perfetta descrizione di un certo tipo di italiano in tutte le mediocri fasi della sua irrilevante esistenza: lo studente, che anziché studiare, protesta anche se non ha nulla di cui lamentarsi, solo perché “lo dicono i più grandi“ e poi “la manifestazione si fa ogni anno”, il giovane che, uscito dall’università con il mito del diciotto politico vuole un lavoro sicuro e ben retribuito a prescindere dal proprio merito e solo perché “lavorare è un diritto”, l’intellettuale di sinistra che marcia assieme ai “lavoratori” contro lo stesso sistema che ha dato all’uno e all’altro benessere e lavoro (e che, almeno allora, era in grado di non mettere in contraddizione pubblica istruzione e stato sociale in genere, tutele ed eque retribuzioni, con la competitività delle imprese e la produzione della ricchezza), l’adulto indignato che si indigna perché “l’edonismo” allontana la gente dagli “ideali sociali”, il “laudator temporis acti” di ogni epoca che idealizza il mondo vissuto in giovinezza.
Oggi, però diverse cose sono mutate in modi riscontrabili ed incontestabili:

  • le nuove generazioni sono le prime, in tutta la storia d’Italia (e forse del mondo occidentale) ad essere destinate mediamente a godere di una ricchezze sensibilmente minore di quella a cui erano abituati i genitori;
  • stiamo, per volontà della finanza senza patria (ma spesso con sede in Usa), importando “classi medie” dall’Africa in sostituzione di quelle distrutte in Italia dai governi più o meno tecnici servi di quello stesso capitale internazionale;
  • lasciamo fuggire all’estero le migliori menti dando poi dei “choosy” a chi rimane, se non si adegua senza fiatare a buttare via la parte migliore della propria vita in attività “flessibili” retribuite poco e correlate ancor meno con i meriti del proprio studio.

Che tutto ciò sia drammaticamente reale e non solo virtuale percezione di “bambini viziati” è testimoniato dalla politica: proprio oggi che avrebbe senso essere di sinistra in senso classico, ovvero, per dirla con il buon Canfora (senso ironico), in difesa “di chi sta sotto” (o anche solo di chi è stato cacciato in basso dai vortici della turbofinanza: ex-borghesi ed ex-lavoratori riuniti nel nuovo precariato globalizzato), i residuati della sinistra si sono spostati dalla parte del capitale “che sta sopra a tutto”. E l’intellettuale sinistrorso nostrano, con la sua aria di superiorità morale, la sua pretesa “missione” di bene (o di progresso), le sue parole d’ordine “umanità”, “solidarietà”, “cultura”, la sua aria insomma di “santità” è da noi quello che per Nietzsche è da sempre il tipo sacerdotale: quanto “percepisce come vero è sicuramente falso: questo è quasi un criterio di verità. E’ il suo istinto più basso di autoconservazione a proibirgli di considerare un qualsiasi aspetto della realtà o anche solo di parlarne”.

Ahimè, i motivi per la “rivolta generazionale”, che 50 anni fa oggettivamente mancavano, ora ci sono proprio tutti. Certo, tutto questo non cancella il fatto che, come in ogni tempo, esistano ancora gli studenti negligenti, i giovani buoni a nulla, gli intellettuali privi di intelletto, i lavoratori che vorrebbero non lavorare e vivere con un sussidio statale, gli indignati di professione, i nostalgici di un’età dell’oro mai esistita. Dovrebbe però impedire di fare di un’analisi ancora generalmente vera trent’anni fa la principale chiave di lettura per la realtà di oggi, dentro e fuori l’argomento “gnocca”.
Quando vedo, da un lato, tanti personaggi peggiori sotto ogni punto di vista culturale e intellettuale, privi di qualsivoglia merito superiore (gente insomma, che, messa nella stessa classe del liceo o nello stesso corso di università, avrei battuto, strabattuto e umiliato) avere retribuzioni e sicurezze superiori alle mie solo in virtù dell’esser nati prima e, dall’altro lato, tanti giovani pari per preparazione, impegno e voglia di riuscire a quello che ero io alla loro età, avere (in termini di posti, garanzie e prospettive) molto, ma molto, meno, solo perché nati dopo, capisco il senso di “ingiustizia generazionale”.

Personalmente avrò anche pochi amici, sarò pure stato troppo rinunciatario e troppo ingenuo, però, se di nessuno – e dico nessuno – degli amici o conoscenti, coetanei o più giovani, di cui ho notizia, invidio la situazione economico-lavorativa (intesa come rapporto fra ricavi e costi in termini di fatiche non creative, tempo e libertà personale) ed erotica (intesa come livello di gnocca conquistata o frequentata) significa che il problema non è personale, ma generale.
Vero che Schopenhauer ci insegna che l’infelicità è figlia dell’esistenza umana e non dell’organizzazione sociale, ma è anche vero che l’attuale fase del turbocapitalismo (con la sua doppia tirannide finanziaria e femminista ed il suo corollario culturale “politicamente corretto”) rende sempre più difficile anche solo quella vita “serena e autarchica” volta a “vivere sopportabilmente” come da lui consigliato nell’arte di vivere felici.
Vero che lo stesso amico di Danzica attribuisce all’imbecillità degli uomini gran parte di quanto essi chiamino “sfortuna”, ma è anche vero che oggi persino il più savio degli uomini farebbe fatica ad essere “fortunato” nell’Italia post-montiana e melanzanizzata.

A proposito, quando parlate di “molte molestie”, senza dubbio dovete intendere quelle subite in età scolare dai giovani maschi ad opera delle coetanee a cui è stato trasmesso culturalmente che stronzeggiare è un diritto.
Già ancora a livello di amiche e compagne di classe è, se non ancora molesto personalmente, quantomeno fastidioso per il nostro genere, sentirsi trattare (solo in quanto maschi) con sufficienza, se non con aperto disprezzo, quando si tenta un qualunque approccio con loro, le quali sistematicamente si atteggiano come chi ha tanti ammiratori (anche quando oggettivamente non ci sarebbe nulla da ammirare!) e può fare a meno di tutti, e fan così sentire colui, il quale dal trasporto verso la bellezza sarebbe portato ad affinare la propria anima e il proprio intelletto, uno dei tanti, un uomo senza qualità, un banale “scocciatore”.
Appena poi le si avvista da lontano, sono già moleste coloro le quali dimenticano come non tutti siano commedianti nati al pari di loro, che si sforzano con ogni mezzo di suscitare ad arte il desiderio negli uomini per poi compiacersi della sua negazione ed infoltire così le schiere di ammiratori, ed alla fine guardano tutti dall'alto al basso, arrivando addirittura a deridere gli approcci, o ad appellare molestatori quegli aspiranti corteggiatori che ingenuamente o maldestramente cercano di conquistarne i favori.
Sono poi molestissime, dal più fuggevole approccio al più profondo corteggiamento, coloro le quali, essendo appagate del semplice sentirsi ammirate da schiere di corteggiatori, senza che questo necessariamente si traduca in un vero rapporto umano, sincero e appagante (poiché la vanità, naturale nelle femmine, si mostra manifestamente soddisfatta dal ricevere quelle cure, quelle riverenze, quelle attenzioni che i plurimillenari privilegi della Galanteria impongono di tributarle) sfruttano la situazione per attirare ad arte ammiratori e poi respingerli, con l'unico scopo del proprio diletto e del rendere loro ridicoli agli occhi degli amici e dei presenti, dell'offendere il loro desiderio di natura, del farsi gioco del loro purissimo ed ingenuo trasporto verso la bellezza

Quando si parla di “pochi approcci”, come se semplicemente tutti i “figli di melanzana” fossero come lo sfigato pauroso e occhialuto delle commedie di Vanzina, sicuramente immaginate scene ambientate, appunto, negli anni Ottanta, non nell’oggi in cui il post-femminismo ha imposto:

  • La sopravvalutazione estetico-filosofica della figura femminile, nata sì con il medioevo delle dame, dei cavalieri, dei tornei, delle giostre e delle corvèe e delle poesie amorose, ma portata oggi al parossismo dalla cultura ufficiale nella quale tutto quanto è più o meno fondatamente sentito come femminile viene presentato come “bello”, “buono”, “pacifico”, “progredito”, “complesso” (mentre quanto è più o meno arbitrariamente visto come maschile è svilito come “brutto”, “malvagio”, “violento”, “rozzo”, “semplice”, anche quando otto secoli di poesia e qualche giorno in una realtà quotidiana non ideologizzata potrebbero anche far credere l’esatto contrario);
  • La stronzaggine vista come il diritto di usare l’arma della bellezza (o, meglio, della sua illusione) per ferire, irridere e umiliare chi è più debole da un punto di vista psicosessuale, in maniera identica a quanto farebbe un bullo scuola con il ragazzo più piccolo;
  • Le leggi a senso unico femminil-femminista che impongono, prima di lasciarsi andare ad un complimento, un invito, un gesto, una carezza, un bacio, addirittura solo uno sguardo, di riflettere (uccidendo la spontaneità e quindi la possibilità di riuscita) se ciò potrebbe essere o meno “percepito” come una “molestia” (o addirittura una “violenza”) dalla ancora semisconosciuta controparte, e che possono definire stalking proprio quella capacità di non arrendersi alle prime difficoltà, di resistere ai dinieghi, di riprovare con nuovi modi, nuove offerte e nuove sorprese, con la quale un tipo molto diffuso di ragazza italiana discendente dalla madonna di Ciullo d’Alcamo misura – a mo’ di prova infernale medievale - il reale interesse dell’uomo, valuta la sua disposizione ad offrire e soffrire, ne saggia le doti e quindi sceglie;
  • La pubblicità e il cinema hollywoodiano che mostrano i maschi solo o come bruti da respingere e punire nel modo più vasto e doloroso possibile (dai calci nelle palle ai colpi di mitra di certi film o videogiochi salta e spara stile Lara Croft) o come pupazzi da sollevare nell’illusione e gettare nella delusione con il massimo del riso e del trastullo (pubblico o provato, dalle discoteche ai luoghi di lavoro o di studio).

Va bene che tutti questi elementi “culturali” volti a distruggere autostima, sicurezza ed integrità psichica dei giovani uomini (specie nel momento più delicato della loro formazione, quando non hanno ancora i mezzi per costruire una solida identità sociale e sessuale) solo soltanto propaganda ed un guerriero non può essere sensibile alla propaganda del nemico. Però, a tutto questo si diventa insensibili solo dopo, appunto, essere diventati guerrieri. A 17-18 anni (oggi anche oltre) si è ancora solo ragazzi manipolabili dalla propaganda come quelli di “niente di nuovo sul fronte occidentale”. Non si può dunque pretendere che i “figli di melanzana” siano già a quell’età armati contro le “figlie di melanzana” e la cultura che le spalleggia. Solo dopo capiranno, ma capendo che devono essere “guerrieri”, capiscono anche che, oggi, il sesso “gentile”, almeno in genere, non merita tale nome e deve pertanto essere trattato con un chiaro, aperto e risoluto atteggiamento d’ostilità. E quindi, ancora una volta, niente approcci. Non più per timidezza ma per consapevolezza.

Quando parlate poi di “amore senza merito” mi sorprendete. Come ben diceva il miglior discepolo di Schopenhauer, l’amore, in quanto natura, è “grande e immorale per tutta l’eternità”. Non contempla meriti o colpe. Specie l’amore adolescente. Quando mai due ragazzi hanno il “merito” di essere amati? Se si “corrispondono individualmente”, per dirla con le parole del Nostro, saranno reciprocamente attratti ad onta della loro inesperienza e delle loro cattive maniere, altrimenti la loro storia non funzionerà comunque. Lì la “chimica” può molto più dell’educazione, della volontà cosciente, della “buona anima”.
Ragazzi immeritevoli? Che merito avrebbero poi le ragazze, se non quello di essere nate, per caso, femmine, per essere circondate da stuoli di amici-ammiratori pronti a tutto per un sorriso, per potersi atteggiare a miss mondo anche quando di bellezza non mai alta ma solo di comportamento altezzoso, per avere la corte dei miracoli (d’amore) composta da un’umanità maschile variabile dai cavalieri serventi disposti in pensieri parole ed opere ad offrire qualunque cosa in cambio di una vana speranza, a veri e propri mendicanti che attendono la sportula guardando dal basso verso l’alto colei dal cui sì o dal cui no dipendono il paradiso o l’inferno?
Volete moralizzare l’amore a quell’età come scherzosamente proponevo io fino a qualche tempo or sono? Introducete la regola della scuola-etica (o, se preferite, scuola-sadica), nella quale, in ogni classe, in ordine di risultati scolastici (partendo da chi ha la media più alta nei voti di profitto), è possibile scegliere il partner del sesso opposto il quale, non potendosi rifiutare, diviene quindi schiavo/schiava per inferiorità di meriti di studio. Morale no? L’amore della sapienza che può imporre le scelte all’amore carnale a vantaggio dei più studiosi. Scherzo, ma sarebbe davvero l’unico modo per poter parlare di “merito” in ambito di amore sessuale.

Quando infine raccontate del triste destino delle “melanzanine” cui è fallita la relazione e che si chiedono “dove sono finiti gli uomini di una volta?” mi fate davvero pensare che stiate scrivendo dal 1976 (come da nick). Sono finiti dove è finita la società di una volta. Per quanto concordi con Schopenhauer sulla “naturalità” dello schema di scelta/selezione sessuale che vede l’uomo essere attratto dalla bellezza (sinonimo in natura di salute) e la donna dall’eccellenza (nelle doti di volta in volta conferenti primato o prestigio nei vari tipi di società, indispensabili per la felicità e la sopravvivenza della prole), qualcosa agli antropologi devo riconoscere. La cultura modifica le declinazioni di queste scelte “naturali”. Se prima del nefasto femminismo, nell’età dell’adolescenza (quando non ci sono ancora soldi, lavoro e potere a contare davvero) una certa eccellenza nello studio, un comportamento educato (o addirittura un linguaggio colto), un’origine sociale agiata, una data disposizione alla calma e al ragionamento potevano dare al giovane maschio quell’aurea di “buon partito” di cui la giovane femmina umana sentiva bisogno per il proprio futuro (e, nel presente la stessa possibilità di uscire di casa senza genitori, cosa non possibile per una ragazza sola, bilanciava abbastanza bene quella naturale disparità di numeri e desideri nell’amore sessuale che oggi, non più compensata/frenata, svantaggia tremendamente il nostro sesso in termini di forza contrattuale e di possibilità di scelta), oggi che si pretende di dare alle donne anche quanto un tempo era riservato agli uomini proprio per avere una vera equità (la quale appunto per le disparità naturali qui accennate non potrà mai essere sinonimo di uguaglianza) fra i sessi, solo chi è dalla insana moda del momento visto come “fighetto” (perché ha l’auto o, oggi, lo smartphone nuovo, conosce i posti più fighi, va ai concerti più seguiti, può accompagnare nei posti più “alla moda”) può avere speranza di essere scelto “liberamente” da una coetanea a quell’età. Non vi è più, come nel mondo tradizionale, possibilità di bilanciamento con elementi veramente riconducibili al merito individuale (studio o lavoro, che da adolescente non può ancora essere prestigioso).

Come possono le donne mantenere ancora i privilegi del medioevo (galanteria, corteggiamento, protezione in ogni senso fisico, psicologico, economico e pure giudiziario) quando pretendono i moderni diritti (parità in tutto quanto uomini più forti e saggi di noi avevano storicamente costruito per bilanciare socialmente in desiderabilità e potere le disparità di numeri e desideri nell’amore sessuale favorevoli grandemente alle donne e quelle psicologiche correlate alla predisposizione all’esser madri)? Come possono volere che un uomo affronti ancora i disagi e le fatiche della cosiddetta conquista senza che gli vengano poi riconosciuti i diritti del conquistatore (si è mai vista nella storia una città conquistata dopo un lungo e faticoso assedio poter “scacciare” il vincitore a proprio capriccio? Nella storia chi si fa assediare e perde deve pagare il tributo ed onorare chi ha rischiato e vinto. Solo nel matrimonio occidentale succede il contrario! Cosa di cui “tutto l’Oriente ride come ne avrebbero riso i Greci”)? O, peggio, come possono ancora parlare di “ragazzi che dovrebbero maturare per diventare padri” quando al padre contrappongono nella realtà le sentenze a senso unico del femminismo su aborto, divorzio e violenza sessuale (le quali, lungi dall’essere fondate sulla ragione, sulla giustizia e sulla libertà, sono semplicemente dettate dall’odio contro il cosiddetto “patriarcato” e tutti quei singoli uomini che, consapevolmente o meno, lo “ricordano” anche solo lontanamente, anche solo “simbolicamente”, anche soltanto per associazioni d’immagini o di idee o di desideri naturali, con presunte e mai troppo dimostrate, spesso fin troppo discutibili, colpe o mancanze)?

Se non dobbiamo perdere troppo tempo a rimpiangere il passato, dobbiamo per ancor meno tempo continuare ad illudere sul presente. E, soprattutto non dobbiamo usare i criteri che andavano bene prima dell’ultimo femminismo per riversare su una presunta incapacità o immaturità dei ragazzi le colpe della decadenza dell’occidente e della iniquità del femminismo.

Quando si hanno meno dei vent'anni non si hanno nè poteri nè ricchezze da contrapporre alla bellezza che già fiorisce sulle coetanee e quindi al di là di ogni nascondimento (dettato da delicatezza o ipocrisia) si può soltanto essere ammiratori dal basso all'alto, uomini episodici (quando va bene) o ammaliati perennemente illusi e frustrati (quando va male), comunque socialmente trasparenti cavalieri serventi pronti a tutto per un sorriso.ma più frequentemente mendicanti alla corte dei miracoli pronti a tutto per un sorriso (nella speranza di qualche briciola di carità amorosa)
giullari di cui ridere e a cui irridere nel disio, o attori da porre in ridicolo innanzi a sè e agli altri quando recitano male la parte dei seduttori. Si finisce sempre e solo con l'essere usati da freddi specchi su cui (quasi tutte testano) testare l'avvenenza o da pezzi di legno innanzi ai quali (le stesse si permettono) permettersi letteralmente di tutto, con il far parte dei "presenti" su cui le stronzette di turno diffondono studiatamente in ogni modo disio e che poi trattano con sufficienza quando non con aperto disprezzo se ardiscono farsi avanti,con l'essere trattati da uomini qualunque scelti a caso fra tanti solo per essere gettati a terra con tanto più fragore e dolore quanto più sono stati sollevati al cielo tramite apposite illusioni erotico-sentimentali da esseri qualsiasi, privi di qualità, da attrarre solo per poterli poi respingere, da banali scocciatori da chiamare molesti quando magari maldestramente cercano di carpire i favori di chi li ha scientemente attirati apposta per farli sentire nullità davanti a sè, irriderli nel profondo, ferirli emotivamente ed umiliarli davanti a tutti, o addirittura con l'essere vittime della perfidia sessuale di chi si diletta a suscitare ad arte il disio per poi compiacersi della sua negazione e di come questa, resa massimamente beffarda e umiliante da una studiata perfidia, provochi nel profondo del corpo e della psiche tormenti tanto più infernali quanto più paradisiache erano state le implicite promesse di concessione, con l'essere presi a bersaglio per quanto il capriccio, vanità, autostima o sadico diletto suggeriscono, con l'essere ridotti ad oggetto di tensioni psicologiche, irrisioni al disio, ferimenti emotivi, umiliazioni pubbliche e private, frustrazioni continue, sofferenze fisiche e mentali, inappagamenti fino all'ossessione, disagi da sessuali ad esistenziali.

Altro che occasioni mancate a vent’anni! Sofferenze schivate!

Adesso, a quarant’anni, dovremmo lasciare che i “fiori ventenni” siano colti dai coetanei? Dopo che, quando eravamo noi i coetanei delle ventenni, siamo stati trattati nel modo sopra descritto?
Eh, no, caro tesista. Adesso tocca a noi. Adesso deve venire il bello. E se la crisi, il mondo, il “senso storico”, La Repubblica, Saviano, la Boldrini e gli altri sono contro di noi, tanto peggio per loro! Persino nella crudele natura c'è un grammo di giustizia! Chi non ha avuto privilegi nella prima parte della vita ha compensazioni nella seconda. E non è solo questione di scopare gratis o pay. E' questione di essere apprezzati socialmente (e quindi anche dalle donne). E' questione di sentirsi finalmente al centro dopo essere stati immeritatamente confinati in periferia.

A 20 anni non si possono non dico conquistare, ma neppure mirare da lontano le fanciulle in grado di interpretare il nostro sogno estetico quale eteree creature che passeggiano per via come musiche al vento mentre “parlare null’omo pote ma ciascun sospira”.
E se anche le si potesse incontrare, si potrebbe essere rimirati soltanto con sufficienza o con aperto disprezzo, non potendo ancora possedere nemmeno una di quelle doti oggettivamente valide e immediatamente apprezzabili con le quali un uomo può essere mirato, disiato, accettato, dalla società e dalle donne, come queste lo sono per la bellezza.

Se e quando con il tempo, lo studio, il lavoro, la fatica, l'impegno, la fortuna o il merito individuali si ha avuto modo di raggiungere una certa posizione di preminenza o prestigio nella società le cose cambiano.

E' in genere dopo i quaranta anni che ciò accade (quando accade).

Solo allora, infatti, si possono aver conquistato quelle doti immediatamente apprezzabili e oggettivamente valide al pari della bellezza con le quali essere universalmente mirati, amorosamente disiati e socialmente accettati (ripetizione voluta) a priori, a prescindere dalle soggettività, e al primo sguardo, così come le belle donne lo sono per le grazie corporali.

La gerontocrazia tipicamente italiana ha ritardato questo momento sempre di più. L’impoverimento (eterodiretto) dell’Italia, unito all’avanzata del femminismo (che vorrebbe addirittura chiamare, a seconda dei casi, con me too o con le pari opportunità, “abuso” o “discriminazione” il giusto bilanciamento), vorrebbero addirittura togliere questa possibilità (questa seconda vita: proprio perché non si è più pischelli si dovrebbero avere possibilità in più) alla generazione cui appartengo (e soprattutto a quelle successive!). Di qui questi post, che sono “gli occhi, u core e la rabbia mia”, per dirla con Pietro Savastano.

Certo, i “vecchi”, sicuri nei loro stipendi, nei loro posti, nel loro potere (finché il sistema troverà utile lasciar loro stipendio, posto e potere), trovano comodo pontificare dando tutta la colpa alla “concorrenza incapace” dei giovani. Ma i giovani non devono cadere nella trappola. Il problema non è loro se oggi a vent’anni non riescono ad avere un rapporto soddisfacente per quantità e qualità. E’ normale in un mondo senza bilanciamento di genere come quello femminista pseudoegalitario. Devono lasciar perdere le coetanee, non ascoltare la propaganda di tv e giornali (e soprattutto di quella cloaca di femminismo che è il cinema di Hollywood), sopravvivere se necessario con gli FKK (che costano meno delle fidanzate e soprattutto provocano meno danni al proprio tempo e alla propria psiche, risorse da impegnare solo negli obiettivi importanti), studiare e lavorare e aspettare i 40. La chiave non è “essere fighi” a 20, ma arrivati a 40. Ecco perché è cruciale combattere non solo individualmente, ma soprattutto politicamente perché possano ritornare in Italia le condizioni per avere un lavoro ben pagato e ben rispettato.

Certo, bisogna eliminare gli ostacoli. Quindi non bisogna guardare in faccia a nessuno. Tantomeno alla filosofia morale della menzogna egalitaria figlia del cristianesimo (tu la chiami oratorio?). Non si può tornare ad affamare il terzo mondo, a colonizzare parte dell'Asia, a respingere i migranti, a discriminare le donne? Non si può perché ci sono la globalizzazione, i migranti, “le donne”? Passiamo sopra a tutto questo con la furia di un Gennarino prima maniera, di un O’Trak sparatutto. E' adesso che bisogna fare il "sessantotto". E' adesso che bisogna mandare "l'immaginazione al potere". Chi dice che “cambiare direzione alla storia” (ma a noi basterebbe solo alla nostra nazione) è impossibile ha troppa poca forza per immaginarlo o troppi interessi in gioco per volerlo. Basta essere disposti a pagarne il prezzo (e soprattutto a farlo pagare ai nemici). Sto sognando? Mah, qualche bisonte tinto di biondo pare ci stia provando oltreoceano.

Alla faccia di Wall Street e del femminismo. Dei Saviano e dei terzomondisti. Del gesuita che usurpa il soglio pontificio e della Boldrini che ha usurpato la pazienza. “Ce ripigliamm' tutt' chell che è 'o nuost”.

P.S.
Ad essere figli di melanzana sono sia i maschi sia le femmine, ma solo le secondo possono far valere la loro abitudine alle conquiste facili, ai premi senza merito, alle concessioni senza motivo, la loro immaturità insomma, come legge in ogni fase del rapporto, dal primo approccio all’ultimo divorzio, poiché non trovano ostacoli all’esplicarsi psicologico, sessuale e sociale delle disparità naturali di numeri e desideri voluti dalla natura per i fini afferenti la selezione/propagazione della vita, a loro favorevoli e da loro sfruttate senza limiti, remore, né regole.

Beyazid_II
Newbie
10/07/2018 | 17:08

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Poco tempo fa, discutendo di letteratura e di vita, qualcuno mi ha scritto su questo forum che “il Natale deve passare”. Si parlava ovviamente per metafore. L’importante, per me, sempre parlando metaforicamente è però che non passino mai le “Vacanze di Natale”. Indimenticate sono (per me, e credo per molti della mia generazione) quelle messe in scena dall’omonimo capolavoro di Carlo Vanzina (ambientato nel 1983, ma emblema immortale dell’Italia del benessere e dell’edonismo “craxiano”, prima che l’ondata pauperistica e moralistica di tangentopoli e del politicamente corretto “rivoltassero l’Italia come un calzino”), quelle che vedono nelle prima scene un Jerry Calà, abbigliato da fighetto anni 80, con tanto di pellicciotto e mocassini, scendere da una Mini De Tomaso (quella con il 3 cilindri turbo, una scatolina a quattro ruote “modello ideale” del concetto di mini-bomba) e prende servizio come pianista-DJ in uno degli alberghi più alla moda di Cortina. “Chissà che cosa ci trovano le donne in un pupazzo come te?” Gli dice “simpaticamente” il proprietario, con evidente accento veneto (con le consonanti doppie pronunciate singole). Solo dopo aver trattato il cachet, Calà, rimasto solo, risponde fra sé, con voce compiaciuta (e la boccuccia per pronunciare le doppie “c” dolci): “Non sono bello, piaccio”. In una sola battuta, sono condensati tutti i concetti (dal fascino alla simpatia, dalla personalità alla voglia di vivere e divertirsi) con cui, dopo 35 anni, cerchiamo ancora su questo forum di spiegare perché “alcuni non scopano nemmeno se sono strafighi palestrati” e perché “una bella figa sta con uno che non è né bello né giovane senza trarne nessun vantaggio economico”. È solo un esempio del genio di Vanzina nel narrare la vita attraverso la commedia.
I critici sostengono che non sia stato un genio perché “lo schema della commedia era fisso” e “i personaggi sempre quelli” (il ricco e cafone commenda, il giovane spiantato e gaudente, la moglie fedifraga, le belle oggetto del desiderio eccetera), così come le trame (i ricchi in vacanza che cercano avventure e rimangono beffati dalla malasorte o da un “servus” più furbo di loro). Sono le stesse critiche che venivano mosse duemila anni fa a Plauto, “reo” di ripetere lo schema del “servus” che fungeva da “deus ex-machina” per la trama in cui un "adulescens” era innamorato di una bella (che oggi si direbbe “donna-oggetto” e che allora, spesso, manco compariva sulla scena) ed era ostacolato da un “lenone” o da un “senex” (il vecchio, che a volte è un concorrente, altre volte un padre severo). Eppure il popolo romano si sbellicava dalle risate in teatro durante le commedie plautine, mentre altri autori considerati “più colti e geniali” annoiavano soltanto.

Una volta un mio amico, per svilire, Plauto, affermò che fosse il “Carlo Vanzina dell’antichità”. Io, per onorare oggi la memoria di Carlo Vanzina, dico che semmai sono i film di Vanzina ad essere la versione moderna delle commedie plautine.
Perché fanno ridere anche quando sappiamo già la trama? Perché i personaggi ci paiono simpatici anche se sono sempre quelli? Perché hanno un segreto che generi più “elevati”, autori più “dotti” (o, meglio, con pretese di “insegnare al popolo”, dato che personalmente dotto era anche Vanzina), film più “intellettuali” (o, meglio, intellettualizzati) dimenticano quasi sempre, presi come sono dall’intento di “migliorare la società”, “mettere alla berlina il malcostume”, e, aggiungo con una punta della mia solita perfidia, cantare “le magnifiche sorti e progressive”.
I personaggi di Vanzina (così come a suo tempo quelli di Plauto) non vogliono stabilire teoricamente quale sia il mondo più giusto, quale sia il modo corretto di porsi verso le donne, quale sia la morale più “progredita”. Vogliono vivere al meglio delle possibilità umane nel mondo presente, vogliono far sì di avere tutto quanto serve per spostare il loro favore la libera scelta delle donne, vogliono seguire il modello sociale che garantisce le migliori possibilità di autoaffermazione. Vogliono quindi, innanzitutto, vivere.

Parlano amabilmente (prendendo il sole nella terrazza della seggiovia) di specialità locali e buona cucina “tortellini e quattrini non stancano mai”, ma subito spostano il discorso su quanto a noi tutti interessa di più: “il cugino del tortellino: la gnocca!”. E, come ogni animale sano, cercano di ottenerla in tutti i modi a loro disposizione (“free”, come il Calà che sfrutta il fascino e le relazioni del dj per “ripassarsi” tutte le ospiti carine, le mogli degli ospiti e le cameriere dell’albergo, o “pay” come il milanese Nicheli a cui la “suina”, dopo aver finto sdegno alle prima advance, chiede “se te chiedo un milion, te sembro esosa?”), a costo di cornificare l’amico o il vicino di sedia. Vedono ancora l’automobile come uno status-symbol con cui esprimere non solo la propria posizione, ma pure la propria personalità, quasi come una donna da scegliere per passione (“ho passato notti insonni indeciso fra l'Alfetta turbo e il Bmw a iniezione", anche se forse qua si intende l'Alfetta GTV) e non per calcolo di convenienza (andare da A a B col minor costo) o di responsabilità sociale (elettrodomestico su quattro ruote con il minimo impatto ambientale come vorrebbero gli odierni sostenitori dell’ibrido). Vedono ancora il lavoro e la ricchezza (allora era ancora possibile pensare a questo) come i mezzi principali per conquistare una bella vita e delle belle gnocche.

Pensate a come li vorrebbe correggere la cultura “progressista”.
Vi piace la bella gnocca, ve ne sentite attratti con la rapidità del fulmine e l’intensità del tuono al primo sguardo e volete trovare il modo di raggiungerla? No, perché già guardandola con desiderio la riducete “a oggetto” (come se proprio l’essere oggetto di desiderio non ponesse la donna su un piano superiore in termini di situazione psicologica, forza contrattuale e possibilità di scelta, come già in abstracto è se si capisce che l’oggetto di desiderio è il fine che muove il soggetto costretto a farsi egli stesso mezzo per raggiungerlo e si pensa a quanto un fine sia sempre superiore ai mezzi…), già desiderandola per le sue grazie la “discriminate” (come se il nostro desiderio di natura, spontaneo come l’avvento della primavera e culturalmente nobilitato da secoli di poesia, fosse addirittura una colpa, come se la vera discriminazione non fosse quella contro di noi costretti alle fatiche ed ai disagio della cosiddetta conquista…), e se poi cercate non velleitariamente di ottenerne i favori sfruttando quella posizione sociale, economica o intellettuale che con lo studio, il lavoro, la cultura, il potere, la fortuna o il merito individuale avete raggiunto, commettete “molestia” (come se fosse possibile per un uomo avere le stesse possibilità di scelta, la stessa forza contrattuale, le stesse opportunità di vivere libero e felice, possedute dalle donne per natura, senza ricorrere a bilanciamento sociali, come se, realisticamente, esistessero modi “naturali” e “amichevoli” per ottenere dalle donne risposte diverse dai due di picche più irridenti, plateali e umilianti o dalla stronzaggine più illudente, dolorosa e ferente, come se le donne, dal canto loro, non sfruttassero in ogni modo, tempo e luogo, e per motivi variabili dall’interesse economico-sentimentale al gratuito sfoggio di preminenza erotica, passando per la stronzaggine intenzionale ed il vanitoso sadismo, senza limiti, remore né regole le disparità di numeri e desideri nell’amore sessuale a loro favorevoli per natura…).
Vi piacciono le belle macchine e la velocità che, come scriveva il Leopardi dello Zibaldone “è bella per sé sola, per la forza, l’intensità, la vita di tal sensazione: essa desta una quasi idea dell’infinito, sublima l’anima, la fortifica, e tutto ciò tanto più la velocità è maggiore” e amate i record casello-casello? No, perché bisogna ridurre la velocità per ridurre gli incidenti (come se la maggioranza degli incidenti non avvenisse in città, dove la velocità è bassa ma in compenso è massimo il disordine), perché non bisogna mandare certi messaggi (come se la distruzione di un intero modo di vivere l’automobile e in fonda la vita fosse giustificato da un risibile decremento delle probabilità di incidente, comunque, per inciso, minori del rischio di finire accusato di violenza/molestia in un mondo in cui la parola della donna anche in assenza di riscontro oggettivi è “prova” e lo stesso confine fra lecito e illecito viene lasciato alla definizione soggettiva ed ex-post della presunta vittima), perché bisogna ridurre il riscaldamento globale (come se i riscaldamenti delle città, tenuti spesso a manetta senza motivo durante 9 mesi all’anno dalle varie amministrazioni locali, non fossero la causa principale dell’inquinamento, assieme alle “intoccabilI” industrie che non hanno fatto 1/1000 di quanto hanno fatto le automobili per diventare più pulite).
Volete una bella vita come principi rinascimentali, fra “cani, cavalli e belli arredi”, o comunque più agiata di quella che potrebbe essere garantita da un semplice “lavoro dignitoso”? No, dovete accettare “cagne (femministe), cavalle (di cui voi non sarete mai gli stalloni e che potrete solo da guardare in TV e neanche più in bikini) e Ikea”, perché non avete diritto a continuare a vivere nel benessere quando il terzo mondo muore di fame, perché è “giusto”, “inevitabile”, “conforme al progresso del capitalismo” che si creino nuovi ricchi fuori dall’Europa ed il denaro si sposti dalle classi medie italiane ai paria delle fogne di Calcutta, perché dovete essere contenti anche solo di essere appena sopra la “soglia di povertà”.
Volete il benessere materiale e morale implicito nel vivere in un’Italia di italiani, con il lavoro tutelato, una buona prospettiva per i vostri figli, la base culturale comune del liceo di stampo gentiliano, la sensazione di sicurezza data dall’incontrare facce note per la città che parlano la vostra lingua e spesso il vostro dialetto? No, perché il lavoro deve diventare flessibile, i vostri figli non valgono più di quelli degli immigrati, la scuola gentiliana era “classista” (sic! Detto da chi ha distrutto quell’unico ascensore sociale che era l’istruzione! Da chi poi si lamenta che la cultura non venga più amata! Da chi ha demolito l’edificio classico della cultura erede della Grecia a di Roma! Da chi giustificava i somari con gli argomenti pauperistici e “antifascisti” di Don Milani!), perché il mondo (e quindi anche il vostro paese, la vostra casa, la nostra Italia erede del Rinascimento) deve diventare “globalizzato” (e quindi il nostro stesso popolo dissolversi nel magma umano universale), perché se degli stranieri vi rubano in casa o se non capite quello che gli allogeni si dicono guardandovi con occhi di bragia, siete “xenofobi” se vi sentite a disagio.

