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Sei gradi di separazione (ovvero, dell'origine dei nick su questo forum)

Sono ovviamente d'accordo che la cultura sia fine a se stessa, non certo per piacere alla Gnocca, ma dal momento che uno ce l'ha la impiega anche per quella.

La distinzione tra classico e romantico è una distinzione fondamentale che va ben oltre le nozioni del liceo. Lì ad esempio non ti insegnano certo se bach è classico o romantico (la prima) o se lasker ha uno stile di gioco classico o romantico (la seconda).

- Che cazzo è quello?
- Ti sei risposto da sola.

INCONTRA DONNE VOGLIOSE
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“era uno dei modi per elevarmi spiritualmente e rendermi degno di lei.”

Titolo: Le donne salvano il mondo e quelli a cui non piace il presepe

L’origine del mondo, un un quadro di drammatica separazione

Se è vero che senza una donna in casa il pavimento si riempirebbe di mangime per avicunicolo, presto o tardi nella vita si inciampa in una donna che cambia le cose e convincendo la tigre a mettersi i calzini

Tuttavia tanta letteratura, sentimento ed interesse per il mondo sensibile se non indotti da una disfunzione ormonale, sono scatenati da un incontro che rimane insoddisfatto e maldestramente gestito

Nella maturità ci pensa un carattere più forte e pragmatico ad evitare la costruzione di un ricco presepe interiore in attesa che l’angelo annunci alla tipa che è arrivato il momento di concedere il grembo al divino destino

L’uomo sublima se stesso quando rinuncia alla fantasia del presepe (per quanto carino possa essere) passando sopra i sentimenti.

Amore e successo passano dalla negazione del sentimento

La donna avverte l’uomo forte e stabile quanto più distaccato e vago sia il suo sentimento, cosa che non può essere artificiale ma forgiata dal carattere

“Quante minchiate nel cervello di quell’uomo potrebbero portarlo a distruggere una relazione stabile e con figli nel momento in cui dovesse farsi scivolare negli occhi un’altra giù dritta nel cuore?”più o meno questa è la sintesi di una donna che rifiuta un corteggiamento romantico

Ringraziamo sempre le donne che ci rifiutano, ci danno l’occasione di fare quello per cui è costruito un uomo: lottare, allenarci alla lotta, rinforzare carattere e muscoli

L’oud, ascoltare il suono dell’oud per alcuni fa più del gelato per le donne che devono farsela passare

Allungando il testo con paragoni vintage anni 80, il Paul Atreides di Dune diventa leader assoluto quando dimostra alle donne di sopportare più di loro il dolore

Che sia una grande forza di volontà, un tenente hartman o una innata capacità, il distacco dall’unico grande grado di separazione dall’origine del mondo deve avvenire, il Natale deve passare e il presepe scomparire

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@FlautoMagico said:
Sono ovviamente d'accordo che la cultura sia fine a se stessa, non certo per piacere alla Gnocca, ma dal momento che uno ce l'ha la impiega anche per quella.

La distinzione tra classico e romantico è una distinzione fondamentale che va ben oltre le nozioni del liceo. Lì ad esempio non ti insegnano certo se bach è classico o romantico (la prima) o se lasker ha uno stile di gioco classico o romantico (la seconda).

Rispetto il vostro pensiero ma non lo condivido.

Medioevo-umanesimo-rinascimento-barocco-rococò-classico-romantico-decadente: è la catena con cui lo storicismo da cui è stata formata la scuola italiana (anche a livello di persone, se pensiamo che il De Sanctis ne è stato uno dei primi ministri) ha a sua volta formato generazioni di studenti. Il fatto che questi, diventati professori, registi, attori, scrittori, politici, finanzieri eccetera abbiano a loro volta riprodotto nelle loro opere questo schema mentale, tanto da farlo sembare una "distinzione fondamentale che va ben oltre" il liceo non lo rende "realtà effettuale". E' sempre "story telling", per usare un termine "alla moda". Con questo non lo critico: senza lo schematismo storicista, probabilmente gli studenti non ricorderebbero i tratti più significativi di arte e letteratura italiane ed europee, sarebbero in difficoltà nel riconoscere un autore dell'altro ed avrebbero in testa un "blog" di immagini, parole e suoni vagamente visto come "cultura" e concepito come qualcosa di noioso e lontano (in quanto imperscrutabile). Cosa che avviene, secondo quanto mi è stato raccontato, ad esempio nelle scuole anglosassoni, dove tutto viene studiato ad argomenti e non a periodi storici.