“No, no, no, no”. Sono i no alla vita, dimostrazione che la cultura progressista, femminista, (psedo)egalitaria, (falsamente) “antifascista” altro non è se non la laicizzazione di quel grande “no” alla vita rappresentato dalla “sovversione dei valori” cristiana.
Non avevo ancora letto Nietzsche, ma avevo istintiva simpatia per questi personaggi di Vanzina, che invece ad ogni battuta, ad ogni espressione di desiderio per un’auto o per una donna, ad ogni sgasata, ad ogni scopata, esprimevano un’irrefrenabile voglia di vivere, “di là dal bene e dal male”.
Erano egoisti? Non esiste argomento contro l’egoismo. Difatti, le religioni monoteiste devono inventare la minaccia del fuoco eterno dell’inferno per rendere credibile la pretesa di una sua limitazione! Se fosse ragionevole limitare l’egoismo in migliaia di anni un’argomentazione puramente razionale (scevra di sentimentalismi) sarebbe stata trovata. Nessuna considerazione morale può cancellare il fatto che se non si vive pienamente l’unica breve luce della vita non ci sarà alcuna occasione di ricompensa (Catullo docet: “sole occidere et redire possunt, nobis, cum semel occidit brevis lux, nox est perpetua una dormienda”). L’unico limite all’egoismo in senso individualistico è quello di morire con l’ego mortale e di avere un’azione limitata alle limitate capacità (in potenza e durata) dell’individuo isolato. Sono però limiti che possono essere superati non certo dalla retorica dell’altruismo, ma da un egoismo ancora più potente, quello della nazione. Essa, come io collettivo, mantiene tutte le caratteristiche di un’identità (che, pur necessariamente contenendo anche contraddizioni come tutto ciò che vive, non può accettare tutto indistintamente) di sangue e spirito permettendo però per grandezza, potenza e durata di andare di là dall’individuo effimero. Ma i critici dei personaggi di Vanzina non sono nazionalisti, ma internazionalisti, quindi la loro non è morale ma moralismo.

Erano cafoni? Prima che Flavio Briatore rendesse universalmente odioso lo stereotipo del cafone arricchito associandolo al disprezzo per ogni tipo di istruzione (mascherato dal compiacimento per potersi dire “cool” senza aver studiato nulla e poter chiamare “sfigato” chi non è riuscito ad entrare nel giro delle modelle e dei locali perché non ha trovato nello studio i mezzi per arricchirsi anche economicamente) ed alla gioia per lo sfruttamento internazionalista (non a caso ha lavorato per i Benetton da quando sottopagavano le massaie a cottimo di Treviso a quando hanno delocalizzato la produzione in paesi senza diritti del lavoro), il cafone era semplicemente un italiano di umili origine che non aveva avuto alle spalle una famiglia abbastanza agiata da poterlo far studiare fino al liceo o all’università e che usava quindi alla meglio il proprio ingegno per primeggiare nella competizione capitalista (quando questa in Italia era possibile). Non avendo grandi modelli culturali, spesso questo personaggio vedeva nella nuova auto, nella nuova casa, nel nuovo ritrovato tecnologico il simbolo di una “dimensione superiore” dell’esistenza. Cosa c’era di male in questo? Con un pelo di cultura in più, si sarebbe ottenuto, dal “cafone arricchito”, il “signore del rinascimento” che affermava il proprio io chiamando ad arricchire la propria città o il proprio castello i pittori più in voga, gli scultori più affermati, i poeti più acclamati, gli architetti più famosi. Invece agli intellettuali di oggi manca non tanto una corretta educazione erudita (che comunque in qualche caso effettivamente latita, quando si scava a fondo, sotto la patina dell’intellettualmente corretto), quanto piuttosto un corretto istinto all’affermazione positiva (fanno carriera solo fingendosi “non egoisti”, spandendo, a parole, amore per l’umanità anziché per se stessi), ovvero alla “vita ascendente”.
Erano ignoranti? L’ignoranza è uno stato di verginità mentale di gran lunga preferibile alla malattia dell’intellettualità corrotta dai valori della decadenza (come le idee moderne) e al falso sapere dei progressisti. Ad un Luciano Canfora il quale, con tutta la sua presunta filologia, riesce persino a falsificare i Greci per giustificare il concetto malato di “solidarietà” e “accoglienza” che sta distruggendo (già dal punto di vista demografico) ogni residua possibilità per i popoli europei di rimanere almeno in parte (per lingua se non per sangue, per spirito se non per politica) eredi degli Antichi (di rimanere, insomma, noi stessi: basti pensare a come fra dieci anni rischiamo di non incontrare più persone per strada a cui comunicare in questa tosca favella che, quasi sola al mondo, ha la mirabilia di fondere il Greco ed il Latino con una musicalità nata con Petrarca in poesia e con Boccaccio in prosa), è di gran lunga preferibile “un ignorante del nord”, se ha l’istinto sano dell’autoconservazione e dell’espansione (anziché la “cupio dissolvi” propria al cristianesimo, al socialismo, all’internazionalismo e a tutte quelle “religioni” che dietro la parola magica “Umanità” nascondo i valori nichilisti denunciati nell’Anticristiano da prof. di Basilea).
Erano evasori? Parliamoci seriamente. In Italia le tasse erano (e sono) come i limiti di velocità. L’assurdità di certe loro imposizioni motiva le molte infrazioni. Se devo arrivare in tempo ragionevole a destinazione, non posso mettermi a fare i 30 dove gli amministratori locali hanno messo il cartello solo per non rispondere delle loro inadempienze in caso di incidente. Così, se voglio vivere al livello che mi spetta, dal momento in cui rinuncio al reddito fisso, alle ferie pagate, alla tutela in caso di malattia per dovermi “inventare” ogni giorno il modo di meritarmi un profitto, non posso, in molti casi, rispettare alla lettera certe imposizioni fiscali, cui peraltro non corrisponde un’adeguata contropartita da parte dello stato in termini di servizio ai cittadini. Poi certo, come esistono i pirati della strada che sfrecciano a duecento all’ora in centro fregandosene di tutto, così esistono gli evasori totali. Non sono però questi i soggetti che in controluce vediamo nei “cummenda” di Vanzina. Sicuramente chi ha costruito il benessere proprio (e contribuito a quello della nazione) con un lavoro autonomo sa bene cosa vedere di sé in certi personaggi troppo superficialmente considerati “negativi”.
Erano maschilisti? A parte che la propaganda politicamente corretta definisce con tale termine chiunque si rifiuti di accettare i dogmi femminil-femministi quando questi, come accade quasi sempre, si scontrano contro ogni diritto, contro ogni ragione, contro ogni etica, contro ogni logica, contro ogni natura (tanto che ormai è “maschilista” essere semplicemente mossi dai più forti e sani istinti, come mirare, disiare e cercare di ottenere la bellezza, e non mostrarne pentimento o vergogna, come invece pretenderebbero la moderna “antropologia” gender ed il veterofemminismo vittimista), i personaggi femminili di Vanzina non hanno nulla di quella donna oggetto passivo che potrebbe giustificare il termine. A partire dall’amica Grazia (quella a cui l’Ivana interpretata da Stefania Sandrelli dice “gli altri uomini li hanno inventati per venire a letto con te”) e al suo cornificare tranquillo (“è capace di vederci qui e di credere che quello a letto con me sia lui: nato cornuto, un caso patologico”) per finire con la deliziosa Karina Huff che non esita a lasciar perdere l’indeciso e ricco De Sica per una notte romantica con il goffo ma almeno amorosamente disiante Claudio Amendola e una futura vita con uno più ricco (a proposito di doppi e triple vite sessuali…) le donne vanziniane non paiono proprio mogli e compagne trasparenti o succubi. Sia quando decidono di tradire il marito in una romantica avventura con l’amico d’infanzia (come appunto nel caso del personaggio della Sandrelli in “Vacanze di Natale”), sia quando (come il personaggio interpretato dall’indimenticata Virna Lisi in “Sapore di Mare”) decidono di restare fedeli, hanno sempre un’autonomia decisionale che le rende emancipate. Per non parlare del personaggio dei personaggi, quella Laura Antonelli in “viuuulentemente mia” che tutto è tranne una vittima della cosiddetta “violenza maschile”. Lì di violenta c’è sopra tutto la forza istintuale della passione amorosa con il personaggio del finanziere interpretato da Diego Abbatantuono. La protagonista femminile non è né una vittima né una poveretta, ma una imprenditrice di successo che, in maniera assolutamente paritaria, fa tutto quanto fanno i suoi consimili maschi: soldi ed elusione fiscale. Per questo è inseguita dalla finanza, da cui sfugge, se vi ricordate, con un accordo. Sarà lei ad offrirsi ai contrabbandieri arabi che li hanno “ripescati” (salvando “il culo” in senso letterale allo sventurato finanziere che altrimenti avrebbe dovuto soggiacere ai piaceri anali dell’equipaggio come forma di “pagamento del viaggio”) in cambio della promessa di essere lasciata libera. Il finanziere ovviamente perderà il posto per questo (trasferito in Sardegna), ma guadagnerà l’amore in un finale sorprendentemente romantico.

Insomma, i personaggi di Vanzina (almeno fino a metà degli anni Novanta) parevano aver appreso il nocciolo della lezione nietzscheana: qualunque idea di mondo, qualunque tavola di valori, qualunque convinzione etica, qualunque legge morale essere funzionale al rafforzamento e all’ascesa della vita (e sulla base di questa valutata), non il contrario (con le ideologie, i valori sedicenti “universali”, la mitologia egalitaria, il cristianesimo et similia a pretendere di giudicare, di limitare, di consentire o negare, addirittura di “rieducare”, gli istinti più sani dell’uomo e gli impulsi fondamentali della vita). Il Cinquecento ha saputo rielaborare originariamente persino il cristianesimo (trasformandolo da integralismo sovversivo a cattolicesimo molto malleabile, da “platonismo per plebei” a “neoplatonismo” per nuovi aristoi) al fine di costruire un edificio ideologico e morale adatto alle arti, alla guerra, ai buoni costumi, insomma alla vita in senso superiore. Così certi tipi umani Italiani degli anni ottanta, tanto ben raccontati da Vanzina, hanno rielaborato liberalismo e capitalismo con l’obiettivo di renderli teoria e pratica per l’affermazione della propria personalità, del proprio valore, del proprio tocco artistico di vita (anche la vita vacanziera del commenda di Vacanze di Natale, fra riti automobilistici e teoremi sociali, è a suo modo una piccola opera d’arte). E se nel cinquecento è arrivato un Lutero a ripristinare l’originaria maledizione del cristianesimo contro la vita, nel nostro secolo sono arrivati i Di Pietro, i governi tecnici (da Ciampi a Monti) e gli intellettuali di sinistra (tipo quello che ha parlato ieri sera a Hollywood Party) a far terminare giudiziariamente, economicamente e culturalmente quel miracolo di bella vita che sono stati gli anni della “Milano da bere”. Ma si può sapere quale sarebbe questo “lato oscuro” degli Anni Ottanta che Vanzina avrebbe avuto per alcuni la colpa di non aver messo consapevolmente alla berlina e per altri il merito di averlo fatto attraverso il ridicolo? Viene da dire con doppio significato delle parole: ma che film avete visto? Se il Ventennio è lontano e di esso se ne può dire quello che si vuole senza che io possa smentire, gli anni ottanta-novanta sono un periodo che ho fatto (anche se appena) in tempo a vivere nell’età della ragione. Sempre a mentire dunque i nostri signori progressisti! Ad un buono studio corrispondeva in genere un buon lavoro, una buona parte della popolazione poteva permettersi, appunto, le “vacanze di Natale”, i diritti e le tutele del lavoro non contrastavano con la competitività delle imprese italiane, persino le tanto maledette “tangenti” avevano spesso la funzione di “sbloccare” pratiche finalizzate a concessione di prestiti per nuovi imprenditori, ad avvio di attività generatrici di lavoro e ricchezza. Cosa si poteva criticare in quel mondo, soprattutto al confronto con l’inferno di oggi? Che non fossero più gli anni di piombo, quando si poteva impunemente incitare i compagni a spaccare la testa ad un ragazzo solo perché scriveva temi contro le BR o a favore della destra? Che il pci iniziasse a perdere voti in favore del psi di Bettino? O che magari qualcuno (magari qualche residuato sessantottino a disagio nella realtà del lavoro) fosse comunque non pienamente incluso nel benessere? Certo, il benessere non era per tutti, ma sicuramente per più gente rispetto ad oggi! Sicuramente era a portata di mano per chi avesse avuto voglia di intraprendere! Persino per mio padre che era solo un ragioniere! Allora Cortina e le altre mete turistiche alpine erano piene di turisti italiani, oggi lo sono di ricchi stranieri (addirittura indiani e arabi). Oggi, grazie a manipulite, ai governi tecnici, ai retori della solidarietà, dell’uguaglianza e dell’umanitarismo (e soprattutto a chi ha accelerato l’internazionalizzazione), non solo c’è meno ricchezza da ripartire, ma è anche peggio ripartita (con più disuguaglianze, e pure meno motivate da colpe/meriti individuali). E questi coglioni sinistr(at)i vengono pure alla radio a “ridimensionare” un Carlo Vanzina! Oh quali ricordi liceali mi suscitano questi figuri!

Quando, messi da parte a sera i libri dello studio “matto e disperatissimo” e le “sudate carte” dei compiti che mi avevano occupato il pomeriggio, dopo cena la tv che aveva ancora soltanto 6 canali (i 3 della rai e i 3 del berlusca) trasmetteva un film di Carlo Vanzina, non era solo, leopardianamente, “figlio d’affanno” il piacere che provavo. Era un vero e proprio sospiro di sollievo intellettuale figlio di una affinità elettiva con i personaggi oggi più criticati.
Era per me una beffa atroce essere nato in una regione “rossa” e frequentare un liceo dove anche solo sostenere in assemblea d’istituto che “si viene a scuola per studiare” (e non per “socializzare”) valeva ad essere classificato come “fascista” e a ricevere telefonate di minaccia dai “compagni” (doppio senso voluto), dove era considerato “disumano” (e tale da richiamare i genitori) lo scrivere apertamente, secondo verità e giustizia, che alcune persone del gruppo non avevano se non saltuariamente collaborato al cosiddetto “lavoro di gruppo”, dove ogni santo giorno almeno uno (anzi una) degli (delle) docenti sfruttava la propria posizione per imporre la propria “narrazione” politica della materia (ovviamente sempre da sinistra). Ma poter ogni volta “uscire” da quel mondo ed entrare in un film di Vanzina, dove mancavano sia gli intellettuali di sinistra sia le donne che facevano la morale, era per me una vera gioia. Era un po’ come uscire con papà, quando lo accompagnavo in giro (le prime guidate abusive) o mi faceva aspettare in ufficio (ed intanto vedevo un po’ di mondo reale in confronto a quello idealizzato da sinistra della scuola): apprendevo un’idea di mondo da persone (come appunto mio padre) forse meno istruite dei professori, ma sicuramente più dotte in quella che Nietzsche chiamerebbe “scienza della vita”. Uguaglianza? Gli uomini non sono uguali e nemmeno devono diventarlo. Solidarietà? Figlio mio, qua ognuno fa il proprio interesse, e se non ci pensi tu, a farti valere, non ci sarà un professore a supplire alla tua coglionaggine. Ideali? Pensa a vivere bene.

Venivo da una scuola nella quale qualunque visione del mondo radicalmente aristocratica in senso nietzscheana era, con argomenti lucacsiani, definita di per sé “irragionevole” (come se, a fronte di un logo egalitario che dai tempi del mito ”cristico” ha avuto duemila anni per “razionalizzarsi” in giacobinismo, marxismo, liberalismo, femminismo, l’opposto mito “sovrumanista” avesse invece il dovere di passare dalla fase mitica, nella quale le parole hanno ancora il significato del precedente logos, i significati possono trasmettersi, e persuadere, solo per immagini e suggestioni e le contraddizioni non sono sentite come tali, a quella dialettica, in cui, grazie alla “trasvalutazione” delle parole prima che dei valori, la “dimostrazione razionale” di questa o di quella idea può avvenire una volta sentite per vere le premesse mitiche, in relativamente pochi anni).
Venivo da una scuola nella quale qualunque concezione virile e guerriera dell’esistenza veniva tacciata, seguendo la “lezione” di Umberto Eco, “Ur-fascismo” (come se fosse segno di intelligenza quel paradossale anacronismo per il quale qualunque filosofo, da Platone a Nietzsche, non sia riconducibile all’alveo “democratico” e qualunque idea di mondo, dall’origine dei tempi ad oggi, non sia conforme all’estremismo egalitario moderno sarebbe “intrisecamente fascista” anche ante litteram, anzi, ab-eterno : ma d’altronde cosa aspettarsi da un “semiologo” che ha costruito la propria fama letteraria su quel colossale anacronismo che è il “nome della rosa”, ovvero un’avventura di Sherlock Holmes traslata pari pari nel Trecento solo per poter irridere, al contatto con l’illuminismo spiccio di Guglielmo da Baskerville, la grandezza di un San Tommaso - vero fondatore del Cattolicesimo con la spericolata fusione fra Aristotele e le Scritture, fra tradizione spirituale indoeuropea ed elementi di sovversione cristiana – o la profondità di un Bernardo di Chiaravalle – dittatore spirituale della cristianità capace di riscoprire l’antica etica guerriera o di un Meister Erkhart – mistico in cui, per la prima volta dalla comparsa del cristianesimo, la parola “spirito” prendeva finalmente un senso superiore alla menzogna degli “agitatori cristiani”, ricollegandosi alla tradizione sapienziale di ogni epoca, grandezza che non avrebbe mai potuto entrare nel cervello banalmente “razionalista” di un accademico piccolo-piccolo).

Da “primino” non avevo ancora tutto Nietzsche, per poter spiegare, a me stesso e agli altri, come l’idea stessa di uguaglianza (o, meglio, la pretesa di fondare il valore e quindi il diritto su quanto rende uguali gli uomini nella appartenenza bassamente biologica alla medesima specie) sia di per sé nichilista, in quanto negazione di ogni possibilità di “generare verso l’alto”, di produrre, per l’uomo, valore, significato e bellezza “nel mondo” (senza aspettare ciò dall’altro mondo, o da un concetto già dato di uomo, come fa l’antropologia progressista), di ordinare quindi l’umano (e il divino) secondo quanto distingue gli uomini fra loro e li distanzia dal tutto indifferenziato dell’umano primordiale (quello delle società matriarcali senza classi in cui nulla poteva sorgere di bello, significativo e spiritualmente valido perché tutto era soffocato dalla grande matrice cosmica da cui ogni individuo dirama e a cui ogni individuo ritorna dopo un’esistenza effimera), secondo quanto, ad esempio, eccezionali casi di “superumanità” (la Grecia di Omero, la Roma Repubblicana, l’India Vedica, la Persia Iranica, la Germania sacra e imperiale, anche se quest’ultima allo zio Friedrich piaceva stranamente meno) hanno saputo edificare ne loro pro-gettarsi nella storia, nel loro ordinare il chaos in kosmos con il loro “martello” di “artisti” che ha dato una forma (e quindi un valore, un senso, una bellezza) al marmo umano primordiale (riducendo ovviamente in polvere quanto non doveva appartenere all’opera) e come l’idea di progresso derivo da un residuo di credulità nei confronti delle stronzate hegeliane sul “senso della storia” (concepita come una retta su cui progressisti e reazionari fanno il tiro alla fune) e una sostanziale “mancanza di fantasia” circa la possibilità di concepire un tempo sferico (in cui ogni momento la decisione umana, gli scontri fra forze storiche e il caso possono far cambiare direzione in modo imprevedibile e in cui la meta-politica è principalmente l’arte di vedere nella parte voluta del passato la meta e modello per il futuro, come hanno sempre fatto i popoli fondatori di civiltà attraverso il mito).
Da liceale non avevo ancora Evola e Dumezil ad evidenziare chiaramente come sia l’identificazione della “vera vita” con quella spirituale ed ascendente data dal padre (a cui si accede con rito iniziatico, in cui si ricerca l’eroismo guerriero e su cui si fonda il naturale diritto delle genti eroiche di cui parlava Giambattista Vico), sia la tripartizione fra guerrieri, sapienti e artigiani siano non la “criminale” idea di un circolo di esaltati interventisti o l’arbitraria costruzione di un determinato regime politico, ma i fondamenti etico-spirituali (quali, volendo, possiamo ancora apprendere per exempla dall’Iliade, dall’Eneide, dalla Baghavad Gita, dai Poemi Persiani, dall’Edda, del Beowulf) di tutte i grandi popoli indoeuropei capaci “generare verso l’alto” in grandezza potenza e durata, di realizzare imprese degne degli dei e tali da fondare città e civiltà, di costruire mirabilie nell’arte come nella religione, nella politica come nella storia, nel pensiero come nella società, pensate per misurare i millenni e non essere raggiunte dai contemporanei né superate dai posteri (e che persino i banditori di menzogne progressiste come Canfora sono ancora costretti a studiare).
Avevo solo un retto istinto che mi faceva sentire tutta la narrazione progressista come falsa (ovvero non adeguata alla mia natura) e tutto l’insegnamento “democratico” come un cumulo di menzogne contro la vita ascendente (il cui culmine storico è sempre per me stato individuato nell’antichità classica e nel rinascimento latino). E poi si dice che non c’è cultura a destra…

Che potevo fare con un Nietzsche depotenziato da intellettuali deboli come Vattimo, falsificato da politicanti come Cacciari, ridotto e denigrato da comunisti come Losurdo? Con un Evola completamente censurato dai vari Feltrinelli, nonché distorto e diffamato dai “democratici e antifascisti” “sgherri del pensiero” in servizio permanente effettivo? Non potevo ovviamente ancora nulla con il pensiero dimostrativo. Potevo però ancora fare qualcosa per non lasciarmi falsificare nell’istinto (e farmi quindi trovare pronto per le giuste premesse di verità e di valore una volta trovate le idee e le parole nei miei futuri maestri). Potevo, insomma, vivere e ridere.
In attesa di avere le idee e le parole per pensare con la mia testa. Ecco perché dal dopoguerra non ci sono veri intellettuali a destra: chi ha davvero un intelletto, non corrotto dagli istinti perversi della negazione e della rinuncia (ovvero da “istinti cristiani” laicizzati ora in demo-cristiani o in “progressisti”), non riducibile al pietismo umanitario (oggi utile ai “filantropi” di wall street per imporre la “società aperta” sopra gli interessi dei popoli storici) non può tollerare il contatto con quanto il potere culturale sinistrorso ha reso attualmente la “cultura”. Ed allora ci sono solo due sentieri: o sceglie facoltà scientifiche dove i colleghi progressisti possono essere sfottuti da un ufficio all’altro senza danno per la propria carriera (almeno fino a quando rimarrà un minimo di oggettività appunto scientifica) e lascia le lettere e la filosofia per i momenti di “cazzeggio culturale”, oppure inizia ad odiare il castello di balle che la sinistra chiama “umanità” e “progresso” con tutta la forza del proprio sano istinto, del proprio vero amore per la vita (e quindi, necessariamente, odio per la sua falsificazione), e diventa orgogliosamente “ignorante”. Come, appunto certi personaggi di Vanzina. Amo in loro la rettitudine dell’istinto almeno quanto odio, a sinistra, la perversione dell’intelletto.

Se i personaggi vanziniani degli anni ottanta non possono certo ancora essere detti nietzscheani (e tantomeno evoliani), almeno hanno ucciso in me, attraverso il riso, ogni credibilità per il mondo della sinistra che li criticava (e sotto sotto li invidiava). Hanno avuto la funzione che, per Nietzsche, l’umanità del rinascimento ha rischiato di avere nell’uccisione attraverso una risata dell’intero cristianesimo. Quel cristianesimo per laici che è il progressismo, quell’umanesimo senza vera arte e senza vera vita che è il pensiero sinistrorso, sono morti seppelliti sotto le risate di film come Vacanze di Natale.
Vivere e ridere. Per me la voce della vita aveva il suono del commenda milanese, appassionato di auto come me (“fai ballare l’occhio: via della Spiga, Hotel Cristallo di Cortina, 2 ore, 54 minuti e 27 secondi: Alboreto is nothing!”). E il riso ha sempre avuto il suono delle sue battute “ho il passpartout, stammi dietro e non prendere iniziative (quando allunga centoni alla reception per saltare la fila e stare dentro il muro delle tre ore)”, “la mia non è un’opinione, è un teorema: in spiaggia solo dopo le due, quando gli animali sono impegnati in pensione con lo spago”, “asciugamani come se piovesse, rapido! (mentra allunga l’ennesima lauta mancia alla servitù”, “la libidine sarebbe per il sì (mentre rifiuta le advances della moglie), ma dopo il gran premio il pilota deve riposare, e poi dimentichi il teorema numero due, giro di ricognizione degli amici, see you later”. Persino l’uso dell’Inglese, oggi purtroppo oggi ormai insopportabile sinonimo di conformismo culturale filoyankee e di supina accettazione delle menzogne politicamente corrette che in quella lingua si coniano (prima fra tutte quelle femminil-femministe della “inclusion”, della “discrimination”, del “sessual harrasment”, del “mansplaining” e via andare con simili sintagmi stereotipati nati artificialmente nei laboratori culturali del gender e privi di senso vivo) è in lui gradevole espressione vitale: segno distintivo di chi, avendo denaro da spendere (e quindi anche da investire) è in contatto linguistico con il mondo della finanza angloamericana e, non avendo paura di vivere, accetta tutto quanto lo fa uscire dalla comunanza di lingua e pensiero con la plebe (di allora). Non è neppure una risata grassa la sua, ma un tocco di divertita leggerezza anche sugli aspetti apparentemente noiosi e banali della vita borghese. Il personaggio di Guido Nicheli è quasi un moderno banchiere mediceo che cerca di nobilitarsi attraverso l’arte del vivere.
Allora ridevo solamente, ma ora quel riso mi permette di pensare lucidamente.

Certo, il mio modello di società non è mai stato quello delle commedie di Vanzina, né ho mai visto nel craxismo il mio ideale politico. Devo però ammettere che in quella società e in quell’Italia avrei potuto “vivere sopportabilmente” non solo da ragazzo, ma anche da adulto, al contrario di quanto accade nell’Italia attuale. In “Vacanze di Natale”, ad esempio, c’erano tutti i dettagli che rendono vivibile la vita quotidiana: l’ideale (anche se in questo caso solo sportivo) di appartenenza non dettato dal caso (stesso luogo – scuola o ufficio – nello stesso tempo) o da ragioni di convenienza (lavoro, fare affari ecc.), ma da uno stile di vita (“ci lega una vita sugli spalti”), la possibilità non solo teorica di un “amorino” estivo su base non solo di “convenienza” (il pay del personaggio di Nicheli con “la Luana” e l’indipay di quello di De Sica con “il ciclone Samantha”) o di “metafisica dell’amore sessuale” (schema attrattivo “bella model type” – uomo con capacità di spesa, come si discuteva nell’altro 3D), ma anche a suo modo “romantica” (come nel doppio caso dell’incontro dopo 12 anni fra il personaggio di Calà e quello della Sandrelli o in quello del colpo di fulmine non schermato, ma anzi incoraggiato con delicatezza, di Claudio Amendola per la bella Karina Huff), una sana autostima (quella che manca a molti di noi che ricorrono al pay non riuscendo più, dopo vent’anni di femminismo 2.0, a pensare: “dove trovi un altro bello come me, con intelligenza superiore e preparazione atletica pari alla mia?”) e, non ultima, la possibilità per quasi chiunque di raggiungere la ricchezza e il benessere partendo dal basso grazie al lavoro. Quando, infatti, la “finta nobile” di Frascati esclama esterefatta “ecco l’Italia socialista!” – evidente riferimento politico al governo Craxi - quando vede i “burini” a Cortina (“se dopo averci preso Piazza di Spagna ci prendono anche Cortina, allora è finita!” dice poi piangendo a casa) dice una verità storica: in quell’Italia anche persone di umili origini potevano arricchirsi lavorando. Oggi sembra una barzelletta.
Vi erano poi persino dettagli che avrebbero reso felice me in particolare: l’ambiente sociale ancora amichevole per chi ama il femminile che è nell’automobile, per chi vive l’amore per l’auto come quello per una particolare donna, per chi lo vuole condividere con gli amici (e soprattutto le amiche), le strade in cui era ancora possibile (al netto di quel minimo di buon senso necessario a non trasformarsi in pirati stradali) sfogare il proprio amore per le “curve perfette” a suon di staccate, punti di corda e accelerazioni brutali, alla ricerca della miglior traiettoria come un poeta della più sublime armonia e, infine, le passioni sportive messe pure, con distaccata noncuranza della donna, al di sopra dell’amore stesso (“avevi promesso di venirmi a trovare a Genova e invece…” – “non avevo ben presente il calendario: Sampdoria-Roma si gioca il 3 marzo”) e delle feste (“chissà come starà passando questa nottata Tonino Cerezo…per me dorme, perché è un professionista”). Anch’io ho sempre avuto per l’automobilismo quella zelante passione che vedo nel personaggio di Luca Covelli per il calcio e l’ho volutamente mostrata sopra quella per il sesso femminino (mai mostrare alle donne di avere occhi e desiderio soltanto per loro, o si diventa come quelli che qui sul forum vengon detti zerbini): “forse finirà per sposarla, non potendosi sposare con Roberto Pruzzo”.
E tutto sembra, in forma moderna, una novella di Annibal Caro per leggiadria e voglia di vivere bene.

Anche se non ho fatto in tempo a vivere la mia giovinezza in quegli anni, ci sono quindi in parte anch’io in Vacanze di Natale 1983 (qui si vede quanto è grande un regista, dalla capacità di coinvolgere emotivamente persino uno spettatore “postumo”). Come in parte sento di “esserci” nel Rinascimento.
Certo, non ci sono più quei tempi. E’ arrivato Lutero, è arrivato Di Pietro. E’ arrivato il rancore degli inetti al bello della vita, mascherato da pietà e da onestà.
E se oggi tutto quanto ho amato della vita (le auto belle e veloci, le donne belle e raggiungibili, la vita bella e divertente, l’Italia ricca e pronta a divertirsi) è stato distrutto (dai limiti di velocità e del fisco, dalla retorica della sicurezza, dell’ambientalismo e del mondo social, dalle proibizioni e dalle battaglie culturali del femminismo e della pubblicità antimaschile, dalle scelte dei piccoli politici e dei grandi industriali, dall’acquiescienza al mondialismo d’oltre atlantico che ha sacrificato la piccola ricchezza di molti qui per la grande ricchezza di pochi altrove, chiamando questo esproprio “progresso”), se quanto avrei voluto vivere, la possibilità di essere al centro dell’attenzione di coetanei e coetanee grazie a culo su una “mini-bomba” a quattro ruote, la possibilità di conquistare fotomodelle o presunte tali con la simpatia di Jerry Calà o con la grana di Guido Micheli, la possibilità di divertimi spensierato dopo il lavoro o durante le vacanze grazie ad un lavoro tutelato, retribuito e meritato con lo studio, la possibilità di vivere in un’Italia di Italiani, con la nostra arte culinaria, le nostre libertà rinascimentali di costumi (scevre dal puritanesimo di stampo anglosassone che si sta riproponendo con me too e che in fondo è alla base di ogni discorso sul “corpo della donna”), la nostra pienezza di vita e di gusto (nelle auto, nelle donne, nelle barzellette, nelle vacanze, pure nella vita quotidiana e soprattutto nella lingua) è stato cancellato anzitempo (bastava non accelerare, almeno in Italia, la presunta “inevitabilità” della globalizzazione per salvare ancora la mia generazione), so che c’è chi lo ha voluto, e, se non lo ha agito direttamente, ne è stato fiancheggiatore culturale (se non politico).

I giudici di manipulite, gli ex-comunisti, gli intellettuali democratici, gli internazionalisti di ogni provenienza, le femministe di ogni parte politica e, soprattutto, gli insegnanti e i professori di sinistra che “con un po’ di Marx e con molto antifascismo hanno fatto la carriera i soldi ed anche il nepotismo” e, proprio mentre criticano il mondo narrato da Vanzina in quanto “ignorante“, “cafone”, “materialista”, fanno finta di non essere stati proprio quelli che “dalle cattedre di scuole e dell’università hanno fatto al cultura con i ragli ed i qua qua” hanno, con le loro solite intenzioni moralizzatrici e progressiste (in realtà dettate da invidia e menzogna, chè tali sono, dietro la loro retorica, le idee di uguaglianza e progresso), portato l’Italia di oggi ad essere infinitamente peggio di quella del PSI di Craxi (anche, ironia della sorte, dal “loro” punto di vista della “cultura”, del “progresso sociale” e dell’equità).
Ringraziamo loro se un’auto sportiva vale meno del nuovo i-phone, se dopo la laura c’è solo la disoccupazione o lo sfruttamento in “programmini” anche dei migliori ingegneri, se non saremo mai ricchi come i nostri genitori, se non potremo mai pagarci le vacanze a Cortina con il nostro lavoro, se dovremo emigrare per lavorare dignitosamente o andare nel lontano est per aprire un’attività lucrosa, se comportarci come i personaggi di Jerry Calà e di Guido Nicheli ci darà con le donne lo status non di seduttori ma di molestatori, non di artisti ma di maiali.
E’ grazie ai “progressisti”, agli “internazionalisti”, alle “femministe”, se “un’automobile potente è un retaggio del mondo arcaico dell’autoaffermazione su strada” e “lo status fra i giovani deve essere dato dalle tecnologie social”, se “i giovani non devono essere choosy”, se “bisogna essere felici di essere meno ricchi per avere meno poveri nel mondo”, se “va bene che a Cortina arrivino i ricchi stranieri al posto degli Italiani”, se “il lavoro deve essere globalizzato”, se “un’autentica evoluzione dei sessi non può permettere di continuare a vedere la donne come un oggetto di desiderio”.
E’ grazie a loro se tutto quanto avremmo potuto amare, vivendo, nell’Italia di Vanzina, è stato gettato via e calpestato.
Quanto costituiva la premessa politica di tutto questo (una classe politica legata agli interessi della nazione e non della presunta universale umanità dietro cui si celano gli interessi della finanza senza patria ma con sede in USA) è stato fatto fuori nel 1992-1993 per via giudiziaria e soppiantato da politici tanto incapaci da accettare di entrare in Europa con regole svantaggiose, tanto gretti da pensare solo ai propri amici ed alle propria aziende o tanto venduti da barattare lo stesso Marx con il turbocapitalismo neoliberista in economia e orwelliano in cultura (pensiero unico). Le entità sovranazionali che guidano la finanza (e quindi anche la cultura, lo spettacolo, il costume) hanno poi dichiarato guerra al maschio come abbiamo più volte da questo forum fatto notare. Gli intellettuali nostrani, da Aldo Cazzullo a tutti gli scribacchini di Repubblica, hanno recepito. E noi abbiamo, dal lato lavoro e dal lato gnocca, avuto un doppio impedimento a vivere.

Anche Carlo Vanzina non è immune da questa “svolta”. I suoi ultimi film (a partire dagli anni 2000) erano difatti allineati alla visione hollywoodiana dell’uomo visto solo come punching-ball sessuale da sollevare nell’illusione e da gettare nella delusione con il massimo del dolore, dell’irrisione e dell’umiliazione possibili, come massa di ormoni priva di qualità degnamente umane e inadatto a porsi su un piano di parità con la donna (che infatti deve sempre in qualche modo pagare, ma in un contesto culturale, e con una forza contrattuale, ben diversi da quelli del 1983), come zerbino o pupazzo davanti a cui permettersi di tutto (dalla più sottile stronzaggine ai più clamorosi calci nelle palle). Per questo non fanno più neanche ridere: vedere Boldi o De Sica ridotti a “zerbini sbavanti e umiliati” (tanto per citare un titolo da forum) mentre inseguono la bellona di turno ad Aspen o in altri posti extraeuropei non rispecchia più né quello che ogni uomo non morto dentro si sente di essere, né quello che oggettivamente l’italiano medio può ancora economicamente fare. Gli ultimi vent’anni di film di Carlo Vanzina non rispecchiano più gli Italiani, va detto. E non ci fanno più nemmeno ridere.
Perché è solo guardandosi allo specchio che si può ridere. Ma davanti alla morte bisogna perdonare. Voglio quindi ricordarlo per sempre con l’ultima scena di Vacanze di Natale, al piano come Jerri Calà, mentre, riassumendo quella commedia umana che fu l’Italia Anni Ottanta “cantano, litigano, insomma, si divertono” fa della finta autocommiserazione “per me invece è diverso, perché oltre a lavorare tutta la sera qui nel locale, a volte mi devo portare del lavoro a casa”, mentre appaiono intorno le avvenenti avventrici del locale pronte a sedurlo e farsi sedurre al ritmo di “Maracaibo” e delle “ventitrè mulatte” che “danza come matte” nella “casa di piacere per stranieri” fra “room e cocaina”.
Riposa in pace almeno tu, Carlo Vanzina. Se per Allah ci sono 72 vergini, per me, nel mio personale paradiso pagano, ci dovrebbero essere altrettante avvenenti clienti per te attorno a quel piano.

Per chi ha distrutto il mondo che hai cantato, non darò invece né pace né tregua. Secondo il principio per cui “non è disdicevole dare la morte a chi ci ha reso invivibile la vita”, non avrei alcuna remora ad augurarmi persino l’arrivo vendicatore dell’ISIS per procurarmi un’occasione di resa dei conti definitiva con i figuri culturali e politici sopra elencati. Essi non hanno avuto remore quando si sono imposti nella storia che falsificano!
Non dimenticate: sanno solo mentire. Gli episodi, i particolari, sono importanti. Li vedo gridare ai quattro vento che “bisogna difendere la cultura e il sapere”. Sono gli stessi che esaltano ancora come eroi i gappisti che hanno sparato in faccia al filosofo Giovanni Gentile nascondendo l’arma fra i libri di scuole e fingendosi studenti. Questo è il loro “amore per il sapere”, la loro “filosofia”. Mi dovevo sorprendere che nella loro scuola non ci fosse libertà di pensiero? Che la scuola gentiliana fosse “fascista” poi, è effettivamente un concetto passabile, paradossalmente, solo prendendo per vera proprio la propaganda del ventennio: nella realtà era semplicemente la scuola capace di vedere l’ascensore sociale nell’oggettivo merito di studio (quello che i vari Don Milani, più dannosi di un bombardamento alleato, hanno sempre disconosciuto) e le radici del futuro nazionale nell’identità storica figlia della Grecia e di Roma (e per questo in grado, nonostante il sessantotto, nonostante i professori comunisti, di educare ancora i volenterosi del sapere). Il mondo “culturale” che critica Vanzina è quello che ha distrutto quella scuola (anche solo perché ormai non vi si parla più l’Italiano).
Quelli che oggi criticano i “populisti” che “non sanno coniugare i congiuntivi” sono gli stessi che, fino a vent’anni fa, elogiavano l’abolizione del congiuntivo in favore dell’indicativo dopo “penso che”, sono gli stessi che ai tempo della “Voce” denigravano i “rondisti” per la loro volontà di preservare la lingua poetica, la lingua di Dante e di Petrarca, giunta quasi intatta fino al Leopardi vincendo miracolosamente i secoli, magari nell’ultimo secolo danneggiata dai cretini come Palazzeschi, ma ancora forte nella lirica di un D’Annunzio. Dopo aver plaudito alla distruzione della “lingua colta” in favore dei dialetti e della “lingua delle plebe” (già dalle opere di Pasolini e del neorealismo) osano ora proporsi come difensori della cultura?
Quale cultura? Quale sapere? Avete lasciato Petrarca in poesia e Boccaccio in prosa in favore di ragionieri improvvisatisi poeti e di sessantottini impegnati nel giornalismo! Serve proprio una parola tratta da Vacanze di Natale: “mavaff…”.
Quegli stessi intellettuali progressisti che oggi criticano i cinque stelle perché “vogliono l’anarchia”, non “capiscono l’importanza delle elite” sono quelli che cinquant’anni fa gridavano “vietato vietare” nel Sessantotto e che hanno attaccato la scuola gentiliana proprio in quanto “scuola d’elite” (e quindi non “popolare”). Si lamentano che oggi le generazioni allevate dalla loro scuole senza lettere, senza principio di autorità e senza culto delle elite non vogliano accordare loro alcun “diritto da elite”. Bene fanno! Non sono degni di essere un’elite di alcun genere.
Credono di risolvere tutto dichiarandosi “antifascisti”. Potranno accusare, se vogliono, il fascismo di aver rovinato la vita di chi è stato giovane nel ventennio, dibattano gli storici su questo (possibilmente senza minacce legali). Ma a rovinare, da ormai più di vent’anni, le nostre vite, non possono più essere stati i fascisti. E nemmeno i “nazionalisti”. Sono stati proprio gli amichetti dell’antifascismo, la finanza internazionale, la magistratura democratica, i “filantropi” della “società aperta”, assieme in particolare, guarda caso, a tutti quelli che “piangono” i “torti” subiti dalla storia (non solo nel periodo fascista). Sono gli internazionalisti (che sono riusciti a rovinare persino i corsi di ingegneria!) ad aver distrutto l’Italia degli Italiani, ad aver “riunito” i figli dei borghesi e quelli dei proletari nel nuovo eterno precariato (come dice giustamente Diego Fusaro), ad aver reso antisociale il capitalismo.

Hanno perso oggi la politica, ma mantengono ancora magistratura e cinematografia.
Perché è chiaro: come un tempo era proprio quell’Orazio pronto senza alcuno scrupolo a fare della propria arte un mezzo della propaganda augustea (tanto da inventarsi il “nunc est bibendum” alla morte di Cleopatra e la vecchia menzogna del “dulci et decorum est pro patria mori”) a criticare in Plauto la disposizione “a scrivere commedie solo per far ridere il popolo e guadagnare”, oggi sono i registi e i critici servi del potere culturale sinistro a criticare Vanzina come “autore commerciale” e a non volerlo porre alla pari di un Visconti o di un Monicelli. Ebbene si dica: Visconti e Monicelli hanno prodotto capolavori immortali (io stesso vorrei avere “Il gattopardo” e “la caduta negli dei” da proiettare nella mia tomba, assieme ad “Amici miei” ed a “Brancaleone alle Crociate”), ma il contenuto di quei capolavori era anch’esso propaganda politica filocomunista, né più né meno di quello di Orazio per Augusto. Anche il genio al servizio della politica. Proprio questo significa “potere culturale” (a proposito, si ristudino Gramsci questi retori dell’antifascismo).
Quando si dice che “non facciamo della legalità una questione di destra” non la si dice tutta. Per decenni la sinistra ha avuto a disposizione il cinema per mandare messaggi come quello di “guardie e ladri”, dove Aldo Fabrizi, carabiniere, ha quasi dispiacere nell’arrestare il ladro Totò (che ruba per sfamare la famiglia). Tale visione del mondo, estesa per mille film in mille contesti, produce ancora oggi l’effetto culturale di giudici che, nel dubbio, condannano il proprietario che si difende dal ladro, risarciscono il delinquente che si è introdotto per rubare e si è fatto male, prendono la casa a chi ha ucciso un bandito che ha delle donne per piangerlo!
E lo stesso si potrebbe dire con mille esempi per le sentenze a senso unico femminil femministe. Ora la misura è colma. Se non lo capiscono da soli, glie lo si farà capire. Arriverà un bel giorno in cui non saranno più loro a poter minacciare.

Se dovessi dare un consiglio a Salvini (che rischia di fare la fine di Berlusconi senza avere le stesse tv e gli stessi avvocati per difendersi) gli direi di badare al cinema: per la prossima guerra, sarà l’arma più potente. Non solo il parlamento, ma la visione del mondo deve cambiare (e solo una rivoluzione culturale può farlo), se si vuole che gli Italiani si riprendano l’Italia e licenzino chi, da loro pagato, non fa, da decenni ormai, il loro interesse (ma, nel migliore dei casi, si balocca in questioni di diritto teorico). La magistratura deve smettere di essere considerata questa creatura astratta e superiore, inviolabile ed infallibile quale ci viene vergognosamente proposta dai tempi di Di Pietro e tornare ad essere trattata per quello che è in ogni stato reale: un organo al servizio del pubblico bene (che è il bene dei cittadini italiani, non dell’uomo in astratto amato dagli antropologi e dai teorici dei diritti umani) formato da individui influenzabili e fallibili, che da troppo tempo sono stati lasciati alla deriva di “correnti” sinistrorse, ed ora devono essere ricondotti alla ragione ed alla realtà.
Tanto è lontana dall'essere impolitica la magistratura che, fino a quando la sinistra aveva il mito della difesa del lavoratore, non si trovava un giudice del lavoro che desse ragione al datore di lavoro (la Fiat faceva fatica a licenziare o a trasferire persino elementi attigui alle BR), mentre ora che la sinistra ha sposato la causa del liberismo danno torto ai precari!
Non condividono? Condividerà sempre più gran parte della nazione se vanno avanti con certe sentenze! Non accettano? Dovranno accettare se vorranno rimanere, E lo stesso dicasi per i professori universitari. Non è più tempo di mantenere dentro lo stato gente che rema contro. L’esempio d’azione dell’attuale governo turco in materia ha, da parte di me sultano di Costantinopoli, piena solidarietà! Contro i nemici internazionali tanto minacciosi (e stiamo vivendo sulla nostra pelle gli effetti), una nazione deve essere internamente coesa. Costi quello che costi (e non è neanche un gran costo che la parte politico-culturale abituata, da ben più di un ventennio, ad ostracizzare, inizi provare sulla propria pelle cosa significhi l’ostracismo). E adesso criticate pure.

Beyazid_II
Newbie
03/07/2018 | 19:57

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@Tesista76 said:

La ragazza di Alessandria

Vivere una vita di passioni era qualcosa che avesse senso, Schopenhauer gli aveva rivelato la vera natura del tempo: un banale metronomo. La musica funzionava abbastanza, ma il non senso della vita gli suggeriva di non porre limiti alla sinfonia, dovrebbe essere grandiosa, pensava.

Una buona cultura positiva è un’attenta disciplina razionale permettevano tutto, tutto quello che voleva, bastava fissare un obbiettivo e partire con il primo mattone

Ed eccolo lì, realizzato nel suo lavoro, una sposa perfetta e bimbi perfettamente in salute

Una sensazione di benessere impareggiabile, tutta la contemporaneità ignorata, padrone del proprio destino.

Ed eccola lì, un vento, bastava solo l’ombra per ingrossare le vene, rosso maledetto colore, le valvole impazzite, un coraggio ...parte la musica

Quel che fatto e quel che sei,
Quel che si dice “il tuo mondo”
In un attimo vedrai
Senza un sussulto andare a fondo,
Basta incontrare un certo sguardo
Com quel lievissimo ritardo
Che fa tutto più facile…

E riemergono per lei
Le tue attitudini perduta,
Una stagione si aprirà
Per frasi mai inaugurate…
Sarai più giovana, più audace,
In te l’instinto più feroce
Si farà, è sin troppo facile…

Poi, finita che sarà
Questa parentisi di gloria,
E il batticuore cederà
Al ritornare della memoria,
Non bastaranno mille donne
A toglierti la notte insonne,
Com’è… com’è difficile…

Tu cercherai di far capire
Chi sei, cosa vali, cosa vuoi dire…
Ma ormai è troppo difficile…

Ma ecco la cosa che lo salva, quel maledetto anello!
Non può finire così, deve rinunciare e soffrire, per cosa?
Per l’oro di quell’anello, perché vince la vita, non le passioni, ma la vita, la vita senza senso ma che vita! Ma che dolore, bitter che bontà, che grigi, che cicatrici

Che meraviglia le forme dell’amore

La letteratura per piacere, la matematica per ottenere, il jazz per sopravvivere

Occhio che l'articolo 5 del regolamento vale anche per te!

Mi dispiacerebbe non poter comprare un giorno il libro che potresti scrivere!
Al di là della mia idiosincrasia per le rime "imperfette"....

Beyazid_II
Newbie
03/07/2018 | 19:54

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@Fubelli

Sottoscrivo parola per parola quello che hai scritto.
Non è me che devi convincere, ma i vari antropologi, i vari filosofi, le varie femministe che sostengono l'uguaglianza (potenziale) delle pulsioni sessuali fra i sessi!
Purtroppo sono loro a fare le leggi. O comunque le leggi sono fatte come se essi avessero ragione.
E questo spiega tutti gli assurdi che hai esemplificato benissimo.
Spiega anche, mi sia permesso di dirlo, perchè un certo mondo "progressista" (lo stesso che fa pisciare gli uomini seduti in Svezia, vieta la prostituzione in mezza Europa e rende invivibile la vita ai maschi di mezzo mondo) deve essere spazzato via dall'Italia non solo politicamente. Gente come la Boldrini o gli scribacchini di Repubblica devono temere di perdere molto di più che voti e credibilità. Devono perdere il posto. Gente come chi viene qua a scrivere che "siamo tutti uguali, è tutto colpa della cultura maschilista" deve essere messa in condizioni di non nuocere più ai propri simili (noi maschi giovani e meno giovani).
Invece per ora siamo ancora nella situazione in cui, se mi firmassi, il posto lo perderei io.
Ne abbiamo ancora di strada da fare, per il cambiamento. Ma dobbiamo iniziare da qui, parlando di cose reali, realmente universali e realmente desiderate come la gnocca. E parlandone tra uomini (perchè simmetricamente lo stesso fanno le nostre avversarie). Senza dover compiacere una donna. Senza doverci mettere in mostra per loro. Senza dover temere il giudizio del politicamente corretto a senso unico.

P.S.
Forse sono un pessimo divulgatore, dato che ho mancato l'obiettivo di farmi capire. In realtà la parte che forse ti appare meno chiara della mia trattazione è proprio quella in cui cerco di dimostrare l'origine culturale del preteso pensiero "scientifico" (antropologia, psicoanalisi ecc.) che nega l'evidenza dei fatti da te posta. Purtroppo a discorsi tanto oscuri è necessario contrapporre argomentazioni non sempre facili.

Beyazid_II
Newbie
03/07/2018 | 18:55

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@Tesista76 said:
“era uno dei modi per elevarmi spiritualmente e rendermi degno di lei.”

Titolo: Le donne salvano il mondo e quelli a cui non piace il presepe

L’origine del mondo, un un quadro di drammatica separazione

Se è vero che senza una donna in casa il pavimento si riempirebbe di mangime per avicunicolo, presto o tardi nella vita si inciampa in una donna che cambia le cose e convincendo la tigre a mettersi i calzini

Tuttavia tanta letteratura, sentimento ed interesse per il mondo sensibile se non indotti da una disfunzione ormonale, sono scatenati da un incontro che rimane insoddisfatto e maldestramente gestito

Nella maturità ci pensa un carattere più forte e pragmatico ad evitare la costruzione di un ricco presepe interiore in attesa che l’angelo annunci alla tipa che è arrivato il momento di concedere il grembo al divino destino

Ma voi siete un genio!
Avete anticipato il senso dei capitoli successivi, ovvero il superamento della fase “sentimentale” in favore di quella “agonale”. Appunto, da Ficino a Nietzsche (fase che per me è durata una decina d’anni almeno).
E le vostre parole sono stupefacenti!
Riescono, con un simbolismo cristiano, a sintetizzare uno dei messaggi dell’autore dell’Anticristiano.
C’è un brano dello Zarathustra in cui l’amore romantico per le fanciulle angelicate, viste con gli occhi dell’anima rivolti al cielo, viene duramente criticato in quanto sterile in sé, incapace di generare oltre sé, e quindi contrario alla Vita (nel doppio significato di sua riproduzione e continua ascesa), per i motivi che avete ben espresso.
Leggendolo (dovrebbe essere un decennio oggi da quando lo lessi) capii quanto abbia gestito maldestramente non solo l’incontro insoddisfatto, ma pure il rimpianto per la rinuncia, che aveva generato “il ricco e inutile, anzi dannoso, presepe interiore”.

@Tesista76 said:

“Amore e successo passano dalla negazione del sentimento”.

Mai fu vero come nella nostra epoca, nella quale non solo la scienza ha definitivamente disvelato come quanto il volgo chiama amore altro non sia se non “l’inganno che la natura ha dato all’uomo per propagarne la specie”, ma la società stessa è organizzata come una grande Recanati (la chiamano, infatti, “villaggio globale”) nella quale “argomenti di riso e trastullo sono dottrina e saper” (leggi: bisogna raccontare balle e balle anche in ambito scientifico e finanziario per fare carriera e soldi), in cui fare carriera e soldi basandosi sull’amore-stupore per la verità (ciò in cui, ultimativamente, consisteva la scienza quando era davvero tale) o anche solo per un mestiere ben fatto (che non sia speculare in borsa) è pura utopia e in cui tanto il tempo e la concentrazione rubati dal “negotium” quanto l’arte letteraria, cinematografica e figurative ridotta a “marketing” hanno ucciso ogni possibilità di impiegare il proprio “otium” per coltivare un “giardino interiore” (a volte, anche solo per leggere un classico, per riflettere sul mondo al di là dello spread, delle polemiche, del femminismo).

@Tesista76 said:

“La donna avverte l’uomo forte e stabile quanto più distaccato e vago sia il suo sentimento, cosa che non può essere artificiale ma forgiata dal carattere”

Avete riassunto ancora una volta Nietzsche:
“L’intelletto delle donne si manifesta come perfetta padronanza, presenza di spirito, sfruttamento di tutti i vantaggi. Esse lo trasmettono come loro qualità fondamentale ai loro figli, e il padre vi aggiunge il fondo piú oscuro della volontà. L’influsso del padre determina per cosí dire il ritmo e l’armonia, secondo cui si svolgerà la musica della nuova vita; mentre la melodia di essa proviene dalla donna. – Detto per coloro che sanno trarre profitto da qualcosa: le donne hanno l’intelletto, gli uomini il sentimento e la passione. Ciò non è contraddetto dal fatto che gli uomini giungano in realtà tanto piú lontano con il loro intelletto: essi hanno gli impulsi piú profondi e piú forti; sono questi che portano cosí lontano il loro intelletto, che di per sé è qualcosa di passivo. Spesso le donne si meravigliano segretamente della grande venerazione che gli uomini tributano al loro sentimento. Se gli uomini, nella scelta della loro compagna, cercano soprattutto un essere profondo, pieno di sentimento, e le donne invece un essere intelligente, fornito di presenza di spirito e brillante, si vede in fondo chiaramente come l’uomo cerchi l’uomo idealizzato e la donna la donna idealizzata, ossia non l’integrazione, bensí il perfezionamento dei propri pregi.”

Schopenhauer era stato ancora più sintetico dell’affermare che
“per la donna, l’uomo è un mezzo il cui fine è il bambino”.

Forse è sempre stato così, al di là del turbocapitalismo, del socialismo, del femminismo. Forse, al di là della retorica (a turni alterni, mia e loro), lo stesso (vituperato) “patriarcato” è stato solo il modo provvisorio in cui le donne hanno usato gli uomini come padri. Ed hanno tratto da loro quella durezza, quella “sana barbaria”, quel potere della morte che, forse, non erano innate all’animo maschile, ma che esse stesse hanno impiantato in noi avendone bisogno per “accrescere la vita” nel contesto storico (non dimentichiamo che lo stesso Nietzsche, orfano di padre, è stato educato esclusivamente da donne).

Certo,

@Tesista76 said:

“L’uomo sublima se stesso quando rinuncia alla fantasia del presepe (per quanto carino possa essere) passando sopra i sentimenti.”

Nella tragedia, la parola “sublime”, letta dall’altra parte (dalla parte pragmatica della donna, opposta a quella sentimentale dell'uomo) è sinonimo di “sacrificio”, “uccisione”, “morte”. Sublime, per definizione, è il sacrificio dell’eroe che morendo vive o fa vivere qualcuno o qualcosa oltre sé.
Ringraziamole pure con gli occhi e le parole di Nietzsche, perché “se qualcosa non ci uccide, ci rafforza”. Ma se, per un attimo, torniamo a guardare le cose con gli occhi di Ficino e le parole del neoplatonismo, ci accorgiamo che l’ipotesi non è verificata. Siamo stati uccisi.
Quello che le donne uccidono in noi (da subito, nell’atto stesso in cui richiedono un corteggiamento non romantico ma nichilisticamente moderno o settecentescamente cicisbeo) è il senso del vivere, l’autenticità, il chiamare le cose con il loro nome, in una parola, l’anima. Non uccidono un presepe (cioè un mondo apparente della rappresentazione), bensì il mondo vero.
Riprendendo le mie parole, per quel “microcosmo che è il mondo” (e che, in accordo al vostro titolo, hanno la mirabolante e messianica pretesa di salvare), uccidono quindi quel “macrocosmo che è l’uomo”.
E quello che rimane è appunto un mondo apparente di “ruoli”, “lavori”, “cultura” (quella fra virgolette), “idee politiche” (ora neanche quelle), “partiti”, “soldi” (la rappresentazione per eccellenza). Potete tenere la radio accesa per un giorno, non una sola parola risuonerà le verità dell’anima che da fanciulli ci parevano pure così evidenti. E la bellezza, la verità, la conoscenza, ridotte a idee moderne (vale a dire idee false).

Fingiamo pure che “il presepe” sia pura rappresentazione da superare. Fingiamo pure di non essere stati feriti a morte. Fingiamo pure che in ogni caso valesse la pena “sublimarsi”. Dopo aver già finto che le idee siano solo idee, che Platone abbia solo raccontato favole, che dio e l’uomo siano solo racconti per bambini, che Plotino abbia sbagliato tutto sul cosmo e Ficino abbia sproloquiato sull’immanenza. Possiamo però fingere di essere ancora “utili”, nel senso di quel fine, per il quale solo, le donne ci hanno amati?
Lasciamo pure stare la riproduzione artificiale ed il mondo di sole donne (che possono essere propaganda scandinava), lasciamo pure stare l’evoluzione tecnologica che, a detta di talune, renderebbe inutile l’uomo, i suoi muscoli ed il suo carattere (può essere solo ignoranza del mondo scientifico reale e dell’etologia), lasciamo pure stare la mitologia della pace perpetua, che per le femministe implicherebbe la “fine del maschio” (può essere solo menzogna messianica).
Non mi interessa sapere se sia vero o falso, dato che falso in partenza è il mondo in base a cui oggi si definisce l’idea di utile. Mi interessa che ogni notizia, ogni nuova idea, ogni nuovo film, ogni nuova pubblicità, ogni nuova legge, grida a noi “siete inutili”. E le donne che non lo credono sono convinte a pensarlo. Quelle che non lo pensano saranno costrette a scegliere come se lo pensassero.
Quello stesso capitalismo in cui dovrebbe materialmente avvenire il mio sacrificio, il mio annullarmi, il mio sublimarmi in nome dell’utile per la donna e per il suo cavolo di mondo da salvare, mi dice fin da piccolo che sono inutile, anzi dannoso.
Ci viene chiesto, oggi di sacrificarci, come i guerrieri di ieri, ma con la novità di scoprire inutile il sacrificio. Guerriero forse, coglione mai.

@Tesista76 said:

“Quante minchiate nel cervello di quell’uomo potrebbero portarlo a distruggere una relazione stabile e con figli nel momento in cui dovesse farsi scivolare negli occhi un’altra giù dritta nel cuore?”

Bene fino a cinquant’anni fa, ma oggi un minchione di giudice potrebbe distruggere in cinque minuti la vita di un uomo (e la serenità dei figli) solo perché l’ex-moglie si è lasciata scivolare nel cuore (o “più in basso, molto più in basso”, come direbbe Napoleone nelle lettere a Giuseppina) un altro (o addirittura un’altra!). Ridurlo, nel solo tempo necessario ad emettere una sentenza, per una qualsiasi minchiata vera, presunta o inventata, ad esule ottocentesco privato di “famiglia, casa, roba”. E con il coro tragico delle femministe a parlare di “violenza” se qualcuno non sa sopportare in silenzio l’esproprio, l’ingiustizia, la sopraffazione giudiziarie, psicologica e socioeconomica.
Ecco perché i gradi di separazione non si fermeranno al prossimo. Con Nietzsche, ma oltre Nietzsche. Come egli stesso ci ha insegnato.

Certo,

@Tesista76 said:
“Ringraziamo sempre le donne che ci rifiutano, ci danno l’occasione di fare quello per cui è costruito un uomo: lottare, allenarci alla lotta, rinforzare carattere e muscoli”

O, meglio, le abbiamo ringraziate fino a quando è valsa la massima nietzscheana

““L’uomo deve essere educato alla guerra e la donna al riposo del guerriero: tutto il resto è stoltezza””.

Se le donne, come appare oggi con ogni evidenza materiale e morale, non sono più disposte a confortare il guerriero, ma anzi, vestendo da amazzoni, gli dichiarano addirittura guerra (e quelle che non agiscono così sono spinte a farlo dalla società femminista e dalle sue menzogne), perché noi dovremmo ancora accettare del guerriero i sacrifici? E in nome e negli interessi delle donne per giunta!?
E si potrebbe continuare, con le pretese delle donne di mantenere gli antichi privilegi (corteggiamento, galanteria, recite, mantenimento) assieme ai moderni diritti, con le richieste a noi di essere padri senza darci del padre le prerogative (vedi aborto, matrimonio matriarcale) eccetera eccetera
E anche volendo, è possibile lottare? Lottare culturalmente non è possibile perché qualunque contestazione al pensiero unico è “ignoranza”, “complottismo”, “analfabetismo funzionale”. Lottare economicamente non è possibile perché “è inevitabile che la globalizzazione sposti benessere dai ceti medi europei ai neoricchi asiatici e ai miliardari senza patria”. Lottare politicamente non è possibile perché “c’è lo spread” e “non si può spaccare l’Europa” o “fermare il progresso”. Lottare intellettualmente non è possibile perché “lo studio non conta se non ti fa far soldi” o perché se non concordi con l’egalitarismo sei accusato di “discriminazione”. Lottare militarmente non è possibile perché “loro hanno l’atomica”. O ce la fa l’Islam radicale (che, nota sempre il nostro “ha dei maschi per presupposto”), oppure ognuno dovrà pensare a sé.
L’unica forma di lotta rimasta è quella esistenziale. O se volete anche virtuale. Restare fanciulli per mantenere la “totipotenza”, la potenza più che guerriera di creare e distruggere mondi e tavole di valori. Non diventare completamente uomini (non diventare completamente definiti, e quindi "stabili") per non essere completamente spazzati via in nome del “sublime sacrificio” che assomiglia tanto a quello del fuco.

Se saremo ancora guerrieri, non sarà per combattere altri uomini, non per “salvare il mondo” da un nemico che nella storia ci hanno fatto vedere nel barbaro, nell’infedele, nel nemico di classe, nel banchiere ebreo, nel terrorista islamico, insomma, sempre in altri uomini. Sarà per combattere questa assurdità di mondo (che, per te, “deve” essere salvato dalle donne, ma per me può benissimo perire, anzi, "bisognerà aiutare a farlo").
Dovrò passare sopra alle donne, ai loro bambini, al loro mondo da salvare? Alla malora!

Siamo poi sicuri che il mondo per cui i veri guerrieri combattevano, il mondo che leggiamo in Omero ed in Virgilio, il mondo del nobile, del grande, dell’eroico che piaceva al Leopardi, il mondo insomma delle “cose necessarie, universali, perpetue”, sia il mondo delle donne e dei loro pargoli? Dell’uomo stabile e borghese? Della station wagon con figli?