Riconosciuta "l'utilità", Dio ci guardi, però dal "danno" della "storia per la vita". Permettete un'altra citazione dal Nostro:

"Qualora le personalità si siano estinte nel modo sopra esposto fino all'eterna mancanza di soggetto, o, come si dice, all'oggettività, niente può più avere effetto su di loro; qualunque cosa succeda di buono e di giusto, come azione, come poesia, come musica, immediatamente lo svuotato uomo istruito volge via lo sguardo dall'opera e si informa sulla storia dell'autore. Se questi ha già prodotto parecchie opere, deve subito farsi spiegare il percorso fino a quel punto seguito e il presumibile percorso ulteriore del suo sviluppo, subito viene posto a confronto con altri, sezionato, squartato quanto alla scelta della sua materia, quanto alla sua trattazione, quindi giudiziosamente composto, tutto sommato ammonito e redarguito. Anche nel caso che succeda la cosa più strabiliante, sempre è sul posto lo stuolo dei neutrali storici, pronto a dominare con lo sguardo l'autore da molto lontano. Immediatamente risuona l'eco: ma sempre come «critica», mentre fino a poco prima il critico non se la sognava neppure la possibilità di quanto sta succedendo. Non si giunge da nessuna parte ad un effetto, ma sempre solo nuovamente ad una «critica»; e la stessa critica non origina di nuovo nessun effetto, ma compie di nuovo solo esperienza di critica. Ci si è intanto accordati di considerare molte critiche come azione efficace, poche o nessuna come fallimento. In fondo comunque, anche con una tale «azione efficace», tutto rimane nel vecchio modo: è vero che per un po' si spettegola di qualcosa di nuovo, poi ancora di qualcosa di nuovo, e frattanto si compie quel che si è sempre compiuto. "
(da: F. Nietzsche, "Sull'utlità e il danno dalla storia per la vita" - Considerazioni Inattuali)

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@Tesista76 said:
“era uno dei modi per elevarmi spiritualmente e rendermi degno di lei.”

Titolo: Le donne salvano il mondo e quelli a cui non piace il presepe

L’origine del mondo, un un quadro di drammatica separazione

Se è vero che senza una donna in casa il pavimento si riempirebbe di mangime per avicunicolo, presto o tardi nella vita si inciampa in una donna che cambia le cose e convincendo la tigre a mettersi i calzini

Tuttavia tanta letteratura, sentimento ed interesse per il mondo sensibile se non indotti da una disfunzione ormonale, sono scatenati da un incontro che rimane insoddisfatto e maldestramente gestito

Nella maturità ci pensa un carattere più forte e pragmatico ad evitare la costruzione di un ricco presepe interiore in attesa che l’angelo annunci alla tipa che è arrivato il momento di concedere il grembo al divino destino

Ma voi siete un genio!
Avete anticipato il senso dei capitoli successivi, ovvero il superamento della fase “sentimentale” in favore di quella “agonale”. Appunto, da Ficino a Nietzsche (fase che per me è durata una decina d’anni almeno).
E le vostre parole sono stupefacenti!
Riescono, con un simbolismo cristiano, a sintetizzare uno dei messaggi dell’autore dell’Anticristiano.
C’è un brano dello Zarathustra in cui l’amore romantico per le fanciulle angelicate, viste con gli occhi dell’anima rivolti al cielo, viene duramente criticato in quanto sterile in sé, incapace di generare oltre sé, e quindi contrario alla Vita (nel doppio significato di sua riproduzione e continua ascesa), per i motivi che avete ben espresso.
Leggendolo (dovrebbe essere un decennio oggi da quando lo lessi) capii quanto abbia gestito maldestramente non solo l’incontro insoddisfatto, ma pure il rimpianto per la rinuncia, che aveva generato “il ricco e inutile, anzi dannoso, presepe interiore”.

@Tesista76 said:

“Amore e successo passano dalla negazione del sentimento”.