E poi io stesso sono stanco di lottare non solo contro l’assurdo, ma pure dentro l’assurdo. Il poeta che più di tutti non ha fatto “passare il Natale” e “sparire il presepe” è stato Torquato Tasso. Nessuno più di lui ha saputo cantare la profondità dell’animo maschile, il chiaroscuro di ogni suo sentimento, la malinconia del suo rimpianto, la dolcezza anche nel dolore, il sospiro dell’eterno nella bellezza morente. Nessuna opera più della Gerusalemme Liberata ci canta il dramma del nostro genere in quella guerra sessuale che è sempre stata la civiltà occidentale. E lo fa, ovviamente, attraverso i personaggi femminili, Erminia e Clorinda. Il protagonista maschile Tancredi, difatti, è “rapito dal dovere”, deve conformarsi alla dura legge del “vero storico”, e non può permettersi sentimenti. Non può dunque parlare di quello che siamo prima, per dirla con le vostre parole, “che il Natale passi”. Può però ben rappresentare la donna in quanto tale: si presenta a noi (gli “infedeli”) con un esercito schierato a battaglia (terribile come appunto la bellezza “non compensabile” con altre armi), fa innamorare Erminia (e cioè noi) al primo sguardo (e solo perché gentilezze e sorrisi avevano in precedenza accompagnato la di lei prigionia), nell’economia della trama è destinato a vincere (d’altronde, come tu dici, il “mondo deve essere salvato dalle donne”). Ed è pure femminista, dato che contro di noi sta muovendo una crociata. Noi, come uomini (quindi non ancora come seduttori), siamo due personaggi in uno: siamo la timida Erminia, troppo desiderosa della bellezza di Tancredi per potersi rivelare senza timore, troppo devota nel suo amore incondizionato per potersi offrire senza essere distrutta, troppo profondamente permeata di sentimento per trovare le parole o anche solo per capire cosa sta provando, troppo chiusa insomma nel suo mondo interiore (tu diresti, il presepe), ma siamo anche la guerriera Clorinda, che sa di poter essere rispettata e amata solo ponendosi su un piano di parità nella lotta (e per questo è abile con la lancia come un uomo lo deve essere nella dialettica per tener testa alle donne, è lucida e pungente con la spada come noi lo dobbiamo essere con la ragione e la parola quando incontriamo la nostra controparte femminile), vive fra le armi (come noi costretti a vivere nel mondo esterno del “negotium”) ed è anzi sempre la prima a dare battaglia (ciò a cui siamo costretti noi nel corteggiamento). Sia quando Erminia si traveste da Clorinda per correre da Tancredi (e rischia di venire uccisa per sbaglio), sia quando Clorinda viene inconsapevolmente ferita a morte da Tancredi stesso (che, al pari della donna, è “innocente” perché non sa, e piange quando è troppo tardi), siamo sempre anime che si trovano in ruoli e armature sbagliate. E tutto perché? Perché la nostra controparte (che oggi crede pure di essere “la parte migliore dell’umanità”) non ha alcuna intenzione di rinunciare ad una sola delle prerogative di chi è stato “messo da dio” dalla “parte dei buoni”. Non rinuncerà mai ad imporre le recite e i patimenti della “corte” anche a chi ha visto benissimo avere tutte le qualità di sentimento o intelletto per tutti i tipi di possibile rapporto. Non rinuncerà mai, né nel primo fugace incontro, né durante o dopo una lunga unione matrimoniale, ad imporre il proprio interesse, materiale e morale, al di sopra di qualunque concetto di umanità, con l’argomento che “altrimenti il mondo non andrebbe avanti”. Questo Torquato Tasso ci ha raccontato simbolicamente, altro che “la crociata contro gli infedeli”. Il “mondo salvato dalle donne” lo ha ringraziato rinchiudendolo in manicomio.
Ancora più pazzo di allora è il mondo di oggi. Io sono sempre stato Erminia. Perché devo continuare a lottare dentro l’armatura di Clorinda mentre combatto come un uomo contro una turba di amazzoni?
E con il coro che mi accusa di lottare per valori sbagliati, quando sono gli stessi che le donne mi hanno imposto e che ora usano come motivo di guerra?
Viene voglia di mollare a terra elmo e corazza. E mostrare la nuda verità.

Beyazid_II
Newbie
03/07/2018 | 12:55

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@FlautoMagico said:
Sono ovviamente d'accordo che la cultura sia fine a se stessa, non certo per piacere alla Gnocca, ma dal momento che uno ce l'ha la impiega anche per quella.

La distinzione tra classico e romantico è una distinzione fondamentale che va ben oltre le nozioni del liceo. Lì ad esempio non ti insegnano certo se bach è classico o romantico (la prima) o se lasker ha uno stile di gioco classico o romantico (la seconda).

Rispetto il vostro pensiero ma non lo condivido.

Medioevo-umanesimo-rinascimento-barocco-rococò-classico-romantico-decadente: è la catena con cui lo storicismo da cui è stata formata la scuola italiana (anche a livello di persone, se pensiamo che il De Sanctis ne è stato uno dei primi ministri) ha a sua volta formato generazioni di studenti. Il fatto che questi, diventati professori, registi, attori, scrittori, politici, finanzieri eccetera abbiano a loro volta riprodotto nelle loro opere questo schema mentale, tanto da farlo sembare una "distinzione fondamentale che va ben oltre" il liceo non lo rende "realtà effettuale". E' sempre "story telling", per usare un termine "alla moda". Con questo non lo critico: senza lo schematismo storicista, probabilmente gli studenti non ricorderebbero i tratti più significativi di arte e letteratura italiane ed europee, sarebbero in difficoltà nel riconoscere un autore dell'altro ed avrebbero in testa un "blog" di immagini, parole e suoni vagamente visto come "cultura" e concepito come qualcosa di noioso e lontano (in quanto imperscrutabile). Cosa che avviene, secondo quanto mi è stato raccontato, ad esempio nelle scuole anglosassoni, dove tutto viene studiato ad argomenti e non a periodi storici.

Riconosciuta "l'utilità", Dio ci guardi, però dal "danno" della "storia per la vita". Permettete un'altra citazione dal Nostro:

"Qualora le personalità si siano estinte nel modo sopra esposto fino all'eterna mancanza di soggetto, o, come si dice, all'oggettività, niente può più avere effetto su di loro; qualunque cosa succeda di buono e di giusto, come azione, come poesia, come musica, immediatamente lo svuotato uomo istruito volge via lo sguardo dall'opera e si informa sulla storia dell'autore. Se questi ha già prodotto parecchie opere, deve subito farsi spiegare il percorso fino a quel punto seguito e il presumibile percorso ulteriore del suo sviluppo, subito viene posto a confronto con altri, sezionato, squartato quanto alla scelta della sua materia, quanto alla sua trattazione, quindi giudiziosamente composto, tutto sommato ammonito e redarguito. Anche nel caso che succeda la cosa più strabiliante, sempre è sul posto lo stuolo dei neutrali storici, pronto a dominare con lo sguardo l'autore da molto lontano. Immediatamente risuona l'eco: ma sempre come «critica», mentre fino a poco prima il critico non se la sognava neppure la possibilità di quanto sta succedendo. Non si giunge da nessuna parte ad un effetto, ma sempre solo nuovamente ad una «critica»; e la stessa critica non origina di nuovo nessun effetto, ma compie di nuovo solo esperienza di critica. Ci si è intanto accordati di considerare molte critiche come azione efficace, poche o nessuna come fallimento. In fondo comunque, anche con una tale «azione efficace», tutto rimane nel vecchio modo: è vero che per un po' si spettegola di qualcosa di nuovo, poi ancora di qualcosa di nuovo, e frattanto si compie quel che si è sempre compiuto. "
(da: F. Nietzsche, "Sull'utlità e il danno dalla storia per la vita" - Considerazioni Inattuali)

Beyazid_II
Newbie
03/07/2018 | 12:17

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@Tesista76

Grazie per le tue belle parole. Penso che tu abbia centrato il punto su entrambe le questioni.

Il genio è colui che scorge la bellezza nel chaos e già per quello la ordina in kosmos, prima di chi, per farlo, ha bisogno di derivare leggi razionali.

Schopenhauer diceva, giustamente, che la salute non è tutto, ma senza la salute tutto è nulla. Il denaro è, nella nostra società, un gradino sotto: non permette di comprare tutto nella vita, ma senza di esso non si compra nulla (e quindi, oggi, non si vive). Da ventenne credevo che la poesia potesse provocare quella "frattura" nelle leggi metafisiche dell'attrazione di cui tu parli (come eccezione). Da prossimo quarantenne cerco disperatamente di capire se, smettendo di crederci, ho in realtà perso l'occasione dell'amore o, come solo convinto quando ragiono, solo occasioni di turbamento, ferimento, umiliazione, derisione e illusione.

Beyazid_II
Newbie
03/07/2018 | 12:04

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@whip69 said:
@Beyazid_II

Tutto molto interessante, ma nel caso tu voglia, in futuro, trarne una pubblicazione ti ricordo il Regolamento:

05) non è consentito agli utenti di rivalere alcun diritto su testi, immagini e video pubblicati sul sito web;

Sono certo che tu lo sai benissimo!
Ad ogni modo i posteri, lettori del forum, ti ringrazieranno! 😉
Buona continuazione!! 👍

Ti ringrazio molto per la stima, ma non penso che, almeno per questo testo divulgativo, la questione si ponga. Sei davvero carino se pensi che qualcuno sarebbe disposto addirittura a pagare per leggere quanto scrivo su Schopenhauer e Lorenz. Se anche fosse, rinuncio volentieri agli spiccioli pur di diffondere consenso e conoscenza su idee che vedo e sento come vere. Insomma, meglio un "partito" (anche se virtuale) che banali ed individualstici diritti su un testo.

Potrei avere qualche idea sul "romanzo a puntate" che sta nascendo, per scherzo, nell'altro 3D (dove all'inizio avrei solo dovuto spiegare in 6 gradi di separazione l'origine del mio nick), perchè è più intimo. Se però dovessi davvero scrivere un romanzo sui "miei primi quaranta anni" da pubblicare, quanto sto postando sarebbe solo la traccia. Un romanzo, per come lo intendo io, deve avere dei dialoghi e delle descrizioni. Un "mio" romanzo deve avere, inframezzata alla parte narrativa "reale", una parallela onirica (come nel caso del "Maestro e Margherita" di Bulgakov) che ne rilevi il senso (al contrario di quanto fanno gli psicanalisti, i quali spiegano invece i sogni con la realtà). Tranquillo che se mi mettessi in testa di pubblicare da qualche parte (ammesso di trovare i soldi ed il tempo per farlo), quanto scritto qui sarebbe "irriconoscibile" e comunque quantitativamente infinitesimo rispetto al resto.

Prendetelo come un "teaser". In ogni caso, molto meglio condividere qua in anticipo il contenuto che lasciarlo poi sepolto fra gli invenduti (come realisticamente avverrebbe).

Ma prima di apprestarmi ad un'opera del genere, dovrò assicurarmi una posizione accademica relativamente tranquilla. Come ho spiegato, lavoro in tutt'altro campo da quello della letteratura e non posso permettermi troppe distrazioni. Già ora sto perdendo forse troppo tempo con le parole, ma fino a quando non funzionerà davvero l'aria condizionata, in questa cavolo di facoltà, è difficile per me applicare il mio cervello a calcoli integrali....(quindi approfitto per cazzeggiare culturalmente: mia personale alternativa alle comune macchinette del caffè e alle chiacchiere fra colleghi).

Beyazid_II
Newbie
03/07/2018 | 11:41

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@beautifulgirlsliker said:
@Beyazid_II
"Se un uomo non raggiunge una certa posizione socio-economica non può esercitare alcuna attrattiva di sorta verso il mondo femmineo.

triste, ma nella sostanza vero (le possibili eccezioni che assolutamente non nego restano appunto delle cose straordinarie e dunque irrilevanti)
P.S: ciò non vale per i cosiddetti, veri o presunti, "strafighi" nella fascia di età 20-30 anni (talora si sfora un po', dunque anche un po' di più le cas échéant)

Mi rallegro se oggi fra i giovani è avvenuta una "rivalutazione" della bellezza maschile. Ogni volta che rileggo il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde sono preso da amarezza mista a rivalsa verso le donne che "ci hanno rubato la bellezza" (nel senso che, a furia di pretendere da noi tutt'altre doti, non ci fanno vivere, da giovani, quel dono della natura che mette il protagonista del romanzo al centro dell'attenzione di gentiluomini come Sir Herny e di artisti come quello che lo immortala nel dipinto, ovvero, che fuor di metafora gli permette, solo per quello che è, di stare al centro di tutto quell'apprezzamento sociale, intellettuale e amoroso, che, fuori del romanzo, noi uomini possiamo semmai raggiungere solo da "maturi" non con quello che siamo, ma con quello che "abbiamo costruito": denaro, cultura, posizione ecc.).

Personalmente non sono mai stato uno strafigo, o almeno non nel senso in cui questo viene raffigurato nell'immaginario moderno dei palestrati e dei tatuati. Ero semmai un angioletto (d'aspetto) vispo come un diavolo che faceva (suo malgrado) innamorare soprattutto certe insegnanti (che stravedevano per me oltre ogni mio possibile merito umano) e certe commissioni d'esame tutte al femminile. Difatti, ho sempre avuto l'impressione di piacere molto più alle madri che alle figlie (le quali hanno spesso scelto personaggi inferiori a me anche esteticamente...). Ma sono altri tempi. Lasciamo stare me che non faccio testo.

Ho visto però ragazzi molto più fighi di me (nel senso dell'immaginario moderno), con fisici staturi e visi da Brad Pitt, dover accettare di essere trattati da zerbini da melanzane con il culo basso e le gambe storte, o comunque da fanciulle "normalissime", assolutamente prive di quella delicatezza di tratti, di quello slancio di figura, di quella altezza di beltade caratteristica dello stereotipo di attrice/modella. Da lì ho maturato le mie convinzioni. Non credo che anche essendo molto più bello avrei avuto tanto più successo. Sicuramente un uomo, anche se bellissimo, non viene mai "dispensato" dal dovere della cosiddetta "conquista" e dai rischi, dalle fatiche, dalle sistematiche "frustrazioni" del dover "fare la prima mossa" alla cieca.

Magari riceve meno no quando ci prova, viene con più frequenza "facilitato" nel compito, è accolto da sorrisi più che da spenta indifferenza, ma non potrà mai (finzione televisiva della De Filippi a parte) starsene seduto sul "trono" della bellezza" a selezionare chi si fa avanti per lui come può fare (almeno in Italia) persino la più mediocre delle nostre fanciulle. Dovrà sempre e comunque "inventarsi qualcosa" per farsi notare, pensare a cosa dire e cosa fare per "sorprendere" e "compiacere", dichiarare di fatto il proprio interesse e sottoporsi con questo al solito esame femminile (con annesse tensioni e possibilità di subire ogni tipo di irrisione al disio, umiliazione pubblica o privata e ferimento fisico o psichico), e provare ogni volta l'illusione (necessaria sempre al pari dell'idealizzazione della donna: senza esse nessuno accetterebbe il rischio) e la delusione (nemmeno il più bello degli attori piace e tutte le spettatrici).

Ecco perchè non ho mai rimproverato il cielo di non avermi creato abbastanza bello: avrei comunque dovuto corteggiare, ovvero passare sotto quelle forche caudine che non posso più sopportare psicologicamente.
Ecco perchè rimprovero invece il mondo di non avermi "permesso" (ovviamente scherzo) di diventare schifosamente ricco: avrei potuto, anche qualore bruttissimo, essere "corteggiato" (anche se solo per interesse), ovvero entrare in contatto con le donne senza doverne sperimentare il lato più naturalmente crudele e respingente (altro che l'empatia e l'inclusione di cui le femminil-femministe blaterano politicamente!).

L'unica "magia" che permette di "invertire" i ruoli nel sesso è il denaro. Basta entrare in un FKK per capire che il titolo del capolavoro di Hjalmar Schacht potrebbe avere un risvolto dal lato "gnocca" oltre che da quello finanziario.

Beyazid_II
Newbie
02/07/2018 | 19:07

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CAPITOLO PRIMO
"la scelta delle donne (e degli uomini) fra miti e realtà scientifica"

Per quanto riguarda l’argomento di cui si discuteva qui sul forum, ovvero i criteri di scelta delle donne nei nostri confronti, una ricerca di una decina di anni fa (ma probabilmente potrete con più pazienza trovarne di più recenti: io riporto quanto a suo tempo mi colpì per la capacità di uscire, per la prima volta in questo secolo, dalle ipocrisie maschili e femminili sull’argomento) condotta, mi pare in Germania (quindi in un paese obiettivamente rappresentativo dell’oggi, non in un paese arabo dove le donne non possono lavorare, in un paese allora come ora governato da una donna, economicamente socialmente “forte” nella “modernità”, non in quella che veniva definita “mignottocrazia” italiana, in un paese ricco di opportunità lavorative per chiunque, non nella moldavia post-sovietica dove l’unica opportunità di migliorare la propria vita sono una buona fuga in occidente a lavorare negli fkk o un buon matrimonio con un ras locale, in un paese guida dell’Europa, non in quel posto economicamente e socialmente arretrato o “intriso di retaggi maschilisti” come la propaganda “progressista” vorrebbe l’Italia) mostrò quanto in pochi, fra uomini e donne, avrebbero avuto coraggio di ammettere in pubblico o addirittura a se stessi.

I ricercatori analizzarono oggettivamente (ovvero basandosi puramente sui numeri) una certa mole di incontri a fine di “dating” e, basandosi sulle preferenze espresse anonimamente (e, quindi, si suppone, sinceramente) dagli interessati riguardo a chi avrebbero voluto re-incontrare, riscontrarono che, nella quasi totalità dei casi, gli uomini richiedevano di rivedere le donne più attraenti, con un ordini di preferenza abbastanza correlati fra loro e quasi degni della votazione di un concorso di bellezza, mentre le donne si mostravano tanto più interessate quanto più elevata era emersa dal primo colloquio la posizione socioeconomica dell’uomo in questione.

Non avevo mai creduto alle favole delle principesse che baciavano i rospi (e il rospo, in un mondo capitalista, non è l'uomo brutto, ma quello privo di ricchezze). Nemmeno nel medioevo si sono baciati i rospi. Le donne hanno sempre voluto i cigni migliori. Solo che ora invece di avere i mantelli, i cavalieri devono avere i quattrini.

Meglio la sincerità, mi dissi, di una forma ipocrita di "rispetto". Non è infatti davvero rispettoso degli uomini e delle donne pretendere che essi siano altro da loro e considerare colpe o malvagità i loro desideri naturali (o la loro modificazione intellettuale o evoluzione sociale). E' rispettoso invece accettare i loro desideri e i loro bisogni naturali, culturali e sociali senza giudicarli (e rispettando le loro decisioni ed i loro modi di appagarli).
E soprattutto non è rispettoso illudere la gente con frottole sull'amore, sul sentimento e sulla bontà d'animo. A furia di dire "sei un bravo ragazzo, sei carino, hai un animo buono, troverai una bella donna, quando sarà il momento" gli uomini si illudono, poi finiscono con il disilludersi, l'abbandonarsi alla disperazione, l'uccidere o l'uccidersi (un po' come Aiace Telamonio quando scoprì l'inganno dei giudici e di Ulisse). Onore e merito a chi dice loro la verità da subito.

"Il maschio, precisa Todd, 'fara' sua' la donna piu' attraente che lo accetti tra tutte quelle che lui reputa attraenti, la femmina invece scegliera' 'il buon partito', settando i propri standard sulla base della propria avvenenza, o in soldoni in base a chi col proprio aspetto fisico potra' permettersi di conquistare".
Se lo avesse scritto qualsiasi altro, sarebbe stato considerato un maiale o una puttana, un uomo materialista e bruto o una donna priva di valore sentimentale e morale, un "volgare maschilista" che sostiene tutte le donne esser puttane o una "bastarda" che usa tutti gli uomini come strumenti stupidi per i propri fini egoistici. Per fortuna, dato che lo si dice in maniera scientifica, si evitano tali sproloqui retorici.

Se le “spiegazioni” morali (consistenti fondamentalmente nel dire “gli uomini sono tutti maiali” e “le donne tutte puttane”), qui come in tutte le altre questioni, non spiegano nulla, essendo un semplice (ed arbitrario, anzi, dettato dall’invidia) giudizio di valore su qualcosa di esistente a priori con ben altre motivazioni, nemmeno quelle “socio-culturali” appaiono convincenti. Dire che “tutto dipende dall’organizzazione economica” non spiega, infatti, né perché anche le donne che non avrebbero affatto bisogno economicamente di un uomo continuano ad essere attratte dalla posizione socio-economica di questo, né perché neanche gli uomini che avrebbero invece giovamento da un’unione con una donna ricca riescano ad essere attratti da lei su un piano amoroso (la “ricerca” non riguardava agenzie matrimoniali, ma siti di dating a scopo “free”). Dire che “tutto dipende dagli stereotipo culturali” non spiega poi né come sia possibile che fra migliaia e migliaia di persone non ci sia traccia statisticamente rilevabile di tutti questi uomini e donne “anticonformisti” (che si divertono, come dice qualcuno, a “scandalizzare” e a “rompere gli schemi”) come per stile di vita e di pensiero se ne vedono invece tanti al giorno d’oggi, né perché un dato “schema comportamentale”, tanto deprecato come “costruzione culturale”, si sia affermato su tutti gli altri possibili se davvero non ha avuto alcun “supporto” dalla natura e dall’istinto.

L’antropologia si narra come scienza, ma, in realtà, non fa altro che osservare dall’esterno il comportamento di tante popolazioni diverse (lontane nel tempo e nello spazio) cercando “a senso” di ricostruire quelle leggi che dovrebbero essere proprie della “specie umana”. Non ci sarebbe niente di male in questo (anzi, sarebbe proprio scientificamente corretto), se non fosse che, una volta possibile, per il progredire della biologia, della chimica e delle neuroscienze, iniziare ad “indagare” per così dire dall’interno quella “black-box” che fino a due secoli fa era considerata la mente, la psiche, l’istintualità umana, gli antropologi non continuassero oggi imperterriti a preferire i “dogmi” di Levi-Strauss.
Quest’ultimo, considerato fra i massimi padri fondatori dell’antropologia culturale, ha in effetti condotto una lunga e approfondita serie di studi su popoli tanto diversi da quelli sedicenti “civilizzati” (nel giusto tentativo rifuggire dagli stereotipi borghesi occidentali e di creare quel “distacco” in grado di rendere l’uomo oggetto di studio da parte di un altro uomo), ricavando osservazioni certamente interessanti, anche scientificamente, ma, ahimè, inframmischiate senza remore con sentenze e convinzioni derivanti dalla propria personale visione del mondo. Intendiamoci: è tutto diritto degli scienziati avere opinioni personali ed aderire ad ideologie, filosofie o religioni.

Anche Einstein aveva le proprie opinioni, ma ha sempre avuto il merito di separarle rigorosamente dal proprio lavoro di fisico. E’ così possibile concordare con Albert sulla “pericolosità” delle donne americane (l’ha capito subito, un secolo prima di noi, che là gli uomini erano solo cagnolini pronti a scodinzolare per compiacere delle tiranne vanagloriose e a fare tutto per denaro solo per essere accettati da quelle: non per niente era un genio), ma non sull’affermazione che “Dio non gioca a dadi con l’universo” (una volta persuasi invece dalle dimostrazioni e dagli argomenti della fisica quantistica sulla natura “caotica” della realtà). O dissentire da lui politicamente (davvero ingeneroso sparare contro il “lupo prussiano” che pure lo aveva “allevato” scientificamente, ben prima che in Germania fosse soppiantato dal “mostro nazista”, e per me inqualificabile l’aver fatto il pacifista nella prima guerra mondiale, di fatto una neutralità ostile alla propria patria molto prima che questa cadesse nella follia nazista, per poi giustificare l’uso della bomba atomica nemmeno contro la Germania nazista, ma contro il Giappone che non aveva mai perseguitato nessun ebreo, anzi, ne aveva salvati diversi) e non avere comunque alcun dubbio sulla teoria della relatività, in quanto “more geometrico demonstrata” (anzi, dimostrata riprendendo da Hilbert geometrie non euclidee!).
Con Levi-Strauss questa scissione non è possibile. Le sue osservazioni contengono le sue opinioni e viceversa.
Insomma, credere nell’egalitarismo che discende dall’antropologia di Levi-Strauss solo perché questo ha “oggettivamente” studiato dei selvaggi, sarebbe come credere alla “superiorità della razza germanica” basandosi sul trattato etnografico di Tacito che ha “scientificamente” (per l’epoca) osservato usi e costumi degli Antichi Germani. Solo Hitler poteva crederci!
E Levi-Strauss, esattamente come Tacito, non cessa di colorare di valutazioni morali quelle che dovrebbero essere osservazioni scientifiche.

Da qualche parte si è addirittura lasciata scappare un’affermazione del genere “il problema è quindi far rientrare l’uomo nella specie”. Questo ci dice molto della sua ideologia. Pare che per lui la “rivoluzione neolitica”, quando i popoli fondatori di città e civiltà, la Grecia di Omero, la Roma Repubblicana, l’India del Veda, la Persia Iranica, la Germania Sacra e imperiale hanno abbandonato il concetto di “uomo naturale” (ovvero definito semplicemente dalle qualità comuni a tutta la specie) per sostituirlo con quello più propriamente storico (definito invece dalla sua specifica visione del mondo e dall’organizzazione sociale conseguente, quale noi, negli esempi citati, possiamo studiare tanto dalle opere etico-spirituali come l’Iliade, l’Eneide, i poemi persiani, l’Edda, il Beowulf, quanto dalla storia stessa) sia un “problema”, anzi, una “colpa” dalla quale redimersi. Ma questo ci ricorda la bibbia. E’ infatti evidente la comunanza dello schema teleologico: l’uomo creato dal nulla da un dio fuori dal mondo, per aver voluto “farsi un nome nel mondo”, viene cacciato dall’Eden. E potrà ritornare in Paradiso solo dopo essersi pentito e redento.
E’ il “mito cristico”. E’ parente del mito comunista: la storia vista come una maledizione e la lotta di classe come mezzo per ripristinare una versione “hi-tech” delle società matriarcali senza classi (e senza nazioni).
E sempre il mito femminista dell’umanità felice (sic!) sotto il governo delle donne che ad esso dovrà ritornare “pacifico” dopo gli anni “bui e sanguinosi” del “patriarcato”.
Tutte queste ideologie hanno in comune la “maledizione della storia”: la possibilità stessa per l’uomo di generare diverse identità storiche, diverse civiltà con diverse visioni del mondo, e diverse idee stesse di uomo (a volte in conflitto fra loro, a volte in armonia, sempre in confronto storico) è vista come un crimine (anzi, come “male assoluto”, dato che viene bollato di “nazismo” chiunque oggi la sostenga). Perché? Perché, così come “dato una volta per tutte” è il concetto di uomo della Bibbia, così, indissolubilmente legato ad una concezione di umanità astratta dal tempo e dalla storia (dalla quale si traggono i sempre più onnicomprensivi e pretenziosi “diritti umani”) è il concetto di uomo moderno, funzionale all’internazionalismo tanto marxista quanto capitalista. Senza supporre l’uomo, biologicamente, come “tabula rasa” (astratto dalle diverse origini dei popoli), tanto le dottrine liberal-liberiste quanto quelle marxiste sarebbero inapplicabili. Inoltre, se si ammettessero diverse possibilità per diversi popoli, si rischierebbe di mettere in dubbio l’universalità di un modello sociale che si vorrebbe rendere infinito, anzi eterno, con quel “fine della storia” di cui parlava Francis Fukuyama, in cui “tutti sono felici perché non succede più nulla”. Il colmo è che si definisce per universale quanto è stato invece storicamente inventato in occidente con gli “immortali diritti” della rivoluzione francese, mentre si disconosce l’origine naturale e l’onnipresenza nella specie di quanto è davvero universale (al di là di culture, razze e religioni): il bisogno di bellezza e piacere dei sensi degli uomini e la capacità delle donne di trarne profitto.

Ma al di là del mito che permea il retropensiero di questo o quello studioso (anche Lorenz aveva i suoi miti, nessuno è “neutrale”), è sul metodo che ci si deve focalizzare. In quanto si rifiutano di studiare i meccanismi interni della mente, regno della chimica e della biologia, tanto l’antropologia quanto la psicanalisi stanno ad etologia e psichiatria come la medicina “tradizionale” (che, non conoscendo l’interno dell’organismo, parlava di aristotetelici equilibri fra “elementi” e nel 90 percento dei casi ordinava salassi ai malati) sta a quella moderna (quella che conosce gli organi interni e, dopo Pasteur, ha scoperto gli antibiotici). Certo, qualcosa di buono avranno pure compreso i medici del tempo dei Promessi Sposi, non tutte le loro diagnosi erano menzogna, ma sfido io a curare la peste con quei metodi! Eppure c’è oggi chi vorrebbe risolvere la guerra fra i sessi con le enunciazioni egalitarie dell’antropologia e i problemi mentali seri con la psicoanalisi! Come se il dualismo cultura/natura fosse scientificamente verificato ed Es, Ego, Superego fossero stati logici verificabili della rete neurale che è il nostro cervello!
Certo, gli antropologi e gli psicanalisti possono anche dire qualche verità, di quando in quando, ma il loro discorso non è strutturato per dire sistematicamente la verità in senso scientifico. Un po' come i medici di corte del Seicento. Ci prendono per caso (o quando fa loro comodo prenderci).

Chi vi scrive ha ascoltato un tempo con attenzione, da studente liceale, le divulgazioni su certe teorie basate sulla sequenza fase-orale, fase-anale e fase fallica, ad opera di un simpatico professore comunista che raccontava barzellette su donne, suore e carabinieri durante gran parte le ore teoricamente di filosofia, ma, poiché ha frattanto anche vissuto, si riserva di porre dei dubbi su certe “apparizioni improvvise di ninfomani” o, quanto meno, sulla loro frequenza statistica.

Qualunque spiegazione antropologica o psicologica dell’istinto sessuale e del sentimento amoroso parte infatti da un presupposto viziato: l’eccezionalità della specie umana rispetto agli altri mammiferi.

Sia detto infatti questo in definitiva contro gli antropologi: la distinzione natura-cultura è falsa in entrambi i sensi. Non solo perché, come qui si sta dimostrando e si continuerà a dimostrare, molte espressioni “culturali” dell’amore sessuale (dal corteggiamento alla poesia, dall’attrazione al comportamento differenziato nei sessi) hanno una base biologica ed un’origine filogenetica. Ma anche perché nel regno animale vi sono comportamenti che non sono innati ma debbono essere insegnati dai genitori ai piccoli, che sono, dunque, “cultura”. Le taccole non sanno volare dalla nascita. Sono mamma e papà che lo insegnano ai figli, con tanto di piccoli e continui allenamenti, sgridate e “versi di richiamo”, come ha scientificamente studiato e perfettamente divulgato nell’Anello del re Salomone lo stesso Konrad Lorenz. Non solo, quindi, parte di quanto chiamiamo cultura nell’uomo è natura, ma anche una parte di quello che chiamiamo natura negli animali è cultura. Gli antropologi, per farci credere che potenzialmente siamo tutti uguali, si ostinano a volerci far credere che “tutto quello che c’è nell’uomo (quindi anche e soprattutto le differenze) è cultura”, mentre “natura è tutto e solo quanto è negli altri animali”. La scienza dell’etologia ci ha mostrato che questo è falso. E se l’antropologia culturale mi mente si questo punto, perché dovrei crederle su tutto il resto?

Se si scelgono invece le spiegazioni biologiche, le spiegazioni diventano molto meno ricche, complesse e divertenti, ma molto più semplici. E spiegano perché le “ninfomani” sono poche e gli “sfigati” tanti. Spiegano anche (con l'invidia), un certo femminismo e le sue ondate "puritane". Una volta una racchia femminista che si dava arie di filosofia classica, mi disse "troppo semplice spiegarla così". Ed io le risposi: “simplex sigillum veri”. I Latini avrebbero smascherato il femminismo anche solo con il loro amore per la semplicità e la chiarezza! E noi "moderni", almeno, non complichiamoci la vita con la psicoanalisi! Non facciamoci dire dagli freudomarxisti perchè siamo puttanieri! Spieghiamo nel modo più semplice il desiderio per il corpo della donna. Eviteremo che loro, con le femministe, spieghino noi come "gli oppressori". Anche da un punto di vista disinteressato e propriamente "scientifico", già diceva Guglielmo di Ockham: ”a parità di fattori la spiegazione più semplice è da preferire”.

Nei mammiferi la gravidanza è molto lunga e necessita di molte risorse, mentre la mortalità infantile è elevata. E’ inoltre dimostrato pressoché universalmente che questa cala in proporzione alle cure che i genitori pongono verso i nascituri. E’ dunque evidente come l’evoluzione naturale abbia selezionato quelle speci nelle quali la femmina scelga il futuro padre con criteri incentrati su questo punto fondamentale per le propagazione della vita.

E questo spiega la grande domanda di quel post “perché una modella 20 sta con un uomo 58 enne?”, che non aveva risposte né dall’economia, né dalla sociologia, né dall’estetica, senza dover tirare in ballo né esoterismo, né psicoanalisi. Se sul primo non riteniamo neanche di doverci soffermare, la seconda merita una puntualizzazione. La psicoanalisi non è una scienza in quanto non falsificabile (come giustamente sottolineato da Popper, pessimo filosofo ma ottimo epistemologo). Esattamente come il verbo biblico, la parola di Freud non tollera la controprova della negazione di verità. Se la si nega, tutta la teoria cade, non avendo la possibilità di verificare sul campo i risultati in modo ripetibile ed oggettivo. Dobbiamo fidarci di lui. Ed io non mi fido, dato che vedo in lui il tentativo di ripescare la bibbia (nello schema colpa-punizione fatto rientrare dalla finestra per spiegare i vari complessi, da Edipo in poi, dopo aver cacciato Dio dalla porta). Faccio notare in proposito che la teoria della “ricerca della figura paterna” per spiegare certe scelte sessuali da parte di donne giovani e belle è del tutto superflua, se si considera l’origine biologica dell’attrazione fra i sessi. L’uomo più maturo è in società in genere anche più ricco e più protettivo, ovvero quanto di meglio la prole possa avere. Non serve scomodare Freud. E nemmeno Jung (che ha solo sostituito la mitologia biblica con quella indoeuropea per andare più di moda in Germania e Austria). Se si vuole curare la mente, per inciso, bisogna rivolgersi alla psichiatria, che del cervello conosce la struttura biologica e le interazioni con la chimica e i medicinali, non a mode letterarie come quella dell’anti-psichiatria (che hanno portato ad assurdità, come affermare che le malattie mentali, intendo quelle biologicamente dimostrabili, non le eccentricità o i disturbi comportamentali di cui tutti un po’ soffriamo, non esistono, perché “siamo tutti un po’ matti”, anzi “la normalità non esiste”).