Mai fu vero come nella nostra epoca, nella quale non solo la scienza ha definitivamente disvelato come quanto il volgo chiama amore altro non sia se non “l’inganno che la natura ha dato all’uomo per propagarne la specie”, ma la società stessa è organizzata come una grande Recanati (la chiamano, infatti, “villaggio globale”) nella quale “argomenti di riso e trastullo sono dottrina e saper” (leggi: bisogna raccontare balle e balle anche in ambito scientifico e finanziario per fare carriera e soldi), in cui fare carriera e soldi basandosi sull’amore-stupore per la verità (ciò in cui, ultimativamente, consisteva la scienza quando era davvero tale) o anche solo per un mestiere ben fatto (che non sia speculare in borsa) è pura utopia e in cui tanto il tempo e la concentrazione rubati dal “negotium” quanto l’arte letteraria, cinematografica e figurative ridotta a “marketing” hanno ucciso ogni possibilità di impiegare il proprio “otium” per coltivare un “giardino interiore” (a volte, anche solo per leggere un classico, per riflettere sul mondo al di là dello spread, delle polemiche, del femminismo).

@Tesista76 said:

“La donna avverte l’uomo forte e stabile quanto più distaccato e vago sia il suo sentimento, cosa che non può essere artificiale ma forgiata dal carattere”

Avete riassunto ancora una volta Nietzsche:
“L’intelletto delle donne si manifesta come perfetta padronanza, presenza di spirito, sfruttamento di tutti i vantaggi. Esse lo trasmettono come loro qualità fondamentale ai loro figli, e il padre vi aggiunge il fondo piú oscuro della volontà. L’influsso del padre determina per cosí dire il ritmo e l’armonia, secondo cui si svolgerà la musica della nuova vita; mentre la melodia di essa proviene dalla donna. – Detto per coloro che sanno trarre profitto da qualcosa: le donne hanno l’intelletto, gli uomini il sentimento e la passione. Ciò non è contraddetto dal fatto che gli uomini giungano in realtà tanto piú lontano con il loro intelletto: essi hanno gli impulsi piú profondi e piú forti; sono questi che portano cosí lontano il loro intelletto, che di per sé è qualcosa di passivo. Spesso le donne si meravigliano segretamente della grande venerazione che gli uomini tributano al loro sentimento. Se gli uomini, nella scelta della loro compagna, cercano soprattutto un essere profondo, pieno di sentimento, e le donne invece un essere intelligente, fornito di presenza di spirito e brillante, si vede in fondo chiaramente come l’uomo cerchi l’uomo idealizzato e la donna la donna idealizzata, ossia non l’integrazione, bensí il perfezionamento dei propri pregi.”

Schopenhauer era stato ancora più sintetico dell’affermare che
“per la donna, l’uomo è un mezzo il cui fine è il bambino”.

Forse è sempre stato così, al di là del turbocapitalismo, del socialismo, del femminismo. Forse, al di là della retorica (a turni alterni, mia e loro), lo stesso (vituperato) “patriarcato” è stato solo il modo provvisorio in cui le donne hanno usato gli uomini come padri. Ed hanno tratto da loro quella durezza, quella “sana barbaria”, quel potere della morte che, forse, non erano innate all’animo maschile, ma che esse stesse hanno impiantato in noi avendone bisogno per “accrescere la vita” nel contesto storico (non dimentichiamo che lo stesso Nietzsche, orfano di padre, è stato educato esclusivamente da donne).

Certo,

@Tesista76 said:

“L’uomo sublima se stesso quando rinuncia alla fantasia del presepe (per quanto carino possa essere) passando sopra i sentimenti.”