La natura inculca nel petto dell'uomo una brama infinita di cogliere l'ebbrezza ed il piacere dei sensi da quante più donne possibili, e ne fa nascere il desiderio immediatamente e al primo sguardo, con l'immediatezza del fulmine e l'intensità del tuono, ma con la soavità di plenilunio di giugno dopo la pioggia, non appena la bellezza si fa sensibile a lui nelle fattezze del corpo muliebre, nella claritate del viso, nelle forme dei seni rotonde, nelle membra scolpite, nella figura slanciata, nelle chiome fluenti e nell'altre grazie ch'è bello tacere.
Parimenti inscrive nell'istinto della donna la dote di farsi sommamente desiderare e seguire in ogni dove, (come una fiera nei boschi) dal maggior numero possibile di maschi, in modo da ampliare al massimo la rosa di coloro che sono disposti a competere per lei e dai quali selezionare chi mostra eccellenza nelle caratteristiche volute per la riproduzione e il bene della discendenza (o, razionalizzato nelle società più evoluto, quelle doti materiali o intellettuali che rendono un uomo gradito o utile alla femmina, o conferiscono prestigio sociale).
Tutto ciò risponde ai fini della natura, non a quelli dell'uomo (ed è infatti motivi di infinite infelicità individuali, da quelle dei giovani uomini intimamente feriti dalle "stronze" a quelle delle donne tradite): il desiderio maschile serve garantire la massima propagazione dell'istinto vitale, quello femminile a garantire la selezione dell'eccellenza.
Questo è l'amore naturale "l'inganno che la natura ha dato agli uomini per propagarne la specie".
Tutto il resto, nell'amore, è solo costruzione dell'uomo, della sua ragione, della sua arte, della sua parola, e, più profondamente, del suo inconscio.

L'aveva già compreso Schopenhauer:
"L'uomo tende per natura all'incostanza in amore, la donna alla costanza. L'amore dell'uomo cala sensibilmente non appena è stato soddisfatto: quasi tutte le altre donne lo eccitano più di quella che già possiede, perciò desidera variare. Invece l'amore della donna aumenta proprio da quel momento. Ciò dipende dal fine della natura, la quale mira a conservare la specie e quindi a moltiplicarla il più possibile. L'uomo infatti può comodamente generare in un anno più di cento figli, se ha a disposizione altrettante donne: la donna invece, per quanti uomini abbia, potrebbe comunque mettere al mondo un solo figlio all'anno (a prescindere dalle nascite gemellari). Perciò l'uomo va continuamente alla ricerca di altre donne, mentre la donna si attacca saldamente a un unico uomo: la natura infatti la spinge a conservarsi, d'istinto e senza alcuna riflessione, colui che nutrirà e proteggerà la futura prole." (LA METAFISICA DELL'AMORE SESSUALE)

E qui si torna a quanto stiamo vivendo tutti al giorno d’oggi.
O un uomo riesce a diventare "capobranco" o la sua sarà una vita fatta di irrisioni al desiderio, ferimenti psicologici, umiliazioni intime, frustrazioni fisiche e mentali, infelicità sia sensitiva sia intellettiva e inappagamento continuo, con conseguente disagio da sessuale a esistenziale. Questa è la pura e amare verità. La storia dell'anima gemella è una favola, illusoria come quasi tutto quanto narrato dai poeti. Sin dai tempi di Omero, molto mentono gli Aedi. Solo chi emerge ottiene. E' così anche fra gli animali, solo che essi non sono dotati dell'autocoscienza che rende certe situazioni peggiori della morte. Il Capobranco in questo mondo è o il calciatore, o il cantante o il personaggio famoso in genere, oppure l'uomo di successo finanziario. Siamo in un mondo de-spiritualizzato e questa è la conseguenza necessaria sul piano erotico-sentimentale. Sia detto senza moralismi o comunismi. Tramontata è l'epoca spirituale dei poeti e dei cavalieri.
Se un uomo non raggiunge una certa posizione socio-economica non può esercitare alcuna attrattiva di sorta verso il mondo femmineo.

Per le puttane, diranno socialisti e anime belle del vario femminismo, mentre con le donne "vere" servono sentimenti nobili e buona volontà?
No, non solo per le puttane, che sono una minoranza, servono i denari, ma per gran parte delle donne "normali", giacché l'istinto femminile non è disiare diffusivamente come l'uomo, ma selezionare l'eccellenza, la quale in un mondo capitalista tende ineluttabilmente ad identificarsi più o meno velatamente con quella economica. Oggettivamente, al di là di ogni demagogia anti-consumistica, il denaro è quanto di meglio esista per fornire non solo una base su cui vivere serenamente in coppia, ma anche una possibilità di garantire il benessere e l'avvenire ai figli. Per questo l'uomo deve possederne anche se non si parla di "puttane". Anche le donne normali lo pretendono. Non è una questione di interessi, ma di desideri. Mentre l'uomo vorrebbe sempre cento donne belle tutte assieme la donna vorrebbe sì circondarsi di cento uomini, ma per selezionare colui che eccelle in doti non necessariamente estetiche (non solo bellezza, ma anche cultura, sensibilità, potere, forza, intelligenza, cuore, o quant'altro ogni singola donna soggettivamente ritiene importante) per ottenere il miglior padre per la futura prole. E ciò è istinto, per cui rimane a dettare i desideri anche quando il cervello della donna decide di non avere figli o di divertirsi solamente con gli uomini. Non sto parlando dei legami per interesse. Anche gli uomini del resto rimirano le grazie femminili correlate alla riproduzione (come le forme rotonde dei seni o quelle dei fianchi, per non dire quanto è bello tacere) anche quando non hanno alcuna intenzione di riprodursi. Non è giusto dare delle puttane alle donne normali che mirano al portafoglio così come non è giusto dare dei maiali agli uomini che mirano alla bellezza. E' natura. Piuttosto ci sarebbe da interrogarsi sulla validità del sistema capitalista, ma è un altro discorso....

Beyazid_II
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02/07/2018 | 18:36

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@beautifulgirlsliker said:
titolo che rimanda ad una celebre opera di Julius Evola !
(senza dubbio, lo hai detto ad abundantiam in seguito...devo ancora leggere il lungo testo che, come al solito si annuncia interessante... cosa che farò adesso !)

Permettetemi...

va bene che anch'io (come credo si evinca da sopra) ho conosciuto e amato l'opera del Barone, ma addirittura ritenerla così al di sopra di quella, quasi omonima, di Schopenhauer da porre quella a modello di questa (piuttosto che viceversa) mi pare troppo.

Rilevo due cose:

  • l'imbecillità del "fronte culturale progressista" il quale, ritenendo Evola "pericoloso fascista" lo ha rimosso completamente dalla "cultura ufficiale", mentre, ritenendo Schopenhauer soltanto "simpatico reazionario moderato", lo lascia studiare a scuola. Come effetto paradossale, gli studenti dimenticano il secondo e ricordano il primo (in quanto vietato). Esempio di quanto sia controproducente la censura.
  • a prescindere dalle vicende "politiche" post-mortem degli autori, non si può non rilevare come l'opera di Schopenhauer sia legata allo stato dell'arte dello studio della biologia contemporanea, mentre quella di Evola sia volutamente (e provocatoriamente) un discorso mitico (il che non vuol dire nè intrisecamente "irrazionale" nè tantomeno "falso").

Poichè questo 3D è nato per controbattere la plateale menzogna antropologica dell'uguaglianza potenziale fra le pulsioni sessuali di uomini e donne (pretesa uguaglianza che contrasta con ogni evidenza scientifica, ad esempio, dell'etologia), ritengo che convenga seguire Schopenhauer piuttosto che Evola. Più in generale, laddove si debba dibattere con i sostenitori dell'egalitarismo e del progressismo, è sempre bene combattere con le loro stesse armi (la scienza, la dialettica, la dimostrazione, l'evidenza), evitando che la "ragione" sia percepita come bagaglio culturale proprio del fronte "egalitario", quando, al di fuori delle interpretazioni politicamente corrette della scienza o di certe sue "deviazioni interessate", troviamo già nella "scienza dei fatti" sufficienti evidenze per smascherare le grandi menzogne dei progressisti e delle femministe. Anche l'esperienza comune è in grado di darci ragione (non serve, mi si perdoni la battuta, il soprasensibile!). D'altronde ha ragione Il Fusaro che cita il suo maestro Preve: "viviamo nella prima epoca della storia in cui la classe intellettuale è inferiore, e di molto, alla gente comune".

Non dico di non leggere e di non citare Evola, ma eviterei di tirarlo in ballo quando non serve (anche per i rischi di polemica inutile che inevitabilmente comporta il solo nominarlo in certi contesti non proprio "amichevoli" nei suoi confronti). A me servì per evitare una crisi da suicidio. Serve come "mito interiore" per decidere su quelle premesse di verità e di valore di cui ogni vita, per quanto razionale e razionalizzata, ha bisogno ma che nessun discorso logico-razionale potrà mai arrivare a "dimostrare" (tantomeno a mostrare per tutti), Serve, insomma, per "mostrare a chi ha occhi addestrati a vedere", là dove la ragione non ha più potere. Serve ad esempio, oggi, quando, contro ogni ragione, ogni etica, ogni diritto, ci viene sempre e soltanto sbattuto in faccia, da questo mondo sedicente razionale, democratico ed egalitario, il "mito matriarcale". Senza tale mito, gli uomini capirebbero l'ingiustizia delle sentenze a senso unico delle separazioni, le iniquità dei moderni diritti concessi alle donne mentre queste tengono saldamente fra le loro mani gli antichi privilegi, l'insensatezza delle condanne sulla sola parola della donna. Le nostre rivendicazioni di "diritti maschili" sono vane perchè si trovano di fronte al mito (della Grande Madre, delle Amazzoni, della Grande Menzogna femminista figlia di hegel minuscolo e basata sul vittimismo, eccetera). Alle ragioni si controbatte con altre ragioni, ma al mito si deve contrapporre il mito. Qua, però, eravamo solo di fronte ad un pisquano di antropologo....

Beyazid_II
Newbie
02/07/2018 | 18:03

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@Serendipity said:
@Itaconeti riflesaioni interessanti

@Beyazid_II ti faccio una domanda. Quando ci provavi con una ragazza e magari venivi "rifiutato" con gentilezza (se ti è successo) non ti capitava di avere un calo di autostima? Di sentirti non desiderato, inutile e quasi come se fossi un miserabile, uno scarto della società? Ti succedeva che una ragazza che tu continuavi a tampinare smettesse gradualmente di interessarsi a te? Di contattarti? Di darti feedback?

Purtroppo non sono in grado di risponderti. Le ragazze che mi hanno "rifiutato" (o comunque ignorato) non hanno MAI usato la GENTILEZZA. Non capisco come sia stato possibile in passato anche solo associare l'aggettivo "gentile" al sesso femminile. Da chi mi ha riso in faccia al telefono mentre avevo la voce rotta dal pianto a causa delle sue stesse parole a chi non ha neanche degnato di un rifiuto le mie lettere (che, se non ancora d'amore, erano almeno d'interesse sentimentale), si può dire siano state tutto, da sadiche a maleducate, ma mai e poi mai gentili.

Per questo ho anche abolito il termine "donna" nelle mie relazioni sociali. Se per noi non si usa "don" (signore), ma semplicemente "uomo" che deriva da "humus" (umile come la terra), non è accettabile che per il corrispettivo femminile si usi aprioristicamente un termine che deriva da "domina" (ovvero signora), quando l'interessata non abbia prima dato prova di quel grado di "cor gentile" proprio agli animi delle persone nobili.
Non nego che, reiterando i tentativi su tutto il genere, avrei potuto anche scovare qualche perla gentile fra le donzelle, ma non ho ritenuto di dover affrontare, per queste gioie ipotetiche e future, ulteriori fatiche e patimenti immediati e sicuri.

Come ho fatto a non sentirmi un miserabile? Beh, mi sono sentito tanto misero che per i successivi vent’anni non solo non ho più avuto il coraggio di farmi avanti in qualunque modo, ma non ho neppure più voluto immaginarmi indotto ad un’ipotesi del genere. Può bastare come umiliazione? Per questo ho scelto il “Sacro Antichissimo Culto di Venere Prostituta”.

Magari, recuperando autostima, avrei potuto davvero, con le doti che nemmeno nel mio periodo più nero ho mai messo in dubbio di avere, conquistare qualche bella ragazza senza pagare, ma a che scopo? Se una fanciulla preferisce la vanità dell’esser corteggiata alla sincerità di un dialogo senza ruoli da commedia (dell’arte o della seduzione) con me, cosa ha davvero ai miei occhi di più da una prostituta d’alto rango che misura la propria vanità nel proprio compenso? Considerando anche che per entrambe l’interesse economico è (per i motivi “naturali” di cui stiamo discutendo) importante quasi allo stesso modo!

Certo, la mia autostima erotica è andata non a zero, ma sotto. Mi vedevo (e fu una donna che a suo modo mi ha amato a notarlo) come un brutto anatroccolo incapace di attrarre una qualunque donna con una qualunque dote.

Vuoi chiedermi quindi, come ho fatto a non suicidarmi (come capitò, in situazioni simili, al cugino di un mio amico)?

Per tre motivi: c'era la guerra, c'era papà, c'era la "rivolta". Mi spiego meglio:

  • "c'era la guerra". Ho lasciato ogni tentativo di conquista amorosa e mi sono dedicato a tutt'altre battaglie. Ho pensato solo e soltanto ad eccellere nello studio quant'altro mai. Ed ho scelto una facoltà senza donne. In tal modo (illusione liberal-napoleonica di un adolescente!) avrei conquistato una posizione di prestigio e preminenza nella società tale da permettermi di far pentire chiunque mi avesse in precedenza rifiutato (come in quel bel film in bianco e nero in cui Alberto Sordi, neo-ricco con auto e chauffeur, fa sgasare quest’ultimo sotto il balcone della pretenziosa che lo aveva rifiutato). Ho perso la guerra (pur vincendo tutte le battaglie), ma almeno sono sopravvissuto;
  • "c'era papà": per i bisogni naturali di bellezza e piacere dei sensi, avevo (fortunato me all'epoca) tutto il denaro necessario per pagare il biglietto alle attrici (che fosser escort professioniste, lapdancer che arrotondavano, o pure mistresses per i piacere più "piccanti", non mi facevo mai problemi) disposte a recitare ogni sfumatura del mio sogno estetico completo attingendo alla ricchezza paterna. Ho dilapidato (va beh, sto un po’ esagerando) una fortuna (non solo con le escort), ma almeno ho vissuto. Meglio: ho vissuto come volevo io, non come avrebbe voluto la società in cui gusti e costumi sono diretti dal capriccio “selezionatore” femminile. Ed anche quando non andavo realmente con le escort ero felice anche solo pensando di poterlo fare, a differenza di chi era costretto a sottomettersi a giudizi pseudo-psicologici ed a valutazioni pseudo-amorose di fanciulle mosse da prepotenza vanagloriosa e tirannica vanità;
  • "c'era la rivolta": ho letto Evola (“Rivolta contro il mondo moderno”) ed ho capito la differenza fra il principio lunare e quello solare. Lunare è tutto ciò che ha in altro il proprio centro. Lunare per eccellenza è la bellezza femminile, che splende solo e soltanto in quanto è illuminata dal fuoco del desiderio maschile. Con parole molto meno poetiche, Schopenhauer direbbe che solo “un intelletto abbacinato dall’istinto sessuale può vedere come più bello un corpo che è meno alto, meno forte ecc.”, portando ad esempio il fatto che in quasi tutti i mammiferi il “bello” è maschile (si pensi al leone con la criniera e al pavone con la coda colorata, più belli ad un osservatore esterno delle leonesse spelacchiate e delle pavonesse biancastre). Anche al di là del discorso “estetico” sul corpo, solare è il principio maschile in quanto le civiltà sopra esso fondate (storicamente), come la Grecia di Omero, l’India vedica, la Persia Iranica, la Germania sacra e Imperiale e ovviamente la Roma della prima età repubblicana (ai tempi di Augusto era già tutto a puttane in ogni senso) hanno quel “grande stile che disdegna di piacere” di cui parlava il grande Nietzsche. Guardate le colonne doriche. Non sono erette per prendere applausi o raccogliere consensi. Persuadono istantaneamente con la loro “nobile semplicità” e si impongono a tutti nella loro “quieta grandezza”. Come appunto il sole, che splende di luce propria e non riflessa, solare è ogni principio che ha in sé il proprio centro, la fonte della propria forza, il principio del proprio valore, il senso della propria bellezza, e che quindi (a similitudine delle nature siderali) può vivere eternamente uguale a sé.
    Una donna moderna ha bisogno del mondo che le dica quanto è brava (un tempo le bastava l’uomo che la faceva sentire bella). Un uomo moderno ha bisogno delle donne che gli dicano quanto è affascinante (un tempo voleva almeno il mondo che gli dicesse quanto era bravo). Sono entrambi lunari e femminei.
    Non solo il femminismo, ma anche il “machismo” è lunare. Quando l’uomo lascia alla donna il compito di stabilire il proprio valore (come fanno i “ducetti” da balera o i “berluschini” da commedia di Vanzina, che si vantano delle proprie “conquiste” da “maschi alfa” e da “uomini affermati e che in questo dicono “valgo perché conquisto”, ovvero “perché piaccio alle donne” o perché “mi trovano utile”), quando pone in quanto fa con la donna il principio della propria forza (come chi si vanti delle proprie performance sessuali e si pensi “forte” in quanto “scopatore”), allora ha già perduto ogni virilità in senso alto.
    Il tipo superiore del guerriero non chiede di essere riconosciuto. Tanto meno si cura di cosa dicono in basso. Ha o la forza per imporre le proprie verità (come fece il mondo indoeuropeo allorché “riordinò” il chaos in kosmos nel momento stesso della fondazione di città e civiltà che studiamo ancora fra storia e mito e che furono rottura con il mondo precedente il neolitico, tanto da apparire “crimine” nella narrazione biblica, “peccato” nella trasvalutazione cristiana dei valori), o il coraggio di morire per esse (come Mishima). Per questo, alla pari del “fiore di ciliegio” del Bushido, è “il più bello fra gli uomini”. La sua bellezza non è nel desiderio altrui, ma nella pura coerenza con il proprio principio interno. L’opposto, se vogliamo, della bellezza femminile, che è trucco, dissimulazione, desiderio/bisogno suscitato nell’altro.

Il mio occhio ceruleo è bello perché ha misurato l’abisso azzurro di un crepaccio che ho scavalcato senza timore (e con molta follia) scendendo solitario da una vetta di roccia e ghiaccio, non perché una collega cretina, per provocarmi, mi dice “che begli occhi!”. Io mi sento bello quando, spettinati dal sudore e dalla fatica, i miei biondi capelli (che mai conosceranno il pettino o, peggio, il gel) rilucono al sole nell’aria sottile dell’alta quota in primavera, nella soddisfazione di una terribile parete vinta d’estate, o nel primo gelo dell’autunno fra le ardite guglie dolomitiche, non perché la modellina di turno mette un “I like” sul facebook che non ho. Ci sono modelli più alti di me, attori dal viso più bello, manager dal portafoglio più pieno? Ebbene, io sono più vivo. “Le donne vogliono quelli”? Chissenefrega, sono problemi di cui non mi occupo più. Alla malora! Se voglio chiavare pago, se voglio essere bello vivo.

Certo, per diventare così non è bastato né rifuggire del corteggiamento, né leggere il Barone. Ho dovuto essere amato d’amore quasi materno dalla più stronza fra le odiatrici di uomini ed averla lasciata come l’ultima della baldracche. Dopo averla desiderata come la più dolce delle amanti ed odiata come la più terribile delle maledizioni. Ho dovuto visitare il regno oscuro della regina delle Amazzoni, scendere negli abissi del suo odio ed ascoltare i sospiri del suo cuore. Come Achille con Pantasilea. Ed ho dovuto sentirmi morto per poter rinascere. E a quel punto le parole “amante” e “nemica” si fondono in un nuovo e terribile concetto di madre (perché “nulla nasce senza dolore”, diceva Nietzsche).
Ma questa è un’altra storia. Se la volete sentire, dovete avere pazienza. Il romanzo a puntate (nell’altro 3D, peraltro) richiede tempo per arrivare al suo ultimo capitolo.

Beyazid_II
Newbie
02/07/2018 | 15:51

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@Itaconeti said:
per natura il maschio cerca la donna più bella e la femmina l'uomo più forte

per cultura questo meccanismo si declina storicamente nei modi dell'epoca

nella nostra epoca la più bella è la model-type e il più forte è quello con più potere d'acquisto

questo spiega le relazioni con grande differenza d'età tra queste due tipologie

e annulla il valore dei moralismi 'puttana' e 'porco' che sono espressione di risentimento

mentre resta il valore del principio libertario per cui ciascun individuo maggiorenne fa ciò che vuole purchè non usi violenza nei confronti di un altro

Questa volta sono tanto d'accordo con te (anzi, hai addirittura anticipato, praticamente con gli stessi termini che mi apprestavo ad usare, il tema del risentimento come origine di una certo puritanesimo che volevo trattare nel prossimo capitolo) che, per amore della "dialettica", quasi mi trovo "costretto" a "prendere la parti" (per finta s'intende) dei miei avversari storici, i marxisti e le femministe radicali.

Entrambi potrebbero contestare (io non lo faccio, ma, se non riporto almeno in parte le loro argomentazioni, rischiamo di sprofondare nella noia, essendo tutti d'accordo): "a cosa vale porre i principi della libera scelta e della non-violenza nel singolo rapporto, quando le scelte sono condizionate dal bisogno (tesi principalmente femminista) ed è stata usata proprio la violenza, almeno in senso storico, nello stabilire i rapporti di forza, fra persone e fra stati, in virtù dei quali qualcuno è ricco ed altri no (tesi originariamente marxista, ma ora in voga in tutto il mondo social-progressista, in particolar modo nel femminismo scandinavo)"?

Fino ad una decina di anni fa, quello che hai scritto era scolpito in me come nella pietra. Ne avevo fatto una religione e mi ero eletto papa con il nome di Alessandro VI (al secolo, come noto, Cardinal Rodrigo Borgia).

Ogni mio intervento era volto o a dimostrare che il “bisogno” il quale spinge a scegliere non annulla il libero arbitrio e, a vari livelli, è in comune a tutti i cittadini che non siano nati ereditieri e debbano quindi scegliere un lavoro per vivere (di cui il profitto è uno dei criteri di scelta e in cui la libertà di questa è ovviamente diversa a seconda del grado di “fortuna” in cui ci si trova), o a mostrare che tutti i terzomondismi e tutti i socialismi del mondo non avrebbero mai potuto cancellare il merito dei nostri avi che hanno creato il Rinascimento, la rivoluzione industriale ed il benessere, né quello di chi ha studiato e lavorare per avere “di più della media”.

Ero tanto convinto di questo che desideravo più di ogni altra cosa incontrare (anche solo virtualmente) una di quelle escort tanto altolocate da aver scelto la professione per puro desiderio di vivere “da principesse rinascimentali”, “fra cani, cavalli e belli arredi”, ovvero molto più agiatamente di quanto non si sarebbe mai potuto con un lavoro “normale”. Una cortigiana, magari italiana, o comunque non proveniente ad un paese economicamente arretrato, che avesse scelto (per motivi assolutamente svincolati da una originaria e strutturale o casuale e momentanea o, anche solo temuta, “situazione di povertà”), di concedere le proprie grazie a chi, ogni sera, fosse stato disposto a devolverle l’equivalente di uno stipendio medio, avrebbe dimostrato la mia tesi anche in pratica (per la dimostrazione teorica me la cavavo bene con gli esempla ficta ed i sillogismi delle mie "encicliche").

Ero già un puttaniere convinto (anzi, il papa del “Sacro Antichissimo Culto di Venere Prostituta") e avevo soltanto paura che tesi avverse a quanto da te esposto potessero favorire il proibizionismo (o il socialismo). Da gaudente “moscardino”, temevo i due pericoli in egual misura.

Tanto pregai il cielo di incontrarla, che il cielo me la mandò (virtualmente, s’intende).
Se da un lato ella confermò certamente le mie tesi, dall’altro “rovesciò” sia i miei timori, sia le mie “alleanze”.
Ad essere condizionata dal bisogno è anche (se non soprattutto) la scelta dell'uomo, il quale agisce mosso dai riflessi condizionati dell’istinto (su questo, una biologa quale ella era poteva divertirsi a produrre mille esperimenti virtuali), quando la donna può al contrario muoversi secondo il calcolo razionale (ad esempio, scegliere la preda più “facile” e “saporita”, come fa il predatore, a differenza del “seduttore” che segue la “più difficile” e la meno “conveniente”). “Ho amiche che non hanno lasciato neanche gli occhi per piangere agli uomini che si sono innamorati di loro, mentre non ne conosco nessuna che sia finita in miseria per un uomo” – disse chiosando una memorabile dimostrazione dialettica (ohibò, mi accorgo che sto “spoilerando” l’ultimo capitolo dei miei “Sei gradi di separazione”).
Non voglio qui riaprire la decennale polemica sul fatto che, nell’escorting, le donne siano leonesse e gli uomini gazzelle (prima o poi, nel mio “romanzo a puntata” sull’altro 3D, arriverò anche a narrare di queste epiche battaglie forumistiche).

Non voglio neanche dire che tutto l’amore sessuale si riduca ad escorting. Voglio solo rimarcare come alcuni principi tanto “sacrosanti” in teoria non sempre siano “equi” in pratica e come chi ami parole “tutte umane” (anzi, forse, “troppo umane”) come “felicità”, “bene”, “pietà”, “giustizia”, non possa prescindere dal riconoscere i diversi bisogni naturali (diversi innanzitutto per sesso, e da bilanciare assolutamente se si vuole che anche agli uomini siano date "pari opportunità" di vivere liberi e felici nel mondo reale - non in quello ideale - e pari forza contrattuale in ogni rapporto con le donne ed in genere in quanto davvero conta innanzi alla natura, alla discendenza ed alla felicità individuale).

La tua ultima frase è sicuramente vera all'interno del paradigma liberale, ma, al contrario dello "schema attrattivo" “bella”-“forte” (che è natura e non può essere cambiato per “contratto sociale”), non ha una base “naturale”, bensì soltanto “etica”. Su tutte le affermazioni precedenti sono costretti a concordare tutti (eccetto, ovviamente, gli antropologi culturali contro cui è nato questo 3D, i quali continuano a sostenere le pulsioni sessuali essere solamente “cultura” e quindi potenzialmente uguali nei due sessi). Sull’ultima frase concorda (io sono ancora in fondo fra questi, ma non so per quanto tempo) solo chi vede ancora possibile un mondo in cui, “mediamente”, ambo i sessi abbiano abbastanza “potere contrattuale” da poter sempre scegliere fra un “sì” ed un “no”, senza per questo deperire di bisogno.
Un paese ex-comunista degenerato in cui non vi sia alcuna via d’uscita dalla miseria se non venire in Italia per spacciare o in Austria per lavorare in un fkk non dà effettivamente un gran potere di scelta alle belle ragazze (alcune dotate di una bellezza tanto alta e nova da non aver nulla da invidare a quella di certe modelle o showgirls) che vedo sfilare a “Miss Wellcum” (e che per bellezza naturale potrebbero benissimo sfilare per Miss Italia).
Un’Italia “melanzanizzata”, nella quale un giovane maschio, se non erede di una fortuna da “sputtanare” (letteralmente) non ha alcuna alternativa all’autoerotismo (e alla conseguente depressione a rischio di deperimento psichico) se non il disporsi con molte sofferenze e poche speranze (tanto che solo giocando sui grandi numeri si avrà successo) a recitare da seduttore per compiacere la vanagloria della donna o da giullare per farla divertire (a volte non “con lui”, ma “su di lui”), il “mettersi in fila” come un “mendicante” alla “corte di miracoli d’amore” sperando che la “corteggiata” di turno (colpita da quanto abbiamo offerto e sofferto durante i suoi dinieghi) si degni di allungare una sia pur misera “sportule”, o addirittura l’accettare di fare da cavalier servente pronto a tutto per un sorriso (pronto, soprattutto, a rinunciare ad una visione del mondo “propria” che non sia condivisa dal mondo femminile, ad uno stile di vita “sincero” che non porti ad essere “popolare” fra le ragazze), non lascia un grande “libero arbitrio” a chi, con troppa facilità (dall’alto delle nostre fortune socio-economiche che ci permettono un certo tipo di free, pay o indipay) chiamiamo “zerbino”.

Non voglio far sentire in colpa nessuno. Voglio solo dire che il principio del libero arbitrio da te esposto è messo a rischio non solo dalle femministe scandinave (o francesi) che con argomentazioni vetero-socialiste chiamano la prostituzione “stupro a pagamento” o che con il metoo chiamano “molestia” certe forme di free o di indipay (quelle in cui l’uomo ha poteri e ricchezze per bilanciare la bellezza della donna), ma anche dai turbo-capitalisti che stanno facendo di tutta l’Europa occidentale (o almeno della sua parte meridionale) un luogo di impoverimento ex-sovietico e, non lo dimentichiamo, dalle neo-femministe che non si contentano di una parità di diritti, ma vorrebbero pure quella di guadagni (a valle delle scelte individuali e quindi prescindendo dai diversi bisogni naturali e sociali di uomini e donne che anche dopo il femminismo li portano in genere su strade diverse).
Quando 999 uomini su 1000, a prescindere dal loro studio e dal loro impegno individuali, non guadagneranno abbastanza da poter vivere dignitosamente (e quindi figuriamoci andare in un fkk straniero e trovare una indipay in Italia), spiegare il “principio libertario” della non violenza, applicato tanto all’economia quanto al sesso, sarà come spiegare alla plebe in rivolta di manzoniana memoria che non è giusto rubare il pane.
Quando sarà evidente a tutti che il "merito" (di studio, di lavoro o di altro) influisce attualmente (e a differenza del recente passato) sempre di meno sullo stato economico del singolo individuo (tanto che interi paesi come la Grecia o noi possono essere messi sul lastrico dai giochi di potere dei "filantropi" di Wall Street senza particolari colpe dei loro cittadini, a meno che tale non si consideri non aver fatto la rivoluzione contro una classe politica e intellettuale di servi), sarà difficile raccogliere consensi anche qua dentro con una frase del genere.
Quando le politiche sulla “parità di genere” saranno tanto efficaci da rendere introvabili fanciulle più belle di noi che guadagnino così meno di noi da considerare interessante una relazione (occasionale o sentimentale che sia) basata su un loro vantaggio economico o sul mito dell’uomo con alto potere d’acquisto, sarà difficile associare ad un qualsivoglia concetto morale di equità la situazione de facto che il liberalismo avrà a quel punto creato.
Con questo non voglio inneggiare né allo stupro né all’esproprio proletario, ma solo avvisare che i principi morali con cui giustifichiamo il nostro modo di vivere “sopportabilmente” sono funzione dei mutamenti storici ed economici (a differenza dei bisogni naturali che sono costanti).

Beyazid_II
Newbie
29/06/2018 | 12:44

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@FlautoMagico said:
@Beyazid_II la tua è erudizione ma rischi di annoiare e non di affascinare a mio avviso. Evidentemente non è questo il tuo scopo.

Uno scopo, in fondo, è stato raggiunto: ti ho indotto a scrivere un post lungo quasi come i miei interventi in giro per il forum. Di solito (giustamente) non perdi tanto tempo per rispondere (come invece spesso, ingenuamente, faccio ancora io). Si vede che, al contrario di molti, hai molte migliori occasioni dalla vita di impiegare il tuo tempo ed il tuo intelletto. Qui hai scritto, permettimi di dirlo, una delle cose più intelligenti su di me. Te ne sono grato.
E' questo il punto. Io non ho mai concepito e forse mai riuscirò a concepire che la cultura in generale e la letteratura in particolare debbano avere una funzione strumentale. Tanto meno strumentale alla gnocca. Cultura e letteratura sono modi dell'essere, non mezzi dell'agire. Sarò in fondo rimasto platonico, ma per me l'uomo colto è tale nella misura in cui ha come fine la conoscenza, non secondi fini di natura materiale o sessuale. D'altronde, lo stesso Nietzsche, che avrebbe dovuto essere il più barbaro di tutti nel distruggere l'edificio platonico, scrisse qualcosa di memorabile in merito:

«La vera cultura disdegna […] contaminarsi con un individuo bisognoso e pieno di desideri: essa sa sgusciare accortamente dalle mani di colui che vorrebbe impossessarsi della cultura come di un mezzo per i suoi fini egoistici. E quando qualcuno crede di averla afferrata, per ricavarne in qualche modo un guadagno, e sfruttandola placare i bisogni della sua vita, essa allora corre via subitaneamente, a passi impercettibili e con atteggiamento di disdegno.
Di conseguenza, amici miei, non scambiate questa cultura, questa dea eterea, raffinata, dal piede leggero, con quell’utile domestica che talvolta viene anche chiamata ‘la cultura’, ma non è altro se non la serva e la consigliera intellettuale delle necessità della vita, del guadagno e della miseria. Un’educazione, peraltro, che faccia intravedere alla fine del suo corso un impiego, o un guadagno materiale, non è affatto un’educazione in vista di quella cultura che noi intendiamo, ma semplicemente un’indicazione delle strade che si possono percorrere per salvare e difendere la propria persona, nella lotta per l’esistenza»

Parole da scolpire nel marmo quando ci si riempie la bocca di "scuola" e di "cultura".
Nello specifico della letteratura che ho amato, non mi sono accostato ad essa per apparire istruito alla società o per avere qualcosa da raccontare con le gnocche, ma perchè, appena passato dall'età dei giochi a quella della ragione, ho trovato in altri uomini vissuti secoli prima di me (anzi, dapprima in coetanei, come nel caso del giovane Leopardi) le parole, il linguaggio, le immagini ed i suoni per rappresentare quei sentimenti che provavo innanzi alle onde della vita (sempre diverse in superficie, ma in fondo sempre uguali). La natura è "idemsentire" (tanto per usare un vocabolo di cui ho abusato prima).
Cosa ha in più il dialogo con la letteratura rispetto a quello con amici e coetanei? Che ci mette in contatto non con chi, per puro caso, si trova negli stessi luoghi della stessa epoca, ma con chi, fra i migliori selezionati dal tempo, possiamo scegliere come più vicino a noi.