Nella tragedia, la parola “sublime”, letta dall’altra parte (dalla parte pragmatica della donna, opposta a quella sentimentale dell'uomo) è sinonimo di “sacrificio”, “uccisione”, “morte”. Sublime, per definizione, è il sacrificio dell’eroe che morendo vive o fa vivere qualcuno o qualcosa oltre sé.
Ringraziamole pure con gli occhi e le parole di Nietzsche, perché “se qualcosa non ci uccide, ci rafforza”. Ma se, per un attimo, torniamo a guardare le cose con gli occhi di Ficino e le parole del neoplatonismo, ci accorgiamo che l’ipotesi non è verificata. Siamo stati uccisi.
Quello che le donne uccidono in noi (da subito, nell’atto stesso in cui richiedono un corteggiamento non romantico ma nichilisticamente moderno o settecentescamente cicisbeo) è il senso del vivere, l’autenticità, il chiamare le cose con il loro nome, in una parola, l’anima. Non uccidono un presepe (cioè un mondo apparente della rappresentazione), bensì il mondo vero.
Riprendendo le mie parole, per quel “microcosmo che è il mondo” (e che, in accordo al vostro titolo, hanno la mirabolante e messianica pretesa di salvare), uccidono quindi quel “macrocosmo che è l’uomo”.
E quello che rimane è appunto un mondo apparente di “ruoli”, “lavori”, “cultura” (quella fra virgolette), “idee politiche” (ora neanche quelle), “partiti”, “soldi” (la rappresentazione per eccellenza). Potete tenere la radio accesa per un giorno, non una sola parola risuonerà le verità dell’anima che da fanciulli ci parevano pure così evidenti. E la bellezza, la verità, la conoscenza, ridotte a idee moderne (vale a dire idee false).

Fingiamo pure che “il presepe” sia pura rappresentazione da superare. Fingiamo pure di non essere stati feriti a morte. Fingiamo pure che in ogni caso valesse la pena “sublimarsi”. Dopo aver già finto che le idee siano solo idee, che Platone abbia solo raccontato favole, che dio e l’uomo siano solo racconti per bambini, che Plotino abbia sbagliato tutto sul cosmo e Ficino abbia sproloquiato sull’immanenza. Possiamo però fingere di essere ancora “utili”, nel senso di quel fine, per il quale solo, le donne ci hanno amati?
Lasciamo pure stare la riproduzione artificiale ed il mondo di sole donne (che possono essere propaganda scandinava), lasciamo pure stare l’evoluzione tecnologica che, a detta di talune, renderebbe inutile l’uomo, i suoi muscoli ed il suo carattere (può essere solo ignoranza del mondo scientifico reale e dell’etologia), lasciamo pure stare la mitologia della pace perpetua, che per le femministe implicherebbe la “fine del maschio” (può essere solo menzogna messianica).
Non mi interessa sapere se sia vero o falso, dato che falso in partenza è il mondo in base a cui oggi si definisce l’idea di utile. Mi interessa che ogni notizia, ogni nuova idea, ogni nuovo film, ogni nuova pubblicità, ogni nuova legge, grida a noi “siete inutili”. E le donne che non lo credono sono convinte a pensarlo. Quelle che non lo pensano saranno costrette a scegliere come se lo pensassero.
Quello stesso capitalismo in cui dovrebbe materialmente avvenire il mio sacrificio, il mio annullarmi, il mio sublimarmi in nome dell’utile per la donna e per il suo cavolo di mondo da salvare, mi dice fin da piccolo che sono inutile, anzi dannoso.
Ci viene chiesto, oggi di sacrificarci, come i guerrieri di ieri, ma con la novità di scoprire inutile il sacrificio. Guerriero forse, coglione mai.

@Tesista76 said:

“Quante minchiate nel cervello di quell’uomo potrebbero portarlo a distruggere una relazione stabile e con figli nel momento in cui dovesse farsi scivolare negli occhi un’altra giù dritta nel cuore?”

Bene fino a cinquant’anni fa, ma oggi un minchione di giudice potrebbe distruggere in cinque minuti la vita di un uomo (e la serenità dei figli) solo perché l’ex-moglie si è lasciata scivolare nel cuore (o “più in basso, molto più in basso”, come direbbe Napoleone nelle lettere a Giuseppina) un altro (o addirittura un’altra!). Ridurlo, nel solo tempo necessario ad emettere una sentenza, per una qualsiasi minchiata vera, presunta o inventata, ad esule ottocentesco privato di “famiglia, casa, roba”. E con il coro tragico delle femministe a parlare di “violenza” se qualcuno non sa sopportare in silenzio l’esproprio, l’ingiustizia, la sopraffazione giudiziarie, psicologica e socioeconomica.
Ecco perché i gradi di separazione non si fermeranno al prossimo. Con Nietzsche, ma oltre Nietzsche. Come egli stesso ci ha insegnato.

Certo,

@Tesista76 said:
“Ringraziamo sempre le donne che ci rifiutano, ci danno l’occasione di fare quello per cui è costruito un uomo: lottare, allenarci alla lotta, rinforzare carattere e muscoli”

O, meglio, le abbiamo ringraziate fino a quando è valsa la massima nietzscheana

““L’uomo deve essere educato alla guerra e la donna al riposo del guerriero: tutto il resto è stoltezza””.