E' un pensiero asociale? Evidentemente ho sempre preferito la ideale comunità dei dotti di ogni epoca alla società moderna. E' un pensiero da idealista privilegiato?
Sì, sono socialmente un privilegiato. Lo ero da fanciullo e lo sono, nonostante tutto ciò di cui mi lamento, ora da adulto. Privilegiato nel senso che ho avuto prima tutta la tranquillità per studiare senza dovermi preoccupare degli aspetti "materiali" della vita, e, poi, la possibilità di lavorare mantenendo comunque quei "due terzi di tempo" a mia disposizione necessari a non essere classificato, secondo Nietzsche, fra gli schiavi ("qualunque cosa sia per il resto: uomo di stato, commerciante, impiegato statale, studioso" ). Certo, uomini meno fortunati hanno dovuto prima lavorare per studiare e poi usare strumentalmente la cultura per trovare un lavoro migliore. Non sono fra gli intellettuali ipocriti che fingono di non vederlo. Io però continuo a chiedere: una civiltà superiore, come riteniamo che fosse, ad esempio, quella ellenica, non è tale proprio perchè può permettersi di sentirsi superiore alla fatica del vivere, al mestiere di vivere? Perchè ha il tempo per pensare ad una cultura che non debba essere strumentale alla lotta per la sopravvivenza?

E tornando al punto iniziale: per me la letteratura non è un mezzo (per vendere libri, per raccogliere like, per affascinare donzelle), ma un modo (il modo, se vogliamo, più poetico) di percepire la realtà. Tutto il polpettone che (lo capisco benissimo) rende indigeribile la lettura di questo "romanzo a puntate" è quanto io ho effettivamente avuto in testa mentre vivevo la realtà che ora racconto, il modo in cui la filtravo e la percepivo, la amavo e la odiavo. Non è un'aggiunta "rodiense" posticcia di valore esornativo (in tal caso avrei clamorosamente fatto fiasco). Qualcuno, fra i miei due lettori, mi ha chiesto qualcosa di personale ed io, sfruttando l'anonimato della rete, ho colto l'occasione per confessare un flusso di ricordi che, arrivato alla soglia degli anta, non sentivo più di tenermi dentro. Ci sono opere che si scrivono per altri ed opere che si scrivono per se stessi (come, appunto, il famoso "memoriale" del personaggio di Svevo). Questa ricade nella seconda categoria.

@FlautoMagico said:
Ora la cultura la devo maneggiare anche io, ma almeno anche se è raro che una persona capisca tutto quello che dico l'impressione di avere capito ce l'ha. Sarà divulgazione ma sticazzi.

Guarda, la mia è ancora meno di divulgazione. La mia è nevrosi. Un po' come lo Zeno Cosini che citavo, io mi sorprendo a scrivere per ore e a volte per giornate intere non perchè abbia effettivamente un interlocutore da interessare o un'interlocutrice da affascinare, ma perchè ho necessità di spostare dalla mia testa alla parola scritta pensieri che, altrimenti, continuerebbero a infastidirmi. Per anni non sono riuscito, in certe mattine, ad iniziare a lavorare se prima non "sfogavo" certi pensieri, se non rispondevo con certe argomentazioni a domande scoccianti.

@FlautoMagico said:

Ad una milanese ho spiegato che uno dei fiumi sotterranei che attraversano la cultura di tutte le epoche è la distinzione tra classico e romantico.

Diciamo pure dell'epoca in cui è stato istituito l'esame di maturità. Distinzione, a ben guardare, discutibile in sè, come gran parte delle schematizzazioni scolastiche (come, in fondo, anche quella tardo medioevo/umanesimo di cui parlavo), anche se sicuramente necessaria per dare dei riferimenti agli studenti. I migliori del secolo sono entrambe le cose. Leopardi ha avuto una formazione tutta illuminista, ma poeticamente viene messo (forse per errore) fra i romantici (contro il cui malgusto ha lanciato motivati strali), Felice Romani, il miglior librettista che abbiamo avuto in Italia, era intellettualmente un fervente avversario del romanticismo, salvo poi, per mestiere e per guadagno, insierire furbescamente temi romantici in opere d'argomento neoclassico (si veda la Norma) per prendere gli applausi di tutta Europa con la musica di Bellini.
E' comunque la classica domanda da fare ai maturandi. Strano che la tipa non se la ricordasse. Che abbia forse passato l'esame "orale" in altro modo?

@FlautoMagico said:

Questa distinzione naturalmente è anche una cifra che vale per il presente e la si ritrova tra l'altro nell'architettura e nella politica, le dittature ad esempio sono classiche perché seguono un canone mentre le democrazie vivendo di ideali e contrasti sono romantiche.

Se sei riuscito a farle credere che le democrazie liberali vivano davvero di ideali sei stato molto bravo. Parlano di ideali per meglio fottere gli interlocutori, come tu stai facendo con lei. Ti ammiro per questo, ma faccio notare che avresti anche potuto fare (in maniera, s'intende, altrettanto arbitraria) l'associazione inversa.
La dittatura di Cesare fu romantica perchè infranse il canone (la legge di Romolo che impediva l'ingresso in armi nel territorio metropolitano, le stesse leggi repubblicane, la costituzione di Silla ecc.), fu furia e tempesta (il bellum civile) e finì in tragedia (la morte di Cesare messa in scena da Shakespeare). La democrazia idealizzata a fine settecento fu invece classica, perchè si richiamava ad Atene ed a Roma, proprio vedendo in esse i luoghi storici in cui la ragione, e non la superstizione, l'irragionevolezza, la brutalità, il chaos di forze contrastanti e di reciproche protervie, avevano guidato la politica. Tutti i repubblicani chiamavano i figli "Mario" (un buon aggancio per invitarla al lirico a sentire "La Tosca"). Perdura ancora proprio perchè è classica quindi eterna (avresti potuto filosofeggiare in conclusione). Il fatto che i primi americani abbiano scelto di chiamare "Campidoglio" la sede della loro politica e di costruire gli edifici in stile neoclassico dovrebbe "plasticamente" dimostrare questa (provocatoria, ma per le milanesi va bene) tesi.

@FlautoMagico said:

Infine le ho spiegato perché la distinzione tra classico e romantico è cruciale per comprendere l'intelligenza artificiale e l'impatto che avrà sul nostro futuro.

Questo interessa anche a me. Potrei raccontarlo ai ragazzi nel prossimo corso di Big Data. Le reti neurali sono "romantiche" perchè restano in fondo delle black box di cui capiamo poco e in cui non possiamo applicare l'analisi "riduzionista", pezzo per pezzo, componente per componente, punto per punto,
al contrario di quanto, per formazione, noi ingegneri siamo abituati dai tempi della meccanica razionale?

@FlautoMagico said:

Questa persona che si considerava colta più della media e soprattutto più degli uomini che ha incontrato in passato ha avuto uno shock enorme, e ora ha una infatuazione per me, che poi era lo scopo della mia predica. So che durerà poco perché è piuttosto frivola e incostante, ma intanto ho una milanese tutta per me che si fa scopare e mi spiega pazientemente come funziona questa dannata città, che purtroppo sotto l'apparenza ha il vuoto pneumatico… ma questa è un'altra storia.

Una volta un vecchio indù disse che non è saggio turbare gli spiriti semplici. Non sarai stato saggio, ma almeno hai trombato. Sarei ipocrita se negassi tanto l'ammirazione quanto un pizzico di invidia per l'occasione che hai saputo individuare e cogliere (cosa per cui il sottoscritto è sempre stato negato: nel prossimo capitolo ne darò anche qualche divertente esempio).
Non nascondo che forse un giorno non lontano metterò da parte il mio "tirarmela intellettualmente" ed accetterò anch'io di "prostituire" pezzi di cultura per ciullare. Sempre che si trovino ancora le controparti femminili adatte (le poche volte in cui sono stato tentato di farlo non ho avuto grandi risposte di incoraggiamento). Per ora ho sempre preferito lasciar prostituire le donne e pagare in moneta piuttosto che in "prediche". Non è affatto una critica a chi fa scelte diverse. Anzi, la monotonia del pay quale è tristemente diventato negli ultimi dieci anni in Europa potrebbe avere effetti di miracolosa smentita di quanto ho detto all'inizio di questo stesso post....

Beyazid_II
Newbie
28/06/2018 | 18:59

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TERZO GRADO: DA AGNOLO POLIZIANO A MARSILIO FICINO

Ovvero: “PALINGENESI”

“Presto fu tardi nella mia vita”. Così inizia il romanzo “l’amante” da cui è tratto il bellissimo film di Jean-Jacques Annaud. “A diciott’anni era già troppo tardi”. Difatti, ne avevo giusto diciassette quando mi accorsi all’improvviso che l’apice interiore era già alle mie spalle. Come proprio e solo al momento della separazione da lui, in un’indimenticata scena del finale in cui la protagonista, dalla nave che abbandona il Vietnam (allora colonia francese) per riportarla in Europa, vede spuntare, dietro i containers del porto, la limousine di lui venuto a salutarla, ella capisce chi davvero era quell’uomo con cui credeva di aver solo giocato, così io capii solo in viaggio. Ero sul treno che mi riportava a casa. Avevamo viaggiato in taxi all’andata, ma al ritorno insistetti con mia madre per prendere il treno. Forse perché volevo semplicemente risparmiare per comprare il prima possibile la mia prima auto nuova. O forse perché, se in Tolstoj era avvenuti in treno l’incontro primo fra Anna Karenina e il giovane Vronskij, nella mia vita volevo che ci fosse ancora una stazione ad associarsi, almeno mentalmente, all’addio.

Sentii leggere ancora da Vittorio Sgarbi che “quando si ama bisogna partire”. Quel viaggio mi riportò indietro nel riepilogare la mia stessa vita in vista di una “oltre-esistenza” diversa. In Dante, le anime del purgatorio, prima di accedere alla gloria celeste, devono bere dai fiumi del Letè e dell’Eunoè, le cui acque hanno la facoltà di cancellare la memoria del male e rendere indelebile il ricordo del bene. Questa ansia di redenzione, questo miracolo di “palingenesi” pervade l’intera cantica di mezzo (che è “il viaggio” per eccellenza della nostra letteratura). Tutti i personaggi che Virgilio e Dante incontrano, infatti, sono oltremodo desiderosi di ricordare la loro vita terrena, e, nel momento stesso in cui la ricordano, di avere commiato definitivo da essa anche nel pensiero. Come un Sordello da Goito, una Piccarda Donati, un Guido Guinicelli durante il colloquio nell’al di là col poeta, ero pervaso di ricordi durante quel viaggio in treno (ed ho viaggiato in treno ben poche altre volte in vita mia, da amante dell’automobile qual sono). Ed era come se, nel momento stesso in cui mi si palesassero come immagini e parole, quei ricordi mi dessero l’addio.
Attraversammo dapprima, appena lasciato l’Abruzzo, la bassa costa marchigiana, dove le rive selvagge, le rade spiagge e i sassi a picco sul mare rendevano il paesaggio ancora simile a quello in cui avevo conosciuto Elisa. Il primo ricordo era dunque lei. Non conoscevo ancora il Poliziano (che avrei studiato l’autunno successivo, assieme a tutto l’Umanesimo-rinascimento e la cui “vita serena spenta a quarant’anni”, ancor più dell’opera, stando a quanto scrive il De Sanctis, è l’emblema del secolo quindicesimo), ma conoscevo bene l’infelice Petrarca (cui tutto l’umanesimo-rinascimento poetico si è ispirato). Se dunque non posso dire di aver in quel momento accostato Elisa alle ottave delle “Stanze”, scritte dal poeta e maestro di corte medicea per la Simonetta del suo secolo ma ancora perfette secondo me per lei, posso però ricordare benissimo che “Chiare, fresche et dolci acque” non ha mai risuonato così armoniosamente in me rispetto a quanto stavo vedendo e provando seduto al finestrino, con gli occhi fissi alle stesse acque in cui si era bagnata coma una Venere fra le onde e la mente fissata sulle parole che ci eravamo scambiati sopra la distesa assolata del mare o sotto le stelle scorrenti del dopocena alberghiero.

“ove le belle membra
pose colei che sola a me par donna”.

In effetti, non ho mai più potuto guardare donna alcuna, più o meno bella, senza involontariamente paragonarla a lei per aspetto fisico e carattere. Non ho mai più provato interesse per fanciulle la cui slanciata figura non mi avesse costretto a protendere almeno un po’ lo sguardo verso l’alto come verso la luna (come appunto dovevo fare con Elisa che era un po’ più alta di me), né, soprattutto, per donne prive di quella gentilezza spontanea ma non timida (“posso sedermi?” – “ah scusa, forse volevi stare vicino a tua madre” – “oh, non guardi la partita come gli altri?”), di quella gioiosità viva ma non scomposta (come quando sorridendo mi protese le braccia), di quell’interesse per l’altro sesso intelligente ma mai cortigiano (che la spinse ad attaccare discorso per prima: “pure io faccio il liceo” ed ha cercare un argomento condiviso “ho visto che stai leggendo la coscienza di Zeno”), di quella femminilità orgogliosa ma mai femminista (“dite tutti così, ma se una va in giro sciatta la additate a ludibrio”, “a me non piacciono gli uomini troppo …” – e qui ahimè non le fecero finire le frase, per cui mai saprò cosa avrei dovuto non essere…- ma stavano parlando solo di barba più o meno incolta – chissà se non le piacevano gli uomini troppo effemminati e modaioli o quelli troppo selvatici e casual), di quel buon senso “da sposare” (che non le fece prendere la parti della solita femminil-femminista “gli uomini non fanno niente, senza le donne il mondo si fermerebbe” contro chi aveva detto “e allora smettetela di fare se dovete sempre lamentarvi e rompere” e “nel paese dei sultani il mondo va avanti anche senza il vostro rumore e si vive anche meglio”, preferendo, assieme a me, la linea del silenzio che in questi casi esprime sempre l’intelligente via di mezzo fra estremismi), che, prima, avevo visto solo in mia madre e, dopo, solo in certi personaggi femminili di Stendhal come la duchessa Gina della “Certosa di Parma”. Era insomma, in Elisa, tanto la “voglia di essere bella” che non significa affatto essere oca (e che faceva convivere lo sfoggiare un vestito nuovo ogni sera, ed ogni volta più eccitante per i sensi, con il parlare di un libro nuovo ad ogni incontro sul mare, ed ogni volta con un’osservazione più nuova e più eccitante per la mente), quanto la “voglia di giocare e divertirsi”, che non significa per nulla “prendere in giro gli uomini” (come quando accettava di appartarsi con me in mare senza per questo fingere interessi o simulare attrazione o addirittura ostentare seduzione come invece troppe donne fanno per chissà quale calcolo sentimentale, o come quando ammetteva sinceramente di preferire gli ambienti più mondani delle riviere a quelli selvaggi delle montagne per poter conoscere gente ed essere almeno un po’ ammirata).

“gentil ramo ove piacque
(con sospir' mi rimembra)
a lei di fare al bel fianco colonna;”

Sì, l’avrei sempre ricordata sospirando. Avrei, anzi, sospirato ad ogni lirica, ad ogni opera cinematografica, ad ogni prosa in grado di riportarmi alla memoria una situazione, un particolare, o anche solo un desiderio corporeo in qualche modo riecheggiante l’immagine impressa di lei nella memoria. E quelle colonne slanciatissime che erano le sue gambe, su cui mi pareva che gli Dei dell’Olimpo avrebbero potuto edificare un templio dorico senza sfigurare al confronto con le altre sette meraviglie del mondo, non hanno da quel momento mai smesso di essere la pietra di paragone per qualunque bellezza femminile incontri, il primo criteri per la mia classificazione estetica delle donne.

“erba e fior' che la gonna
leggiadra ricoverse
co l'angelico seno;”

Se i critici si sono scontrati su questi versi fra chi, sostenendo che “il Petrarca non sale mai oltre il bel più”, interpreta l’ultimo di essi come “la campana formata dalla gonna gonfiata dal vento” e chi, ben conoscendo quanto carnale sia la passione per la quale l’autore di “Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono”, da cristiano, chiede “pietà nonché perdono”, lo legge come “forme rotonde dei seni”, io, nel mio paganesimo, non ho mai avuto bisogno di scegliere. La sua bellezza era tanto perfetta e pura da non avere nulla di peccaminoso nemmeno immaginandola piena di ogni grazia terrena. E così quando la sospiravo nel desiderio mi sentivo tremare di purezza come un fanciullo inginocchiato davanti alla Madonna.

“aere sacro, sereno,
ove Amor co' begli occhi il cor m'aperse:”

Ho sempre amato le mattinate terse, da quell’estate (in cui peraltro erano rare). Perché era con il bel tempo che potevo “uscire in gommone” accompagnandola nei nostri “tragitti letterari” a forza di remi. E da quel momento io, che da studente avevo sopportato soltanto con estrema noia tutti i poemi e le poesia d’Amore, dal “Tresoretto” di Brunetto Latini al siculo “Pir meu cori alligrari”, dai sonetti del notaio fredericiano Jacopo da Lentini alle liriche toscane di Guitton d’Arezzo, dal “Dolce Stilnovo ch’io odo” del giovane Dante e dell’uno e l’altro Guido, fino allo stesso Petrarca (la cui lirica “Amor m’ha posto come segno a strale” ero pure arrivato quasi ad odiare avendo dovuto inventarmi un arditissimo e faticosissimo commento stilistico per cercare di prendere otto o nove in un tema), capii che quella lirica aveva un significato ulteriore rispetto a quello scolastico. Ecco che persino “Monna Vanna e Monna Lagia e colei ch’è nel numer de le Trenta” uscirono dall’antipatia in cui le avevo relegate (quasi come pretenziose compagne di classe che facessero pesare allo spasimo la loro presunta bellezza) per divenire “amiche e compagne” di Elisa nell’Empireo delle amate di tutti i tempi.

“date udïenza insieme
a le dolenti mie parole estreme.”

Avevo diciassette anni. Il numero porta ancora sfortuna in Italia, perché il suo anagramma conduce alla parola latina “vixi”, ovvero “sono vissuto” (e quindi ora non vivo più, essendo, il modo, il perfetto dell’azione compiuta). Ecco che dunque avere diciassette anni fu per me come dire, se non “sono morto”, almeno “il centro della vita è dietro di me”. Anche i miei pensieri in quel momento, quindi, erano “estremi” come le parole del Petrarca. Anziché inorridire, ne fui quasi placato.

Al contrario di Marguerite Duras, che vede “un invecchiamento brutale” “impossessarsi dei miei lineamenti uno a uno, alterare il rapporto che c’era tra di loro, rendere gli occhi più grandi, lo sguardo più triste, la bocca più netta, incidere sulla fronte fenditure profonde”, in me nulla di fisico ha mai lasciato trapelare all’esterno quella “accelerazione del tempo” che “può investirci quando attraversiamo l’età giovane, la più esaltata della vita”. Anzi, nessuno si accorse del mio turbamento interiore, perché, come consiglia il vangelo per chi sta digiunando “per amore del Signore” (“profumatevi il viso, etc…”), all’esterno cercavo di esprimere solo serenità e gioia. Nemmeno mia madre ha mai sospettato. Il mio invecchiamento precoce è stato tutto interiore. Non avrei più amato. Non avrei più guardato ad una fanciulla con quell’ingenuo trasporto verso la bellezza che ci mostra ogni giovane, anche quando non ci interessa, anche quando non ci attrae, piena di promesse e di misteri. Non avrei mai più cercato “per istinto” in ogni contatto con l’altro sesso gli eventuali indizi della “anima gemella”. Ero sicuro di averla già conosciuta e le altre avrebbero al massimo potuto “assomigliarle”. Quando lo pensai, la mia voce più controcorrente, il mio angelo razionale, mi diceva “è solo l’infatuazione estiva, il furore giovanile: altre estati ed altre donne la cancelleranno”. Dopo più di vent’anni posso dire che la sua immagine è ancora pura e immutata come il marmo. Aveva ragione la voce del cuore che, all’obiezione razionale “non posso dire di essere innamorato perché non so cosa sia l’amore”, mi spiegava: “l’amore è quella cosa per cui non servono definizioni chiare e distinte, quando la incontri la riconosci”. Era vero. Me lo sentivo che avevo incontrato “colei che non ha l’uguale”.

Che dopo quell’incontro, quell’occasione mancata, quella rinuncia, sarebbe iniziato il “tardi” mi è confermato dal cambio di ritmo nello scorrere stesso del tempo. Fino ad allora ricordo gli anni passare uno ad uno, con tutte le “grida” e i “lamenti” che li hanno caratterizzati. Dopo, inizio a vederli scorrere dapprima due a due (gli ultimi due anni del liceo, il biennio iniziale di ingegneria, i primi due anni del triennio, i due anni a cavallo della tesi in California, i primi due anni dell’incertezza lavorativa), poi cinque a cinque, come lenti ed estenuanti piani quinquennali stalinisti che mi hanno condotto al “sol dell’avvenire” universitario. E i prossimi, forse, scorreranno a decadi “senza un grido, senza un lamento, levato a vincere d’improvviso un giorno”. Ma allora non lo capivo, ero come il giovane tenente Drogo del “Deserto dei Tartari” che, pieno di speranze, aspetta il momento della battaglia cui si è a lungo preparato, per mostrare il proprio valore e compiere così la propria vita, senza accorgersi che proprio quell’attesa era il triste e monotono compimento della sua vita, e che il fortunato incontro con la sorridente ragazza da cui viene allontanato dal caso durante una festa non si potrà ripetere. Stranamente, credevo anzi che un qualche evento del fato, come scritto dalla mano invisibile di un romanziere, mi avrebbe fatto re-incontrare Elisa (magari, nella versione più ingenuamente ottocentesca di me stesso, quando sarei stato, per posizione sociale e buone maniere, pronto per chiederne la mano). Non avevo preso alcun recapito, tuttavia, per quasi due anni, immaginavo sempre. Una telefonata insperata, una lettera improvvisa, un incontro fortuito. Intanto mi pareva di vivere una dolcissima ed incerta attesa.

Poi il treno passò per Porto Recanati, e non potei fare a meno di ripensare a quante volte, seduto al tavolo della mia cameretta a finire i compiti, mi ero immedesimato nel Leopardi allorquando sentivo le voci dei coetanei che invece giocavano. Quando, guardando il tramonto, immaginavo l’infinito (per contrasto con la stanza piuttosto piccola in cui mi trovavo, con quel rapporto dialettico con il finito, quindi, che il Lotman ha ben fatto notare analizzando l’uso particolare dei deittici nell’omonima lirica), o quando mi sentivo trattato male senza motivo da quella “gente zotica e vil per cui argomenti di riso e trastullo son dottrina e saper” come capitava all’Infelice di Recanati, era stato facile, per me, entrare nel mondo poetico leopardiano, conoscendolo e amandolo quasi istantaneamente, quasi come fosse stato mio da sempre. Impossibile mi era stato invece capire i siculo-toscani e gli stilnovisti che parlavano di pene amorose (o di politica). Ora una luce nuova rileggeva gli studi del terzo anno del liceo. Guittone d’Arezzo, i due Guido e lo stesso Dante, mi apparivano finalmente comprensibili (mentre prima erano solo blocchi di parole da analizzare per far contento un professore così rigoroso da rendere impossibile qualunque coinvolgimento emotivo nella materia letteraria). E Monna Vanna e Monna Lagia e colei ch’è nel numer de le Trenta meno antipatiche.

Passammo per Gabicce-Cattolica, e tosto rivissi tutti gli anni in cui avevo trascorso lì le vacanze marittime di giugno/luglio con mia madre. Parevano nella mia mente come secoli. Emergevano dalla nebulosa degli Anni Ottanta, in cui ogni anno pareva sempre uguale all’altro nella monotonia ancora serena dell’infanzia, i primi ricordi temporalmente scanditi. Il 1989 in cui ero veramente ancora solo un fanciullo che giocava con i castelli di sabbia e, a volte, con gli altri coetanei. C’era ancora il Muro di Berlino e nella seconda parte dell’estate saremmo andati nella materna Polonia. Il 1990 delle “notti magiche” dell’Italia di Vicini chiuse con la cappella di Zenga, in cui portavo sul gommone una friulana corpulenta ma simpaticissima che abbracciavo sempre simpaticamente e con cui a volte cadevamo in acqua. Avevo appena finito le elementari. Il 1991 in cui compilavo interminabili elenchi di vetture da comperare con i “talleri immaginari” ed iniziavo a parlare anche con gli adulti. Avevo appena iniziato a leggere riviste (di auto) e a guardare film (di guerra). Non credevo che avrei mai amato la letteratura. Il 1992 in cui mi riempivo di tutte le possibili e immaginabili riviste di automobili e, per la prima volta, guardai con un minimo (ma proprio minimo) interesse una ragazza alta e bionda con cui andammo (con genitori e fratellini) in chiesa (inconsapevole stilnovo ante-litteram!). Di lì a poco, nell’ultimo anno delle medie, avrei scoperto “l’interiorità”, quel dialogo con me stesso basato non più sull’immediatezza del “cosa fare adesso” e sull’ingenuità del gioco, ma sulla domanda senza fine “chi sono?”. La risposta era nel mio studio matto e disperatissimo (forse sono l’unico che ha passato più tempo a studiare in terza media che in tutti i successivi anni di liceo, grazie ad un’indimenticata insegnante fissata con le analisi dei libri, con i commenti ai testi, e con la grammatica propedeutica al Latino), che mi aveva fatto scoprire, in quelle sere tranquille squarciate dai tramonti che incendiavano il vasto orizzonte e le colline in lontananza, il “piacer figlio d’affanno” (da bambino e figlio unico avevo prima di allora conosciuto solo la noia). Il 1993 in cui ero reduce da un anno di “analisi psicologica dei personaggi” (oltreché di trasloco dalla campagna alla cittadina) ed iniziavo a guardare anche il mondo reale degli adulti con altri occhi. Dovevo iniziare il liceo e tutte le letture, le riflessioni sull’attualità e gli studi storici che quell’insegnante mi aveva indotto a seguire mi facevano percepire da me stesso come “adulto”. Mi sentivo quasi un piccolo ateniese pronto l’anno successivo ad entrare nella polis del liceo. Quell’anno provai anche per la prima volta il “turbamento” di essere (anche se solo psicologicamente) attratto (anzi, in qualche piccola decisione quasi “manipolato”) da una ragazza più grande di me che non disdegnava di mostrarsi “seduttiva” e che aveva il nome della madre di Napoleone. E con lei parlavo pure di guerra (la prima mondiale di cui mi ero frattanto appassionato) e del generale Cadorna (era anche lei piemontese). Il 1994 in cui ero patito di Formula 1 dopo la morte di Senna e, con un distacco “very british” (alla “Jim Clark”), dopo il primo anno di successi scolastici che per me erano all’epoca esistenziali, avevo flirtato con Federica. E il 1995 della delusione infernale.

Poi risalimmo la costa romagnola, dove la mamma mi portava quando ero davvero piccolo, quando i ricordi si sfumano in qualche fotografia e qualche immagine, di cui una, la sola che ricordi distintamente, mi vede su una spiaggia isolata in un giorno ventoso ad aspettare una giovane donna con un vestito bianco che si tiene il cappellino. Era mia madre? O era un sogno premonitore?

Arrivai finalmente a casa, passò l’estate ed arrivò la scuola. Al contrario dell’anno prima, non me ne pesava l’inizio. Quando, in quel quarto anno, arrivai alla cantica purgatoriale in cui Dante sente, “sì dolcemente, che la dolcezza ancor dentro mi suona”, le anime intonare una sua canzone, “Amor che nella mente mi ragiona”, mi parve di udire anch’io quella melodia. Avevo per diciassette anni ignorato anche in poesia l’esistenza dell’amore (mi piaceva il Leopardi proprio perché non ne parlava, anzi perché parlava, con trasporto e profondità quasi amorose, di tutti gli altri aspetti, perché sapeva dare ad ogni sfumatura della vita, persino al dolore, alla malinconia, alla morte, l’importanza, la dolcezza, la soavità e la levità di un incontro d’amore, di una visione di fanciulla, di un dialogo fra giovani amanti). L’avevo addirittura bandito come parola dal mio dizionario (per un misto di pudore e di rigore). E mi ritrovavo ora a parlare d’amore con me stesso tutti i giorni. Certo, mi chiedevo se sarei stato all’altezza di una creatura come Elisa. Ed allora lo studio prese un significato diverso da quello della semplice competizione che aveva sempre avuto: era uno dei modi per elevarmi spiritualmente e rendermi degno di lei.
Avevo la stessa ansia di divino delle anime del purgatorio. E’ anche l’ansia che, a mio modo di vedere, muove l’intero umanesimo-rinascimento, quando vuole “dimenticare” il medioevo e rigenerarsi nella visione idealizzata della Grecia e di Roma. E’ la stessa ansia di palingenesi che mosse la riforma religiosa di Costantinopoli prima della caduta, quando l’idea di una cristianità “sorgiva” muoveva i filosofi neoplatonici a ricercare quel “microcosmo che è il mondo” all’interno di quel “macrocosmo che è l’uomo”.

Quando seppi che il nuovo insegnante di filosofia non era ancora stato assegnato, iniziai per mio conto, estratto dal solito scaffale il libro che parlava di umanesimo, a studiare quanto si intonava con le mie corde. Lessi che quando, nel 1397, il console fiorentino, Coluccio Salutati, chiamò da Costantinopoli (il cui pericolante impero stava tentando la riconciliazione fra ortodossia e cattolicesimo nell’ultimo, disperato e alla fine vano tentativo di opporre un fronte comune cristiano all’avanzata ottomana) un maestro di Greco, tale Manuele Crisolora, si stava verificando un tale “idemsentire” in tutti i campi dell’agire e del sapere umano da fare di quell’anno la data simbolo dell’inizio dell’Umanesimo. Il fatto che la città più economicamente (e forse anche politicamente) avanzata d’Italia (e d’Europa), Firenze, sentisse il bisogno di chiamare addirittura “ufficialmente” qualcuno dall’altra parte del mondo cristiano per imparare, da un “madrelingua”, l’idioma di Platone, di Pericle, di Eratostene, e di tutti i filosofi, di tutti i politici, di tutti gli scienziati che la civiltà ellenica aveva prodotto, e di cui il medioevo aveva avuto soltanto qualche vago accenno tramite l’Aristotele tradotto dagli Arabi, era il segno di un cambiamento epocale della visione del mondo. Se fino ad allora l’uomo era stato visto come la creatura peccaminosa che si era allontanata da Dio e doveva patire e redimersi per essere stato indegno dell’Eden, da quel momento diventava il capolavoro di dio (l’immagine leonardesca), il figlio generato a sua immagine e somiglianza (la scena della Sistina di Michelangelo) quasi, oserei dire, la stessa prova dell’esistenza di Dio. E tanto forte era il desiderio di esprimere questa gioia di vivere la presenza di dio nella bellezza del mondo, che si vollero cercare le parole in una nuova lingua, anzi in una lingua antica che si era perduta, dimenticata ma in cui si voleva vedere la propria rinascita, il proprio ritorno all’origine, la propria riconquista dell’Eden. Una lingua che pare nata per la filosofia, per la conoscenza, per politica. La lingua greca. Non, come oggi, la brama di aumentare i commerci, le ricchezze, le occasioni di lavoro e di incontro con amici e amiche (ciò che oggi impone di imparare l’Inglese) aveva spinto i fiorentini ad imparare il Greco, ma la pura, sincera, disinteressata ricerca del Bello, del Vero, del Giusto, che non possono essere né detti né pensati con una lingua impropria. Anche il Latino venne re-inventato. Al polpettone linguistico tardo-medievale ed ecclesiastico si sostituì la più rigorosa ed inesausta ricerca filologica per restituire l’eloquio latino alla “nobile semplicità” ed alla “quieta grandezza” dei tempi di Cicerone. Poggio Bracciolini, Leonardi Bruni, Lorenzo Valla discutevano tutti i giorni sulle rive dell’Arno su costrutti, immagini e ablativi. Il Valla, sosteneva, ad esempio, che si dovessero seguire le orme degli antichi senza copiarli, come si fosse appunto su una spiaggia sabbiosa in cui, per capire dove andare, non sia necessario mettere i piedi nelle orme e procedere così goffamente, ma solo cogliere la direzione e poter così andare spediti. Il più sapiente di tutti, Niccolò Niccoli, cui tutti si rivolgevano quando non sapevano risolvere un dubbio linguistico, stilistico o grammaticale, addirittura non scrisse alcun libro perché “nessuna opera conclusa avrebbe potuto essere pari alla sua conoscenza inesauribile e sconfinata”.

Il più misurato di tutti, Lorenzo Valla, pur avendo un incarico in Vaticano, non ebbe alcuna ritrosia a dimostrare per via filologica il falso della cosiddetta “donazione di Costantino” che per tutto il medioevo era stata la presunta base documentale del potere temporale dei Papi in lotta contro l’Impero. Evidentemente l’amore per la perfezione linguistica superava anche le fedi politiche. Ma il capolavoro del Valla resta il “De libero arbitrio”, in cui, con il metodo del dialogo platonico, mostra mirabilmente come la pre-scienza divina non infici l’autodeterminazione umana. E’ l’emblema del pensiero umanistico. L’homo faber ipsius fortunae sta al centro della scena del mondo, le forme possenti del David michelangiolesco simboleggiamo le sue multiformi possibilità, ma il divino non è fuori. E’ in lui. Nulla a che vedere con quanto per “umano” si intende oggi: lì l’uguaglianza e l’universalità sono, con tutta evidenza, di tipo teomorfo.
L’abusata formula dell’uomo al centro dell’universo (nel posto precedentemente occupato da dio) risponde più ad una successiva ricostruzione ideologica illuminista (di cui fu principalmente artefice il francese Jules Michelet che coniò il termine di “Rinascimento” per indicare la rinascita delle arti e della cultura dopo il presunto buio medievale), che non alla realtà del quattro-cinquecento. “Marsilio Ficino scrive la Teologia platonica, non l’antropologia platonica”. Ciò ci fece notare il professore di filosofia arrivato per sostituire quello dell’anno prima (la cui attività principale in aula era consistita in “operazioni simpatia” a favore della “cultura progressista”, come impiegare le ore di filosofia per raccontare barzellette erotiche su suore – discutibile quella delle due religiose che chiedono un passaggio a due escort in carriera e, ai racconti di queste, esclamano “e a noi don Lino regala solo un santino!” - e carabinieri – epica quella dell’angolo retto che bolle a novanta gradi secondo i bigliettini dell’aspirante appuntato all’esame -, per smontare il “mito” del sesso “voi siete nella fase del prurito, ma alla mia età vi assicuro che provata una, provate tutte” e per illustrare la teoria pedagogica del Piaget). Il nuovo insegnante era tutt’altro tipo (anche se sempre schierato a sinistra). Non più un simpatico bonaccione, ma un vero “stronzo” (e lo dico qui in maniera bonaria, “come potrei dirlo a mio figlio”, per usare una sua tipica espressione di quando rivolgeva con nonchalance quell’aggettivo a tutta la classe). Ed era la prima volta che vedevo la stronzaggine in un uomo anziché in una ragazza. Forse, per questo piaceva a tutte le donne, le quali, madri o insegnanti che fossero, parevano impazzite al suo arrivo (con tanto di commenti ammirati o piccanti carpiti da noi). Era magro, di media altezza, dalla pelle così abbronzata da parere un arabo: lo chiamavamo, infatti, in onore del grande studioso mussulmano di Aristotele, “Averroè” (mentre, mi ricordo, quando si era presentato l’insegnante precedente, avevamo pensato fosse un muratore lì per caso e perdutosi fra i corridoi). Era originario del centro città, figlio di una famiglia ricchissima (che aveva un negozio centralissimo) e sposato ad una donna che si vociferava fosse bellissima, oltre che ancora più ricca. Arrivava su una Citroen Xantia che guidava a braccia distese e pipa in bocca come un novello Arsenio Lupin uscito da un cartone. La sua dialettica era pungente come le mosse di un spadaccino che si divertisse a ferire leggermente l’avversario per il puro gusto di irriderlo e sorridere al pubblico. Mi ricordo che mi indispose a tal punto che tirai fuori la clava della matematica e della fisica per farlo smettere. Parlavamo di Plotino, ed alla sua enfasi retorica autocompiaciuta nel raccontare come all’esplicarsi nel mondo la potenza divina, prima concentrata in un solo punto, si attenuasse, replicai: “no, lei è in errore, essa non si attenua per nulla. Eì vero che diminuisce l’intensità, ma aumenta la superficie”. “Va bene – e storpiò il mio cognome appellandomi, - cosa ti proponi di dimostrare con questo?” Ed io glaciale “che il flusso, e con esso la potenza, rimane costante”. Da quella volta mi rispettò.

La continuità fra il tardo medioevo e l’umanesimo (ciò che ora mi faceva rivalutare il Dante del Purgatorio) emergeva non solo dal dotto richiamo del nostro professore filosofo, ma dalle due cose che in quel tempo mi erano più vicine: la letteratura ed il ricordo di Elisa. Come anche il professore di Italiano non si stancava di ripetere (e soprattutto di farci ripetere), gli stessi modelli letterari furono per tutti i secoli dell’umanesimo rinascimento, in fondo, due modelli trecenteschi: Petrarca in poesia e Boccaccio in prosa. Ed entrambi mi rimandavano al ricordo dei colloqui con Elisa. L’andamento bimembre (“a volte anche trimembre”, ci ricordava sempre l’occhialuto insegnante), la scelta di un ristretto e selezionatissimo numero di vocaboli (rispetto alla “robustezza” del precedente lessico dantesco) accumunati da una particolare musicalità e da una sempre più codificata significazione evocativa, il perfezionamento stilistico e musicale della stessa metrica principe del sonetto (appunto “rime con suoni”), lo stile puro e rarefatto che pare poter cantare anche gli argomenti più gravi (come la morte) e le passioni più focose (come l’amore dei sensi) con un lirismo esilissimo ed una voce melodiosa ed alta come quella di soprano (non posso non pensare a Petrarca quando ascolto un’opera pucciniana ed immagino la protagonista femminile protendersi al cielo cantando) furono le caratteristiche che elevarono a modello ideale (durato di fatto fino al Leopardi, che a volte ne riprende pure l’uso particolarissimo – quasi un gioco di allitterazioni e assonanze - delle preposizioni) i “rerum vulgarium fragmenta” di un poeta che, per tutta la vita, si era pensato come autore “latino” piuttosto che volgare. Il periodare ampio ed armonioso del Boccaccio, il suo saper costruire frasi lunghissime e complesse senza perdere mai il senso e la misura dell’armonia e della corrispondenza fra parti, la sua capacità di far rivivere anche nel volgare quegli stilemi propri del latino scritto di Cicerone (miracolo autentico, se si pensa a quel disordinato e disarmonico “polpettone” che la nascita orale della “lingua di sì” e le sue contaminazioni con barbarismi d’oltralpe avevano reso la prosa italiana dei tempi, ad esempio, di Dante, il quale difatti, come prima cosa, nella sua prima opera, si diede da fare a portare un po’ di ordine e di “poesia” tramite lo stratagemma del prosimetro: sonetti, ballate e canzoni in mezzo ai capitoli) fecero del “Decamerone” il modello con cui narrare non soltanto storie appunto “boccaccesche”, ma tutto quanto di umano si potesse raccontare nel mondo letterario (dalle novelle di Annibal Caro, di Angelo Firenzuola e del Bandello, da cui lo stesso Shakespeare attinse a piene mani, per non dire copiò, la storia di Romeo e Giulietta). E dell’uno e dell’altro avevo parlato con lei. Se con Boccaccio mi identificavo pensando a quanto avrei potuto vivere se non avessi adottato la scelta della rinuncia a priori, con Petrarca avevo le parole per cantare il mio dolore per l’amore perduto:

“Poi che deposto il pianto e la paura
pur al bel volto era ciascuna intenta,
per desperazïon fatta sicura,
non come fiamma che per forza è spenta,
ma che per sé medesma si consume,
se n’andò in pace l’anima contenta,
a guisa d’un soave e chiaro lume
cui nutrimento a poco a poco manca,
tenendo al fine il suo caro costume.
Pallida no, ma più che neve bianca
che senza venti in un bel colle fiocchi,
parea posar come persona stanca.
Quasi un dolce dormir ne’ suo’ belli occhi,
sendo lo spirto già da lei diviso,
era quel che morir chiaman gli sciocchi:
Morte bella parea nel suo bel viso.”

Quest'ultimo è per me il verso più bello della letteratura. Ed il più sublime. Perchè solo sapendo quanto nel "cristiano" Petrarca sia insopprimibile il desiderio "pagano" per le bellezze del "breve sogno" che è la vita, quanto sia struggente il desiderio di rivedere "quanto piace al mondo", si può apprezzare quanto gli sia costato accostare "bella" alla sua fine. Eppure per Laura, per la bellezza di Laura, per le grazie "terrene" di Laura (che, non lo si deve mai scordare, è la prima donna della nostra letteratura ad avere un corpo) l'ha fatto. E qualcosa di simile stavo io facendo con Elisa. Era per me come morta eppure vivevo come se fosse a fianco a me. Respiravo un’aurea soave e tristissima ben rappresentata dalle immagini della nevicata silenziosa e dallo spegnimento naturale di una candela. Avevo il dolore nel cuore eppure provavo, vivendo, gioie novelle (“vivere ardendo e non sentire il male”, avrebbe detto “l’alta Gasparra” citata da D’Annunzio nel “Fuoco”). Avevo un rimorso amaro (per non averla seguita chiedendole un contatto) eppure sentivo un sapore dolcissimo nel ricordo. Non l’avrei più rivista, eppure la continuavo a vedere. Mi sentivo come l’austero personaggio di “Tutte le mattine del mondo”, il quale, soltanto suonando, con una dolcezza e una perfezione “sconosciuta anche al musicista del re”, la viola da gamba, riesce a superare il suo dolore esistenziale e riavere accanto l’immagine della moglie morta. Le rime del Petrarca ed il suono della viola sarebbero rimasti per sempre in me sinonimi del termine “sublime”.

Il libro di letteratura, che leggevo spontaneamente per poter continuare a pensare ad Elisa anche studiando, mi fece notare che passano giusto un centinaio di anni fra la morte del Petrarca e l’affermazione del Poliziano. Quel periodo a cavallo fra tre e quattrocento è infatti passato alla storia come “il secolo senza poesia”. Per me quel passaggio durò solo qualche mese, il tempo trascorso fra il viaggio di ritorno da Giulianova, in cui avevo solo la canzone di Petrarca per cantare la mia amata, e l’autunno successivo, in cui conobbi la Simonetta delle “Stanze per la Giostra”, che per me ebbe ed avrebbe avuto per sempre le sembianze di Elisa vestita di bianco.
Nella Storia della Letteratura Italiana, Francesco De Sanctis pone il Poliziano come emblema dell’umanesimo-rinascimento. Nato a Montepulciano come Michelangelo Ambrogini, ha passò la vita organizzando feste e banchetti per Lorenzo de’ Medici e componendo ottave di rara bellezza, rimate con una perfezione compiuta ed una musicalità policroma. Appena le conobbi, vidi subito in esse la più musicale e malinconica descrizione di quella bellezza che avevo lasciato sfuggire.
“Nulla al mondo è più soave di un paradiso pagano narrato da un cristiano” disse una volta D’Annunzio. Da un lato, infatti, il paradiso cristiano cantato cristianamente (come quello di Dante) non può avere la stessa pienezza di vita (la vita scorre e diviene per definizione, mentre il paradiso cristiano è un termine), la stessa innocenza (nel paradiso cristiano tutto è conoscenza e quindi non più ingenuità), la stessa gioiosità (nelle celesti sfere si contempla ma non si ride). Dall’altro lato, il paradiso pagano cantato paganamente è un luogo reale, qualcosa cioè su cui non riverbera la dolcezza di quell’alone di luce diffusa, di quell’aurea di idealità armoniosa e beata che solo un sogno, un ricordo, un luogo immaginato possono avere. E’ un modo di essere proprio degli dèi, che sono immortali, ma per tutto il resto non sono diversi dagli uomini. E quindi non è in definitiva più bello del mondo umano. Nessuna gioia, nessuna bellezza, avrà in esso il tocco malinconico della caducità, la grazia struggente dell’addio. Come avrebbe detto l’Achille interpretato da Brad Pitt, il giorno eterno degli dèi ha sempre dovuto invidiare i colori sfumati delle albe e dei tramonti umani. Per avere il gusto sublime di una gioia che forse sarà l’ultima, il tocco delicato di una rosa che domani appassirà, bisogna che il paradiso in cui quelle gioie e quelle rose siano vissute e colte sia sì pagano, ma che per il narratore non sia reale (non sia il vero paradiso). E chi ha il vero paradiso altrove e sulla terra solo il ricordo dell’Eden è il cristiano.
Ecco perché il Poliziano è il poeta che ha cantato la mia Elisa nella sua Simonetta che sparisce nella sua gioiosa e naturale bellezza con il trascolorare stesso del meriggio in sera riverberato sui fiori, nei prati, nella natura. Ella era sparita per me come il bel giorno che non tornerà più. Era diventata quindi il mio Eden, il mio paradiso pagano (perché dalla sua terrena bellezza di dea pagana ero attratto nei sensi) narrato da un cristiano (perché sapevo che la sua immagine era materia di sogno e, come Iulo, l’avevo vista dissolversi).

Fu una coincidenza del fato che nello stesso periodo iniziai ad innamorarmi (e fino a quel momento, oltre ai cartoni, avevo guardato solo film di guerra con carri armati ed aeroplani) del cinema d’autore (in particolare in costume). Forse perché anche quello è una successione di immagini presenti da sogni lontani. Il primo film visto sulla tv satellitare fu, ben ricordo, “l’Ussaro sui Tetti”, in cui il giovane protagonista, capitato per caso sul tetto della casa di un’aristocratica promessa sposa rimasta sola e senza scorta, si offre (dopo le inevitabili incomprensioni che oggi sarebbero scambiate per dibattito sulla legittima difesa e sui ladri) di accompagnarla nel lungo viaggio verso il nobile (e anziano) sposo. Tosto mi piacque, forse perché, inconsciamente, non potevo non vedere nella donna un po’ più matura e incontrata per caso, anzi, per sbaglio, colei che amavo e non potevo non sperare, mano a mano che il legame, da reciprocamente diffidente (“ma chi vi può aver fatto ussaro alla vostra età?” – “mi ha comprato il titolo mia madre” – “e vostra madre non vi ha messo in guardia dalle donne?”) ad amichevole (durante il viaggio assieme), poi ad amorevole (quando lui la salva dalla malattia strofinandola per riscaldarla) ed infine ad amoroso, di avere anche io la possibilità di suscitare in “colei che è promessa ad un altro” (ed anche Elisa doveva essere fidanzata – probabilmente con qualcuno più grande di me) qualcosa più dell’amicizia. Ma il film che più mi rimase impresso fu di Anna Maria Tatò (una donna! e non lo seppi per quasi vent’anni!): “La notte e il momento”. Un film ambientato nel Settecento illuminista e libertino, tutto basato sui dialoghi ancora più dei capolavori di Allen, in cui un libero pensatore (e scopatore) prigioniero viene in contatto con una misteriosa compagna di cella tramite le lettere scambiate da una fessura. E al suo ritorno in società, in una villa in cui viene organizzata la serata in suo onore, rivive con la padrona di casa (anche lei, come la protagonista dell’altro film, all’inizio pare volerlo scacciare, ma poi si lascia coinvolgere dal dialogo, e, quando è egli ad accennare di andarsene, lo trattiene) quei dialoghi, quelle storie, quelle fantasie erotico-intellettuali che aveva confessato alla sconosciuta e scritto nelle lettere del carcere (non serve troppa fantasia né troppo erotismo al lettore per capire che la prigioniera altro non era se non la stessa nobildonna travestita che aveva organizzato tutto – addirittura facendosi arrestare apposta - per affascinare, anzi, per poter essere affascinata da, il protagonista maschile). La situazione di convivialità notturna in cui anche io avevo vissuto nell’albergo al mare con l’animazione, l’ambiente in cui un respingimento non è mai un rifiuto definitivo ma semmai un invito a ritentare con più ardore e più arguzia, il contesto in cui l’istinto di fuggire è la prima dichiarazione d’amore, la magia della sorpresa per cui la confessione dei sogni più segreti porta, per un arcano meccanismo, a vederli realizzati nel momento e nel luogo meno aspettati (e con persone che si erano mascherate) non poterono non fecondare le mie fantasie su quanto avevo vissuto (ed avrei poi potuto vivere) con Elisa. Non avrei mai più dimenticato quel film.

Comprensibile. Ma straordinario fu che anche filmetti ben più ordinari mi permettevano di pensare a lei. Ad esempio, in quella storiella americana in cui il figlio di papà, con la casa libera dai genitori, cerca una top-escort sull’elenco telefonico e, non avendo i soldi in casa per pagarla, si reca in banca trovando al suo ritorno un oggetto prezioso mancante, mi permetteva dei paragoni. Non riguardanti ovviamente i mestieri di prostituta d’alto bordo o di ladra scaltra. La ragazza del film si rivelerà, peraltro, molto più onesta delle apparenze (pensava semplicemente di essere stata fregata e ricorreva quindi ad un auto-risarcimento) e la trama verterà sulla fuga di lei assieme a lui su una (ai tempi della pellicola inizio anni Ottanta) fiammante Porsche 944 (“dai, sgommi sempre, perché adesso non sgommi” dice in una memorabile frase il ragazzo che tenta di fuggire dai malavitosi da cui sono inseguiti), nonché sul tentativo dei ragazzi di mettere tutto in ordine prima del ritorno di “mamma e papà”. La presenza delle automobili veloci e della bella sconosciuta che entra per caso nella vita di un ragazzo altrimenti solitario non potevano non attrarmi al di là della scarsa qualità puramente cinematografica della pellicola. La protagonista non assomigliava per nulla alla mia Elisa, ma era comunque molto bella. E, soprattutto, era di un livello altrimenti inconquistabile per un coetaneo (quando il loro rapporto materialistico-conflittuale era interrotto da momenti in cui, improvvisamente, si dicevano “facciamo l’amore qua” non potevo non pensare a come sarebbe stato soave avere una fidanzata di quel livello estetico). Bellissimo il finale in cui, nel “giro di ragazze” messo in piedi grazie alle amiche della nuova fidanzata (motivo per cui i vecchi papponi inseguivano i giovani) vengono coinvolti come clienti anche i professori più moralisti della scuola frequentata dal protagonista. Ancor oggi mi ricordo che era la vigilia del Gran Premio d’Italia. La sera ci sarebbe stato il concorso di Miss Italia vinto per la prima volta da una morettina di pelle scura. L’anno in cui per la prima volta Kaiser Schumy trionfò a Monza con la Ferrari (ho ancora negli occhi i passaggi sui cordoli delle chicane modificate fra qualifica e gara). Lo ricordo perché continuavo a pensare malinconicamente al film (e alla bellezza di congiungersi con un sogno estetico) mentre giocavo al primo “F1GP “di Geoff Crammond con le monoposto modificate per simulare la stagione 1996 (vinsi ovviamente il GP nel virtuale). Ricordo anche perfettamente lo svolgimento della gara, con la battaglia fra Hill e Alesi all’inizio, la telecronaca di Andrea de Adamich (“durissimo Damon Hill!”), l’errore del primo, la solita sconfitta ai pit stop del secondo, la fortuna di Schumy (bravo, ma anche graziato da un contatto con le gomme senza conseguenze, quando lo stesso errore era costato la gara all’inglese), la delusione del duo Mclaren (ancora sponsorizzate Marlboro). Sembravano passati anni luce dalle delusioni (una più cocente dell’altra) dei due anni precedenti (le rotture alla ripartenza ai box di Alesi e la telecamera sulla sospensione di Berger con due gare già vinte).

In quel tempo tutto, d’altronde, mi sembrava più bello e più possibile. Ero finalmente riuscito a mettere in garage (con due anni di anticipo rispetto alla patente) l’ultimo esemplare nuovo di Renault Clio Williams (prima che la Casa cessasse definitivamente la produzione). Avevo cioè a disposizione (per ora solo nei giri pomeridiani abusivi della domenica con papà per strade isolate e curvilinee: ricordo ancora la sensazione “Doctor Jackyll vs Mister Hyde” quando, da scolaro modello, entravo nella porticina del condominio sotto cui si trovava il garage, che non era vicino a casa, e uscivo motorizzato e illegale) il “modello ideale” di vettura compatta, che stravinceva nei Rallies e si faceva rispettare pure nel Campionato Italiano Velocità Turismo. Due litri pieni, centocinquanta cavalli di potenza per meno di una tonnellata di peso, tantissima coppia, tonalità blu-France con cerchi d’oro per richiamare la Williams-Renault vincente in F1 (la “W” sul volante e le cinture blu erano, per me, dettagli “estatici” più che estetici), assetto facile e kartistico (nulla a che vedere con quello rigido e traditore delle Peugeot rivali), passo lungo. Insomma, la perfezione del turismo di allora su quattro ruote. Le dedicai un libello (con incipit in latino ispirato ai carmi di Catullo) come fosse una donna. Avessi dovuto darle un nome come ora fa Vettel con le Ferrari, l’avrei chiamata Elisa.

Persino i compagni di scuola non erano più soltanto degli ostici avversari nei “certamina” di latino o matematica, ma stavano diventando quasi amici. D’altronde, avevo vinto con tanto distacco negli anni precedenti (perché l’avversario principale aveva sostanzialmente mollato, preso com’era dalla sua attività politico-studentesca) che non potevo più divertirmi se non essendo io stesso il “regista” delle gare. In pratica, preparavo diverse copie di soluzioni di compiti in classe graduate secondo la fascia di voto da far raggiungere all’amico da aiutare. E lo stesso avveniva per i compiti a casa. Così, anche facendo copiare tutti o quasi, i risultati rimanevano credibili (io al top, gli amici più forti fra il 7 e l’8, gli altri 6 stentato) agli occhi dei docenti (con un compito da 9 a tutti saremmo stati scoperti). Persino le compagne di classe non erano più tanto antipatiche (e questa nuova parvenza era davvero miracolosa). Le loro ridicole decorazioni dei diari con le frasi da bacio perugina dei loro cantanti non mi irritavano più (anche Elisa doveva avere un diario da decorare!), vedevo in certi loro atteggiamenti che un tempo mi indisponevano il riflesso forse di una timidezza che avrebbe anche potuto denotare un barlume di cor gentil, apprezzavo la conversazione con loro (quando possibile con qualcuna) su argomenti dotti, non mi azzittivo più impaurito se per caso mi finivano davanti al naso le loro tette. Se per l’umanesimo, in ogni uomo c’è almeno un po’ di dio, per me innamorato in ogni donna c’era, allora, almeno un po’ della mia. “Donne ch’avete intelletto d’amore” mi stava dicendo Dante.

Miracolo della presenza immanente di dio nel mondo, o di Elisa in me. Ma le due cose, secondo il neoplatonismo, potevano essere considerate coincidenti.
Se in Platone, ci spiegava sempre il fascinoso ed abbronzato insegnante, l’Iperuranio, che è il mondo vero di cui noi siamo copia, sta in un altro luogo rispetto al mondo apparente in cui viviamo come ombre, in Plotino, dio (ovvero il mondo vero, il senso del mondo) è immanente nelle cose, ed il minor grado di perfezione delle cose terrene rispetto a quelle celesti dipende solo dal fatto che la potenza divina, esplicandosi, cala d’intensità mano a mano che si diffonde. Ecco perché l’umanesimo e il rinascimento si devono dire neoplatonici prima che platonici: l’uomo, che può con il libero arbitrio scegliere “se elevarsi fino al dio o degenerare fino al verme”, è la prova dell’immanenza divina. L’uomo e soltanto l’uomo può mettere in contatto cielo e terra. L'uomo, e soltanto l'uomo, è quella “copula mundi sospesa fra le cose inferiore, che sono terrene, e quelle superiori, che sono divine”. Così ci lesse, tirando fuori dal cassetto, con coup de theatre da cabarettista di Parigi, la “Teologia Platonica” di Marsilio Ficino.

Beyazid_II
Newbie
25/06/2018 | 19:00

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INTRODUZIONE

Nella "Metafisica dell'amore sessuale" Schopenhauer dice che NELLA SESSUALITA' gli uomini e le donne non sono mossi dal LIBERO ARBITRIO, ma dal GENIO DELLA SPECIE.
I primi sono spinti dalla brama di bellezza e di piacere a disiare al primo sguardo il maggior numero possibile di femmine, fatalmente attratti dalle loro forme (ivi comprese, come vedremo nel dettaglio e come comunque sappiamo, quelle rotonde dei seni) e dalle loro chiome, mentre le seconde sono parimenti spinte a farsi desiderare dal maggior numero possibile di maschi, in modo da poterli mettere alla prova e selezionare colui che fra tutti eccelle nelle qualità da lei volute (se fosse mossa da ugual desiderio non potrebbe selezionare efficacemente).
Tutto ciò non è voluto dalla Società, ma dalla Natura (la quale persegue i propri fini, che attendono alla conservazione, alla prosecuzione e all'evoluzione della specie e della vita e non coincidono con quelli degli individui, i quali si volgerebbero invece alla Felicità, ad un concetto diverso). La società al massimo può variare i concetti di bellezza e di eccellenza cui naturalmente donne e uomini saranno portati a desiderio e perseguimento, ma non lo schema di cui sopra, che è semplicemente NATURA e non ha nulla a che vedere neppure con l'educazione, la cultura, il gusto e l'animo individuale. I desideri di natura non cambiano per contratto sociale, né per volontà del singolo.

Non possiamo infatti scegliere chi e cosa ci deve piacere, altrimenti non si chiamerebbero passioni (dal latino "patior": subire). E' la natura che, tramite i desideri più veri e le pulsioni più profonde, ci fa bramare con tutto il nostro essere le doti a lei più utili. Non è dato sentirsi appagati nell'ambito amoroso senza seguire e soddisfare tali desìi.

Anche tutte le contro-argomentazioni fondate sul fatto che (ovviamente) uomini e donne si cerchino senza pensare alla riproduzione non hanno valore in quanto, nell'ambito sessuale, è la natura (e non certo il pensiero o il libero arbitrio), a far sì che al nostro sguardo, al nostro tatto, ai nostri sensi tutti e persino al nostro intelletto, risultino in genere desiderabili gli individui del sesso opposto con determinate caratteristiche, immancabilmente correlate alla sfera riproduttiva e utili non a noi ma alla nostra discendenza("che ci corrispondono individualmente", direbbe il filosofo di Danzica). Ad esempio:

"Un seno femminile turgido esercita un'attrattiva straordinaria sul sesso maschile perché, stando esso in rapporto diretto con le funzioni riproduttive della donna, promette nutrimento abbondante al neonato. Invece le donne eccessivamente grasse suscitano in noi repulsione: la causa è che una tale costituzione indica atrofia dell'utero: cioé sterilità; e non è la mente, ma l'istinto a saperlo".

Schopenhauer scriveva questo quasi due secoli fa; oggi, anche solo cercando su google o sulle news di yahoo, potete trovare decine e decine di articoli divulgativi dove vengono esposti (o, per essere precisi “raccontati”) i risultati di ricerche di biologia, etologia, genetica o neuroscienza che spiegano questo così come tanti altri “meccanismi” dell’attrazione e del comportamento sessuali a suo tempo trattati ad uno ad uno dal nostro Arturo. E’ vero che, a volte, il taglio “giornalistico” (per non dire “sensazionalistico”) di tali articoli fa effettivamente sorridere (come quando si afferma che “gli uomini pensano al sesso ogni cinque minuti”, dimenticando come, se opposti-complementari sono i desideri naturali delle donne, e se mostrarsi belle, attrarre, mettere alla prova ed indagare con le parole sono un’espressione comportamentale, spesso inconscia, dell’istinto femminile elevato all’umano, allora con tutto il tempo speso dalle donne in cura del corpo, scelta dei vestiti, attività sociali e chiacchiere con l’altro sesso, si potrebbe anche sostenere queste pensino al sesso continuamente, o come quando, con evidente tono irrisorio verso il nostro sesso, si sparano titoli del genere “bastano dieci minuti ad una donna per fare di un uomo un cretino”, quando se appariamo subitaneamente “stupidi” a volte innanzi alla bellezza femminile, piuttosto che ad una nostra cretineria innata, si dovrebbe pensare alla radice comune alla parola “stupor”: stupore innanzi a quanto, come le parvenze suscitanti disio, non può essere compreso dall’individuo – in questo caso proprio perché, come appunto l’istinto sessuale, in quanto “sospiro della specie”, ci trascende – ed in quanto tale profonda, inesausta, inesauribile fonte d’ispirazione, negli uomini nati per le cose dell’intelletto, o comunque “meno cretini della maggioranza”, per quella creazione di immagini e suoni con le parole chiamata poesia, molto più di quanto potrebbero mai spiegare tutte le cause addotte dalle femministe per giustificare la minore presenza di donne nell’arte – si noti che la meraviglia è anche la sorgente del desiderio di conoscenza dell’ignoto senza cui neppure la scienza non sarebbe mai esistita). E’ però altrettanto vero che il legame fra la biologia, l’etologia (il comportamento degli animali ed in particolare dei mammiferi cui apparteniamo) e le origini filogenetiche di istinti e comportamenti diffusi nella nostra specie potrebbe difficilmente essere messo in dubbio senza appellarsi a qualcosa di extra-naturale.

Il fatto che un filosofo riesca ad anticipare con tanta esattezza conclusioni verificate sperimentalmente secoli dopo dovrebbe, se non far gridare al miracolo, almeno costituire un elemento di autorevolezza nel dibattito sul pensiero.
Schopenhauer è stato il primo a formulare una filosofia che non fosse pura speculazione astratta o moraleggiante (come Kant) ma che fosse al contrario fondata sull’osservazione del mondo naturale quale gli poteva essere noto con il livello scientifico di allora. La sua invidiabile familiarità con gli Antichi gli permetteva di ricollegarsi direttamente alla “scienza dei fatti” della civiltà “pagana”, saltando a più pari gli “spiritualismi” e gli “idealismi” di una filosofia che, anche se non più nominalmente “cristiana”, manteneva ancora del cristianesimo la tendenza a vedere l’uomo separato dalla natura (che in Hegel è difatti soltanto “pattumiera” dell’universo). Certo, la sua comprensibile reazione di fronte al “mondo come volontà” cieca di propagazione della vita e dei suoi istinti, totalmente indifferente alle esigenze “tutte umane” e individuali di “bene” e di “felicità”, fu di “orrore”, al punto da concepire un pessimismo più nero (almeno secondo il De Sanctis) di quello del Leopardi e di rifugiarsi nel “no alla vita”, nel “Nirvana”. Anche in questo, però, dimostrò un’apertura mentale superiore ai suoi contemporanei: smise di guardare al cristianesimo o all’idealismo (nuova religione d’Europa, specie in Germania) per scoprire perle di saggezza orientale che l’eurocentrismo della filosofia aveva fino ad allora ignorato. E’ a lui che si deve la prima diffusione di idee come quelle Buddhiste.
Tale apertura mentale, unita al fatto di poter dedicare l’intera vita allo studio (tanto umanistico quanto scientifico) e di essere intimamente solitario, gli ha permesso di guardare al mondo con molto più disincanto, molto più disinteresse e, soprattutto, molto più rigore, di quanto potessero fare i suoi critici, perennemente alla ricerca di stipendi e applausi. Il fatto di poter contare su una consistente rendita paterna ha reso oggettivamente più obiettivo qualunque suo giudizio filosofico rispetto, ad esempio, all’accademico Hegel stipendiato dall’università prussiana e quindi in fondo pagato per mostrare lo “stato” come “massima espressione dello spirito umano” nella sua “fenomenologia”.
La fortuna di Schopenhauer si scontrò allora contro quella dell’idealismo tedesco: alla ricerca della “verità in objecto” attraverso l’osservazione della natura e la dura disposizione di sé ad accettare anche conclusioni contrarie alle proprie aspirazione eudemoniche, i suoi concittadini preferivano quella mediata dalla “dialettica hegeliana”, che li mostrava come “figure dello spirito” in grado di “marciare vittoriosamente” lungo il “corso della storia”.
In Italia, ad esempio, l’opera di Schopenhauer venne “declassata” rispetto a quella dell’altro grande pessimista ottocentesco, il Leopardi, in fondo soltanto perché, secondo il De Sanctis (autore di quell’agghiacciante dialogo fra i due viaggiatori del treno che comparano le due filosofie, amorevole nei modi e nelle apparenze, ma ferocemente ideologico nella conclusione che si fa perfidamente emergere dalle garbate battute), non “faceva sorgere in petto” il desiderio di “amore, patria, libertà” (al contrario, a suo dire, di quella dell’Infelice Recanatase).

Anche nei secoli successivi del dilagare del Marxismo (che aveva preso Hegel davvero troppo sul serio, finendo per annacquare le genuine intuizioni di Marx su molti aspetti oggettivi, a volte anche scientifici, dell’economia e della società, con le illusioni del positivismo e le fumisterie del progressismo da cui siamo tuttora inondati), Schopenhauer continuò ad essere emarginato (tanto che il suo unico discepolo, dopo Nietzsche, può essere considerato l’isolato Carlo Michaelstedler). Semplicemente, affermare che l’infelicità umana derivasse dalla condizione esistenziale dell’individuo, nato dal nulla e destinato a tornare nulla, dopo un’esistenza nella quale la natura del piacere è per lo più breve o immaginaria mentre quella del dolore è persistente e reale (si veda il celebra brano della gazzella e del leone) era in contrasto con i dogmi marxisti secondo i quali una sorta di paradiso terrestre sarebbe stato possibile “cambiando i rapporti di produzione” e “rivoluzionando la società”.