Se le donne, come appare oggi con ogni evidenza materiale e morale, non sono più disposte a confortare il guerriero, ma anzi, vestendo da amazzoni, gli dichiarano addirittura guerra (e quelle che non agiscono così sono spinte a farlo dalla società femminista e dalle sue menzogne), perché noi dovremmo ancora accettare del guerriero i sacrifici? E in nome e negli interessi delle donne per giunta!?
E si potrebbe continuare, con le pretese delle donne di mantenere gli antichi privilegi (corteggiamento, galanteria, recite, mantenimento) assieme ai moderni diritti, con le richieste a noi di essere padri senza darci del padre le prerogative (vedi aborto, matrimonio matriarcale) eccetera eccetera
E anche volendo, è possibile lottare? Lottare culturalmente non è possibile perché qualunque contestazione al pensiero unico è “ignoranza”, “complottismo”, “analfabetismo funzionale”. Lottare economicamente non è possibile perché “è inevitabile che la globalizzazione sposti benessere dai ceti medi europei ai neoricchi asiatici e ai miliardari senza patria”. Lottare politicamente non è possibile perché “c’è lo spread” e “non si può spaccare l’Europa” o “fermare il progresso”. Lottare intellettualmente non è possibile perché “lo studio non conta se non ti fa far soldi” o perché se non concordi con l’egalitarismo sei accusato di “discriminazione”. Lottare militarmente non è possibile perché “loro hanno l’atomica”. O ce la fa l’Islam radicale (che, nota sempre il nostro “ha dei maschi per presupposto”), oppure ognuno dovrà pensare a sé.
L’unica forma di lotta rimasta è quella esistenziale. O se volete anche virtuale. Restare fanciulli per mantenere la “totipotenza”, la potenza più che guerriera di creare e distruggere mondi e tavole di valori. Non diventare completamente uomini (non diventare completamente definiti, e quindi "stabili") per non essere completamente spazzati via in nome del “sublime sacrificio” che assomiglia tanto a quello del fuco.

Se saremo ancora guerrieri, non sarà per combattere altri uomini, non per “salvare il mondo” da un nemico che nella storia ci hanno fatto vedere nel barbaro, nell’infedele, nel nemico di classe, nel banchiere ebreo, nel terrorista islamico, insomma, sempre in altri uomini. Sarà per combattere questa assurdità di mondo (che, per te, “deve” essere salvato dalle donne, ma per me può benissimo perire, anzi, "bisognerà aiutare a farlo").
Dovrò passare sopra alle donne, ai loro bambini, al loro mondo da salvare? Alla malora!

Siamo poi sicuri che il mondo per cui i veri guerrieri combattevano, il mondo che leggiamo in Omero ed in Virgilio, il mondo del nobile, del grande, dell’eroico che piaceva al Leopardi, il mondo insomma delle “cose necessarie, universali, perpetue”, sia il mondo delle donne e dei loro pargoli? Dell’uomo stabile e borghese? Della station wagon con figli?