Perché oggi, che anche il marxismo è finito nella pattumiera della storia assieme ad Hegel, c’è ancora chi chiama “pipparolo” Schopenhauer?
Sempre per motivi politico-ideologici, come nei due secoli precedenti. Viviamo infatti nel “secolo americano”. Negli Stati Uniti il mondo scientifico si è a suo tempo formato sulla teoria “behaviourista”, secondo la quale gli individui sarebbero “tabulae rasae” a cui sarebbe possibile insegnare di tutto, con opportuni stimoli ambientali. Non ci sarebbe quindi alcuna differenza innata fra un individuo e l’altro e tutti sarebbero come hardware universali su cui sarebbe possibile far funzionare qualunque software. Nata scientificamente come “estensione” della teoria pavloviana dei “riflessi condizionati”, tale teoria è divenuta ideologia in America, tanto che la potete ancora vedere rappresentata in continuazione dalla cinematografia (come in “una poltrona per due”, come in tutte le “belle storie” in cui l’uomo qualunque “se ci prova ci riesce”, e come in fondo in gran parte dei films, dove, a differenza delle opere europee, l’interiorità dei personaggi è assente, ed anche i protagonisti delle storie più mirabolanti paiono rappresentare solo un “uomo-tipo” che si comporterebbe come ragionevolmente farebbe lo spettatore-medio). Insomma, un’ideologia che a parole vorrebbe esaltare l’individuo e la sua libertà, cancellerebbe l’idea stessa che l’individuo abbia una sua identità propria (quindi non data dall’ambiente), sostenendo che, alla nascita, sarebbero tutti “indistinguibili” l’uno dall’altro (come tanti pezzi prodotti in serie). Perché stupirsi dunque se negli Usa l’unico valore che classifica gli uomini è il denaro?
Questo perché nella costituzione americana sta scritto “noi crediamo che gli individui siano creati uguali”. Appunto, direbbe Schopenhauer, “o si pensa o si crede”. Ecco l’elemento extra-naturale di cui si diceva prima, indispensabile per poter negare la biologia e quindi l’etologia come strumenti di indagine sull’uomo: l’ideologia politica (in questo caso quelle egalitario-progressista di stampo yankee).
Continuino pure, lorsignori, a credere. Noi preferiamo pensare. Torneremo in successivi capitoli sulla critica al concetto di uguaglianza. Qui occorre soffermarsi sul verbo “sono creati”. Qui è la prima delle menzogne egalitarie. Gli uomini non sono stati creati da un Dio fuori dal mondo. Sono semplicemente stati generati dalla Natura nel corso di milioni di anni di evoluzione. Come già intuito da Nietzsche l’individuo non è un punto isolato da studiare e valutare fuori dal tempo e dallo spazio (come fanno le dottrine eudemoniche, individualiste e liberali), ma è, in un certo modo, solo la “posizione” che la traiettoria della “vita” (ascendente o discendente) assume in un dato momento ed è quindi studiabile e valutabile solo tenendo conto della sua storia contenuta nei geni. Va bene che parlare di “fase della parabola della vita” potrebbe giustificare arbitrarie associazioni di idee fra genetica e valutazioni morali (tipo razzismo biologico), ma non è certamente un comportamento degno dello scienziato nascondere la verità per paura che questa venga usata a sproposito. Mica dobbiamo fare come il venerabile Jorge nel Nome della Rosa!

Non si sta qui sostenendo una sorta di “determinismo genetico” cancellando ambiente e cultura: non è vero neanche che tutto l’individuo sia descritto dai geni, essendo la sua personalità certamente frutto dell’interazione con l’ambiente e, per chi la pensa come me, delle proprie scelte autonome. Si sta solo dicendo che non si può studiare cosa sia l’uomo (come vorrebbe l’antropologia) ignorando totalmente la sua storia genetica (sia individualmente, sia a livello di gruppi umani). Detta in altre parole, è vero che qualunque sia la predisposizione genetica, nessuna qualità potrà essere sviluppata nell’uomo se questo ne viene impedito dall’ambiente (nessun potenziale musicista diventerà Chopin se nessun maestro gli farà amare la musica), ma è anche vero che nessun ambiente potrà far nascere dal nulla qualità per le quali un uomo non sia portato geneticamente (un diciassettenne qualunque non diventerà mai come Max Verstappen, vincente due anni fa al debutto, per quanto lo si faccia guidare continuamente dai 3 anni d'età in poi). Chi nega questo dovrebbe spiegare come sia possibile che le doti (e le differenze) descritte come “dipendenti da ambiente e cultura” (e quindi trasmesse dall’educazione “a prescindere dai geni” secondo gli antropologi) si siano, in principio, generate dal nulla, da un ambiente che non le conosceva (e quindi non le poteva insegnare), senza che vi sia stata, in qualche individuo o gruppo umano, una predisposizione naturale (ovviamente in senso totalmente casuale, non certo “provvidenziale”, intendo del genere “per caso quel gene ci ha resi bravi in questo” e non “stava scritto nel destino…”).

Tanto nell’educazione quanto nella “filosofia” si fa invece finta che “non esistano doti innate”.
E’ divertente (ma non troppo) raccontare un episodio capitatomi anni fa durante una lezione del TFA (tirocinio formativo attivo) che avevo deciso di frequentare (mi pento ancora di aver speso tempo e denaro in quel modo e mi vergogno ancor oggi per aver anche solo preso in considerazione un’ipotesi del genere per il mio incerto futuro quando la porta all’università pareva chiusa, ma è stato istruttivo). Una “esperta di comunicazione/filosofa/antropologa”, a furia di rispondere che “non esiste il dono” a chi (ingenuamente) faceva notare come anche il migliore degli insegnanti debba fare i conti con predisposizioni differenti (“doni di natura”), fece davvero inalberare non un “reazionario”, “razzista”, “di destra”, “fascista” ecc. come spesso vengo a raglio definito, ma un simpatico anarchico, uno di sinistra, uno che avrebbe dovuto essere della sua stessa parte! Questo ragazzo, portando ad esempio il fatto che due diversi bambini, messi nella stessa scuola calcistica, possano rivelarsi quasi subito l’uno un novello Messi, l’altro un negato per il gioco, alzò addirittura la voce (terminando con un significativo: “ma cosa mi viene a raccontare….”). Se è divertente vedere lo stesso “fronte progressista” frantumarsi davanti agli esiti estremi di certi dogmi, lo è meno immaginare i danni che tali “verità scientifiche” (così vengono raccontate al pubblico dei futuri insegnanti) hanno fatto e soprattutto faranno qui in Europa.

La stessa tipa citata prima, alla mia obiezione “non può essere vero che l’individuo sia definito solo dalla specificità della sue relazioni, perché non è vero che la socialità sia la caratteristica distintiva della specie umana, ma semmai il contrario: proprio gli animali più semplici come gli insetti hanno più bisogno della società, mentre quelli più complessi come i lupi riescono a volte anche a vivere da soli, come certi individui che si sentono tali anche senza relazioni sociali.” Rispose “ma gli animali non hanno società”. L’intera etologia ignorata. Ecco una misura dell’ignoranza di questi signori progressisti.
Un abisso di ignoranza toccato solo da quell’utente che mi ha risposto l’altro giorno: “uomini e donne hanno gli stessi impulsi, è la cultura a inibirli di più nelle donne”. Come se non esistessero prove chimiche, biologiche ed etologiche a dimostrare l’esatto contrario, ovvero l’origine naturale delle differenze di genere (specie nel comportamento sessuale, come vedremo nel dettaglio in seguito).

E dico ignoranza perché sono benevolo. Dovrei dire impostura. E’ difficile pensare che davvero si ignorino certe prove scientifiche. Certo vengono fatte passare per “opinioni scientifiche superate” da chi ha interesse a far finta che la scienza si sia fermata a Pavlov, alla “tabula rasa” dei behaviouristi, per dar spazio all’egalitarismo che frattanto la “cultura” ha sviluppato e affermato politicamente.
La teoria behaviourista fa comodo alla “sinistra culturale” perché l’indifferenza rispetto al substrato biologico di ciascun individuo e dell’uomo in generale le permette di pensare che “chiunque possa diventare qualunque cosa”, anzi, che si possa “creare qualunque tipo di società” a prescindere dalla biologia come piace alla mitologia “rivoluzionaria” della “immaginazione al potere”, fa comodo ai terzomondisti, perché ignorare la genetica cancella le diverse caratteristiche (che hanno permesso a certi popoli e non ad altri di trovare le condizioni storiche più adatte per costruire, ad esempio, l’edificio della civiltà ellenica piuttosto che rimanere prigioniere della paura e delle femmine come i pelasgi, o di generare il rinascimento piuttosto che continuare a defecare nella foresta o nella giungla) e permette di dire che “solo il più aggressivo comportamento dei popoli ex-colonialisti ha prodotto le differenze fra nord e sud del mondo”, fa comodo agli internazionalisti, perché permette di dire che “non si disperde nessun patrimonio” se un’incontrollata mescolanza di stirpi renderà fra poco irriconoscibile il popolo che ha fatto uscire il mondo dal medioevo (cioè noi), giacché “tanto nulla era scritto nei geni” (e allora dove stava scritto, se non in un delicato e misterioso equilibrio di stirpi di diversa origine e provenienza ritrovatesi, alla fine del medioevo, per una fortunata irripetibile serie di coincidenze storiche, a condividere l’eredità della Grecia e di Roma e a parlare la lingua del “sì”? Nel clima?), fa comodo ai turbocapitalisti, perché permette di giustificare le migrazioni imposte da guerre e crisi volute con la grande menzogna della “società aperta” (la quale ha l’indifferenza all’origine fra individui e popoli come presupposto etico e, come conseguenza pratica, la “massa senza volto”, un blog umano di individui senza nome e senza identità – se non quella effimera e volubile di facebook -, variabile senza soluzione di continuità dal brulicare dei bisogni della masse migranti all’intellettuale cosmopolita privo di radici e quindi di per sé “inorganico”, incapace di opporsi al totalitarismo consumista).
E fa comodo alle femministe perché permette di far passare per “oppressione” il nostro equo e umano tentativo di bilanciare in desiderabilità e potere tutto quanto ad esse è dato per natura dalle disparità di numeri e desideri (nell’amore sessuale) che le donne raccontano a parole di non avere (specie se sono antropologhe), ma confermano nei fatti di saper sfruttare senza limiti, remore né regole.
Fa comodo insomma a molti continuare a fingere che “alla nascita siamo tabulae rasae” su cui cultura e società possono tutto, ignorando che esistano strutture biologiche e psichiche non modificabili per contratto sociale o comunque non nei tempi brevi (rispetto alle ere evolutive) della cultura umana.

Ovviamente la scienza è progredita dai tempi di Pavlov ed ha indagato, come si diceva, il legame fra il comportamento umano, la struttura biologica dell’uomo ed il resto del mondo animale.
Il fondatore dell’etologia (la scienza che studia il comportamento degli esseri viventi, e quindi anche dell’uomo) fu Konrad Lorenz, il quale individuò i quattro impulsi fondamentali nell’istinto sessuale, nell’istinto di fuga (paura), nella fame e nell’aggressività. Tutto questo ha non solo una base biologica, confermata dalla chimica (produzione di ormoni) e dall’evoluzione (selezione dei modelli comportamentali codificati geneticamente), ma ha pure riscontro in tutto il resto del mondo vivente. Viene dunque a cadere quella “barriera” che, un po’ ingenuamente e molto ipocritamente, si continuava a mantenere fra l’uomo e l’animale. L’uomo è soltanto un animale senziente, non è “signore della creazione” e nemmeno “unico vivente a vivere in società”. Il punto che distingue l’etologia come scienza rispetto all’antropologia culturale è proprio il non ignorare le società presenti in natura presso tutto gli altri animali.

Proprio l’osservazione oggettiva di come l’impulso moralisticamente definito “male” dal mondo “umano”, ovvero la cosiddetta “aggressività”, sia un fondamentale elemento nella vita evolutiva di tutte le speci (non “sopraffazione”, come raccontano le narrazioni cristiane, socialiste e femministe, ma “difesa della comunità dai pericoli esterni”, “scontro ritualizzato per decidere questioni indecidibili”, e “impulso a superare la paura dell’ignoto e provare nuove esperienze “) ha reso Lorenz oggetto degli strali “progressisti” e “antifascisti”. Facile per questi figuri accusare lo scienziato austriaco di “simpatizzare” per la “mitologia nazista della guerra e della forza”. Ancora più facile, però, è per me vedere nell’identificazione fra “male” (e quindi, nel dopoguerra, nazismo) e “impulso vitale” (l’aggressività è uno di quattro principali, come detto), i residui di quella sovversione dei valori che Nietzsche (chiamato irrazionalista, ma su questo punto molto più scientifico dei suoi detrattori) aveva denunciato nella sua opera.

Se per un cristiano il comportamento aggressivo è sinonimo di “peccato”, di “violazione dei comandamenti divini”, di “allontanamento dalla grazia”, se per un socialista è “conseguenza dei rapporti di produzione che generano violenza”, se per una femminista è “comportamento tipico dell’uomo-maschio che usa da sempre violenza sulla donna”, per un osservatore della natura non è altro che la conseguenza di un impulso. Lo stesso impulso che rende ferocissima una leonessa quando i cuccioli le sembrano minacciati e impegnatissimi i cervi quando si incornano nel combattimento ritualizzato per conquistare la femmina. E se l’evoluzione lo ha preservato, è evidentemente utile alla vita. Certo, nell’umano, come tutti gli impulsi (ivi compreso quello sessuale) può produrre risultati di segno opposto a seconda dei casi, delle intenzioni, degli individui e delle culture: può essere violenza gratuita verso il prossimo o verso se stessi (come vediamo accadere nelle “città-gomorra” di oggi) oppure azione comunitaria e anagogica (come il patto sociale spartano siglato sugli scudi), può essere violazione di norme sociali a fine di gretto utilitarismo (come nel crimine) oppure “rito” per decidere qualcosa (come nelle competizioni sportive o di altro genere). Non è sinonimo di “brutalità”: i cervi potrebbero essere in combattimento molto più micidiali tirando calci all’avversario, di quanto non possano essere soltanto con le loro coreografiche corna: eppure è loro natura essere “leali” nell’aggressività. Non è neanche sempre unito alla violenza: presso gli Eschimesi gare canore (aggressività ritualizzata) risolvono dispute molto serie. Neppure è sinonimo di “scorrettezza”: sono anzi gli individui più forti e le speci più “armate” a combattere più “correttamente” ed a sapersi “moderare”, mentre (e qui pare aver ragione Nietzsche) i deboli e i pacifici diventano, all’occasione “spietati”: un lupo, per quanto “feroce”, non finirebbe mai un avversario che si fosse arreso, mentre lo stesso non si può dire per i “pacifici” topi che arrivano a sbranare il loro simile.
Non è escluso che l’aggressività che fa vincere la paura sia alla base di quella “voglia di conoscenza e conquista” che ha spinto l’uomo a “varcare le colonne d’Ercole”, a “rubare il fuoco agli Dèi”, a violare insomma quello che pareva la “norma naturale” per “generare oltre” e pro-gettarsi, quindi, nella storia.

Ad ogni modo non è assolutamente “ragionevole”, in nome, ironia della sorte, di un astratto razionalismo (quello che pensa gli individui mossi da puri calcoli razional-utilitaristici, quello che, in fondo, è alla base tanto del liberalismo quanto del marxismo), fingere che non esista. Una società che ignori l’impulso aggressivo, limitandosi a condannarlo moralmente e a reprimerlo normativamente, può solo ottenere individui che lo sfogano improvvisamente in maniera violenta o autodistruttiva (basta guardare i giovani delle nostre periferie educati dalla scuola della “non-violenza” e della “non-competizione). Far sì che tali impulsi si incanalino in funzioni anagogiche e comunitarie (come era per la virtù guerriera di età classica) o almeno ludico-ricreative non dannose ma anzi utili alla società (come nello sport o nello studio) è cruciale.
Perché i giovani maschi soffrono l’età scolare? Perché, mentre alle femmine è consentito di esplicare la naturale aggressività (tanto nei comportamenti – intrisi quando vogliono di una stronzaggine, verbale o comportamentale, che non solo non viene punita o limitata, ma neppure riconosciuta come tale - quanto nell’abbigliamento “aggressivo” per richiamo sessuale e vanto estetico, che dà ammirazione e accettazione universali, nonché effettivo potere psicologico e contrattuale in ogni incontro ed in ogni relazione, più di quanto darebbe in un campo di battaglia una “castrorum acies ordinata”) ai maschi non solo è vietato (per cavalleria o per “civilizzazione” effemminata eccetera) essere aggressivi fisicamente, ma è ormai pure preclusa (o comunque sconsigliata in ogni modo) la visione “competitiva” dello studio in età scolare (tanto che tale attività diventa per molti ahimè più noiosa di una “pallosa” partita di pallone!).

Stesso discorso per l’istinto sessuale (che, essendo regolato da diversi ormoni in grado di influenzare diversamente quella rete neurale da cui dipendono tutti i nostri comportamenti, dal più bassamente naturale al più nobilmente umano, è diverso nei due sessi). Se non si capisce come esso agisca in noi con i meccanismi selezionati dall’evoluzione naturale, non si potrà mai capire quale modello di società, fra i tanti che gli antropologi si dilettano a studiare, sia il più vivibile.

Non si possono dunque accettare nemmeno come provocazione quello che vanno raccontando le “studiose” del gender secondo le quali maschile e femminile sarebbero solo costruzioni sociali o personali che ogni individuo dovrebbe poter scegliere. Quando infatti citano ad esempio “l’antropologia culturale” e le sue “civiltà totalmente diverse dalla nostra nelle quali uomini e donne hanno ruoli impensabili da noi” dimenticano furbescamente di aggiungere che sono quasi tutte matriarcali e che quindi, in tutte quelle società, la donna trova, evidentemente proprio da quegli stessi ruoli di madre e di oggetto di desiderio di cui si ostinano a negare l’origine “naturale”, la fonte di ogni potere e di ogni diritto. O gli uomini riescono, come nelle società (quasi sempre ingiustamente) chiamate “patriarcali” a bilanciare tale potere con le costruzioni dell’arte, della religione, della politica come della storia, del pensiero come della società, oppure sono destinati a fare, socialmente e generalmente, la fine dei fuchi (ovvero restare apolidi), sentimentalmente e sessualmente quella degli elefanti (ovvero gridare al cielo in solitudine il proprio desiderio inappagato). Con tanti saluti a possibilità di scelta e parità di dignità. Basta ricordarci quanta “parità” ci fosse in quella sottospecie di natura che era l’età scolare! E non per malvagità delle donne, ma per inevitabile disparità di potere in quanto conta davanti alla natura. E se per evitare tutto questo è necessario offendere qualche antropologo, non mi faccio scrupoli.

Beyazid_II
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21/06/2018 | 19:56

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@FlautoMagico said:
Potete metterla come volete ma se con le donne ci dovete litigare lasciate perdere, non ve le ha prescritte l'andrologo…

L'importante è che non me le abbia prescritte l'antropologo.

P,S.
Non le frequento per motivi personali e quindi non ci litigo da più di 20 anni. Solo che qua si pretende di farmi credere che il problema che risolvo a colpi di cash non sia, ahimè, connaturato nei miei ormoni e che sarebbe facile ottenere soddisfazione gratis. Magari aveste ragione!

Beyazid_II
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21/06/2018 | 19:26

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@IlBaronetto said:
Serendipity ognuno la pensa come vuole.
Se provi tenerezza son contento per te ma a me non serve.☺

Possibile che tu capisca sempre gli interventi al contrario? La pensiamo tutti come te, eccetto Paolo.

Beyazid_II
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21/06/2018 | 19:25

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@Serendipity said:
Certi uomini mi fanno tenerezza

A me invece hanno saturato la pazienza.
Li ho sopportati da studente per decenni (quando ero obbligato).
Ricordo quel sinistronzo del mio prof. di filosofia sfottere Nietzsche per la sua malattia (quando, anche a volerlo prender per pazzo, si potrebbe obiettare che essere pazzi è il miglior modo di restare sani in un mondo che ha sovvertito ogni valore). Uno che non ha mai fatto un giorno di lavoro in vita sua (non è lavoro venire a scuola solo per irridere gli studenti come faceva con noi e sentirsi così più figo).
Ho cercato di evitarli prendendo vie scientifiche (dove la matematica ha superato non solo le 4 operazioni, ma pure l'integrale di Riemann per vivere di quello di Lebesgue).
Me li ritrovo un giorno sì e l'altro pure a predicare per radio, per TV, sui giornali la teoria del gender, o comunque a dire che "uomini e donne sono uguali" nei loro desideri quando in nessuna specie di mammiferi questo succede fra maschi e femmine. Quando la biologia, la chimica, l'etologia dicono il contrario. E lo fanno in nome della "scienza". Che non sanno neanche cosa sia, altrimenti si preoccuperebbero di vedere riscontri con i loro stessi istinti prima che con i loro indici citazionali.

Non posso ritrovarmeli anche su gnoccatravel. No, dai basta.

Li chiamo progressisti perchè non sono neanche più di sinistra. Da quando l'università e la televisione hanno dato loro cattedre e salotti, di difendere i "proletari" se ne fregano ampiamente. Ma fa parte della loro natura menzognera, la quale sola poteva produrre un cumulo di menzogne quale è appunto la "cultura progressista", sistematicamente in lotta contro realtà, ragione e buon senso,
Che stiano fra loro a piangere perchè la gente diventa "estremista" e "populista".
Non capiscono che è l'estremismo egalitario ad avere rotto le scatole ai cittadini. Non mi piace quello che fa Trump, però porca vacca quanto ho goduto quando le cagne femministe e i loro cagnolini progressisti di complemento hanno dovuto piangere!

Beyazid_II
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21/06/2018 | 19:12

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@IlBaronetto said:
Sono le stesse che sui social ti danno del coglione, gli rispondi cagna, ti citano dandoti del maschilista (perché coglione si ma cagna no) e vari cagnolini da riporto ti insultano vantandosi compiaciuti con la cagna.
Giro post e leggo la cagna insultare la Ferragni. Ohibò penso io! E glie lo faccio notare "signorina 5 minuti fa mi ha messo alla pubblica gogna per un cagna e fa lo stesso con la Ferragni". Risposta: basta vuoi uomini avete fatto sempre come vi pare siamo stufe lasciateci insultare tra donne.

La bestemmia ve la risparmio.

E noi quando troviamo un uomo che gioca dalla loro parte possiamo non risparmiarlo?

Beyazid_II
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21/06/2018 | 19:08

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@Serendipity said:
Oltre al fatto che le troie sono una bella fetta della giovane popolazione femminile e per ovvi motivi sono ragazze che non si "uniscono" ad un uomo basti pensare che io, Beyazid e Flauto che abbiamo una decina di anni di differenza l'uno dall'altro siamo tutti qui a scalpitare per le ventenni. Viceversa non si vedono donne quasi trentenni, quarantenni o cinquantenni che scalpitano per un ragazzo ventenne. E questi sono soltanto alcuni dei motivi per cui è senza senso considerare i numeri uomini donne

Come vedi, bisogna chiudere gli occhi anche sulla propria realtà quotidiana, altrimenti il mondo "accademico-scientifico" dice che siamo "ignoranti". Non ho mai detto un "me ne frego" con più gusto. Meglio essere un ignorante ad occhi aperti che un sapiente coi paraocchi. Chissà perchè questi "scienziati" della "cultura" non sono in grado di trovare una sola specie animale in cui maschi e femmine abbiano desideri uguali (anzichè opposti) e non sappiano spiegare come le mutazioni dalla scimmia all'uomo avrebbero potuto creare in noi tale "bellissima eccezione egalitaria".

Beyazid_II
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21/06/2018 | 19:04

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@IlBaronetto said:
scusami.
Io a volte sono bruto perché sembra che fica e cazzo siano sullo stesso piano.

Le femministe vogliono per legge costringerci a far finta che sia così per impedirci di prendere le contromisure per bilanciare il "fica-power".
E il mondo progressista è così "illuminato" da volerle aiutare.
Qui non è lotta politica, è lotta per un mondo sessualmente vivibile!

Beyazid_II
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21/06/2018 | 18:54

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@IlBaronetto said:
Oh pensala come vuoi. Io dico che ogni cosa ha il potere che gli si attribuisce . Te piace la fica? Ce la lei.
Chi mi dice di fare il discorso al contrario rispondo non me ne frega nulla perché non sono donna e non mi piace fare congetture su ciò che non conosco : il cazzo.

Non hai capito il senso ironico dell'ultimo mio intervento di derisione di chi dice che belillo e fica avrebbero lo stesso potere.

Beyazid_II
Newbie
21/06/2018 | 18:49

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@IlBaronetto said:
A parità di opportunità vince chi ha la fica.
Sempre.
Smettetela con le teorie. È così e sarà sempre così.

Teorie? no qui c'è la scienza "antropologico-culturale" di Paolo ....di Tarso.....

...se vedi che la realtà è diversa è indubbiamente sbagliata la realtà....

....un belillo vale come una figa....

...siamo tutti ignoranti leghisti che ce l'abbiamo sempre duro solo perchè non abbiamo superati i "pregiudizi di genere"...

...ormoni...biologia....esperienza quotidiana....osservazione del mondo animale.....selezione sessuale....non sono scienza.

Scienza è solo quello che rima con la parola "Uguaglianza".

Se è così, allora, perchè questo progressisti non si iscrivono al forum della Boldrini? Come, ancora qui a parlare dell'argomento "sessista" gnocca?

Beyazid_II
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21/06/2018 | 18:44

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@Paolo38 said:
'azz se mi tiri fuori i discorsi da piangina da teoria del gender, del femminismo dilagante eppoi, aggiungo io, il piano kalergi di sostituzione degli europei con gli africani, stiamo apposto.
Quello che ti ho scritto è scienza, se vuoi parliamo anche di piaget, vygovskij o del rapporto kinsey dove queste femmine ninfomani paiono materializzarsi all'improvviso e senza preavviso, dove chi la dorme alla grossa sono certi monoliti come quelli che tu citi, a partire dal segaiolo, schopenhauer.
Se il top 10% degli uomini smettesse di accettare tutto pur di metterla dentro a un buco versione extra deluxe ecco che il problema di risolve subito, infatti in altri paesi, specie nord europa si risolve subito e le mandano a cagare seduta stante.

Non mettermi in bocca cose che non ho detto.

  • lasciamo pur stare la politica, anche se quando si dice che essere maschi o femmine dipenda solo da una costruzione culturale anzichè innanzitutto dai cromosomi e dagli ormoni e dall'evoluzione naturale mi sembra che sia propria la politica a sforare nella pseudoscienza;
  • saranno arabi e africani a salvarci dal femminismo, tanto per chiarire che non tifo Salvini;
  • Schopenhauer trombava parecchio anche da vecchio (e senza pagare), al contrario di Hegel, di Marx e di Engels;
  • Schopenhauer è forse fra i pochi filosofi che non si sia limitato a proporre seghe mentali. Molte delle cose da lui scritte sono poi state verificate dalla biologia e dell'etologia. Tu puoi certo chiamare scienza la tua antropologia, ma solo e soltanto perchè hai alle spalle (tu sì) una "costruzione culturale" (lo stato, l'università bibliometrizzata che persino a ingegneria se ne frega dei riscontri sperimentali, l'Anvur, il potere culturale dei media, la Open Society) che ti pubblica e ti cita le stronzate di quelli che hai scritto. Anche quando sono smentite dalla realtà quotidiana. E, soprattutto, dal nostro basso ventre;
  • Sarebbe bello se tu avessi ragione. Purtroppo gli unici che possano mandare a cagare seduta stante le pretenziose sono quelli come me e come i colleghi che possono spendere lo stipendio negli FKK. Ma se non avessi questo bisogno naturale farei volentieri a meno di questo tipo di spese!

Beyazid_II
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21/06/2018 | 18:24

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@Paolo38 said:
"Se un uomo avrebbe bisogno di trombare una volta al giorno ed a certe donne pare vada bene anche solo una volta all'anno (strano, ma lo deduco da come si comportano)"

Se fai di questi ragionamenti allora oltre che di statistica sei a digiuno anche di antopologia culturale, i maschi e le femmine hanno gli stessi desideri sessuali, solo che la cultura del posto ch costriusce il genere, uomo o donna, fa si che gli uomini possano mostrare senza problemi i loro appetiti sessuali mentre le donne devono essere più di basso profilo, diciamo.
Che poi tutti mirino alla top model ci sta ma che poi questo sia realizzabile c'è ne passa parecchio e quindi se non sei ricco o vuoi sempre andare a escort devi scendere di pretese ed entrare in quella vasta zona grigia che è la terra di mezzo delle ragazze/donne carine o decenti e li il campo si allarga a dismisura e la selvaggina non manca, serve realismo però, ognuno deve guardarsi allo specchio e smettere di cantarsela da solo e guardare la realtà.

Non sono a digiuno di antropologia culturale, semplicemente mi rifiuto di ascoltare cazzate progressiste fatte passare per scienza a forza di propaganda CULturale (o di legge)! Una certa antropologia, in quanto figlia delle stronzate di Levi-Strauss, è un cumulo di menzogne psuedo-scientifiche e pseudo-egalitarie con la pretesa di distruggere la società europea (ed in effetti, con il femminismo e la teoria gender, ci sta già riuscendo). Sì, certo, le donne sarebbero delle ninfomani in incognito.... Ma quando mai! La natura vince sempre. Anche laddove gli uomini sono costretti ad apparire "casti" (come nel medioevo), emerge sempre loro malgrado il loro impulso (se ci fossero leggi ad impedire di trombare, noi violeremmo le leggi: e da sempre chi non riesce a trombare legalmente ricorre anche al delitto pur di appagare l'istinto, sia esso la violenza predatoria più o meno diretta o il latrocinio che permette di avere soldi da spendere con le gnocche). E così se le donne avessero i nostri stessi desideri, lo si vedrebbe! Se ne fregherebbero delle regole o le aggirerebbero (come hanno sempre fatto quando volevano). Soprattutto se la tirerebbero di meno perchè non potrebbero permettersi un "no" (come spesso non possiamo permettercelo noi per il bisogno sessuale che dobbiamo appagare). Se qualcosa le donne nascondono del loro desiderio è solo per calcolo: dimostrarsi disinteressate per essere ancora più inaccessibili ed avere così ancora più forza contrattuale. Lo fanno perchè lo possono fare. E lo possono fare perchè la disparità di desideri è a loro favore. E il desiderio si misura in ormoni, non in "grado di parità di genere"!

La biologia è una scienza. L'Etologia è una scienza. E le società, umane e animali, non possono prescindere dalla biologia (ma possono benissimo fottersene dell'antropologia culturale). Ed infatti dicono cose diverse. L'impulso sessuale è, alla pari della fame, della paura, dell'aggressività, un impulso fondamentale dell'essere vivente.
Se l'impulso sessuale fosse per natura (in intensità e modalità) uguale in maschi e femmine non ci sarebbe la selezione naturale nelle speci animali (che puoi osservare), non ci sarebbero i comportamenti differenziati per sesso molto evidenti nei mammiferi. Invece gli impulsi maschili e femminili sono opposti-complementari (alla faccia del femminismo). E noi siamo mammiferi maschi o mammiferi femmine prima che uomini e donne. Checchè ne dicano nelle vostre facoltà dove si racconta che "uomini e donne sono uguali e solo il cattivo maschilismo razzista li differenzia". Ci saranno pure costruzioni culturali nell'uomo e nella donna (che in Italia, peraltro, dallo stilnovo in poi, sono a favore della donna in questo ambito), ma sono costruite, ahimè, su un substrato biologico (altrimenti sarebbe davvero troppo facile distruggere il potere delle melanzane e lo zerbinismo degli uomini).
Ma le pensate davvero certe cose, voi signori professori di antropologia? Dovete chiedere un indennizzo all'Ateneo per gravi danni alla vostra salute mentale. Ma leggetevi la metafisica dell'amore sessuale di Schopenhauer, che anche se "solo" filosofia, almeno non dice cose smentite dall'osservazione disincantata della realtà. Oppure iniziate a studiare Konrad Lorenz, invece che pensare di poterlo confutare le sue osservazioni scientifiche dandogli del "nazista".

Secondo punto: continui a non capire. Io non mi lamento affatto che l'ultimo 10% di uomini non riesca ad accoppiarsi con il top 10% di donne. E' nell'ordine delle cose. Io mi lamento del fatto che anche essendo nel top 10%, molti 20-30 non trovano una compagna accettabile se non passando sotto le forche caudine di un corteggiamento in cui la "dama" di turno può permettersi di tutto (qualunque ferimento intimo, qualunque irrisione al disio, qualunque inflizione di patimento fisico o mentale), rischiando tirannie erotiche e sbranamenti economico sentimentali, accettando di recitare da giullari per farle divertire o da seduttori per compiacere la loro vanagloria senza avere nulla di certo in cambio. Altro che rapporto paritario.

E la faccenda non è personale: ho smesso da 20 anni di provarci e qui ci sono altri messeri che raccontano le mie stesse esperienze di quando ci provavo.

P.S.
E' la realtà che voi non guardate che è fatta di sperma, sangue e ormoni, e non di figure dello spirito hegeliane da plasmare in modo politically correct.

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