E poi io stesso sono stanco di lottare non solo contro l’assurdo, ma pure dentro l’assurdo. Il poeta che più di tutti non ha fatto “passare il Natale” e “sparire il presepe” è stato Torquato Tasso. Nessuno più di lui ha saputo cantare la profondità dell’animo maschile, il chiaroscuro di ogni suo sentimento, la malinconia del suo rimpianto, la dolcezza anche nel dolore, il sospiro dell’eterno nella bellezza morente. Nessuna opera più della Gerusalemme Liberata ci canta il dramma del nostro genere in quella guerra sessuale che è sempre stata la civiltà occidentale. E lo fa, ovviamente, attraverso i personaggi femminili, Erminia e Clorinda. Il protagonista maschile Tancredi, difatti, è “rapito dal dovere”, deve conformarsi alla dura legge del “vero storico”, e non può permettersi sentimenti. Non può dunque parlare di quello che siamo prima, per dirla con le vostre parole, “che il Natale passi”. Può però ben rappresentare la donna in quanto tale: si presenta a noi (gli “infedeli”) con un esercito schierato a battaglia (terribile come appunto la bellezza “non compensabile” con altre armi), fa innamorare Erminia (e cioè noi) al primo sguardo (e solo perché gentilezze e sorrisi avevano in precedenza accompagnato la di lei prigionia), nell’economia della trama è destinato a vincere (d’altronde, come tu dici, il “mondo deve essere salvato dalle donne”). Ed è pure femminista, dato che contro di noi sta muovendo una crociata. Noi, come uomini (quindi non ancora come seduttori), siamo due personaggi in uno: siamo la timida Erminia, troppo desiderosa della bellezza di Tancredi per potersi rivelare senza timore, troppo devota nel suo amore incondizionato per potersi offrire senza essere distrutta, troppo profondamente permeata di sentimento per trovare le parole o anche solo per capire cosa sta provando, troppo chiusa insomma nel suo mondo interiore (tu diresti, il presepe), ma siamo anche la guerriera Clorinda, che sa di poter essere rispettata e amata solo ponendosi su un piano di parità nella lotta (e per questo è abile con la lancia come un uomo lo deve essere nella dialettica per tener testa alle donne, è lucida e pungente con la spada come noi lo dobbiamo essere con la ragione e la parola quando incontriamo la nostra controparte femminile), vive fra le armi (come noi costretti a vivere nel mondo esterno del “negotium”) ed è anzi sempre la prima a dare battaglia (ciò a cui siamo costretti noi nel corteggiamento). Sia quando Erminia si traveste da Clorinda per correre da Tancredi (e rischia di venire uccisa per sbaglio), sia quando Clorinda viene inconsapevolmente ferita a morte da Tancredi stesso (che, al pari della donna, è “innocente” perché non sa, e piange quando è troppo tardi), siamo sempre anime che si trovano in ruoli e armature sbagliate. E tutto perché? Perché la nostra controparte (che oggi crede pure di essere “la parte migliore dell’umanità”) non ha alcuna intenzione di rinunciare ad una sola delle prerogative di chi è stato “messo da dio” dalla “parte dei buoni”. Non rinuncerà mai ad imporre le recite e i patimenti della “corte” anche a chi ha visto benissimo avere tutte le qualità di sentimento o intelletto per tutti i tipi di possibile rapporto. Non rinuncerà mai, né nel primo fugace incontro, né durante o dopo una lunga unione matrimoniale, ad imporre il proprio interesse, materiale e morale, al di sopra di qualunque concetto di umanità, con l’argomento che “altrimenti il mondo non andrebbe avanti”. Questo Torquato Tasso ci ha raccontato simbolicamente, altro che “la crociata contro gli infedeli”. Il “mondo salvato dalle donne” lo ha ringraziato rinchiudendolo in manicomio.
Ancora più pazzo di allora è il mondo di oggi. Io sono sempre stato Erminia. Perché devo continuare a lottare dentro l’armatura di Clorinda mentre combatto come un uomo contro una turba di amazzoni?
E con il coro che mi accusa di lottare per valori sbagliati, quando sono gli stessi che le donne mi hanno imposto e che ora usano come motivo di guerra?
Viene voglia di mollare a terra elmo e corazza. E mostrare la nuda verità.

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INTERMEZZO E ANTICIPAZIONI (PAGINE DI META’ VOLUME CON ILLUSTRAZIONI)

Siamo arrivati a metà circa di questa specie di romanzo a puntate nato per spiegare il mio nick. Come a metà di ogni libro, non saranno inappropriate alcune illustrazioni.

Scelgo qui, dalla Gerusalemme Liberata, quei due personaggi femminili che, nella discussione appena avuta, rappresentano per me i due volti dell’interiorità maschile non solo del Tasso, ma di qualunque giovane maschio debba preservare la propria sensibilità, la propria ingenua capacità di stupirsi e di amare, la propria sincerità di affetti in un mondo in cui la società e le donne lo pretendono invece tetragono (ai colpi della sventura come a quelli della perfidia), freddamente intelligente, ed impenetrabilmente “guerriero”.

Non posso non partire da Erminia, vera e propria trasposizione letteraria del poeta che ha conosciuto l’amore infelice per la sorella di Alfonso II d’Este, immagine e quasi simbolo del fanciullo interiore in cui ciascuno di noi si è trasformato almeno una volta nella vita nel momento in cui è stato attratto, con la rapidità del fulmine e l’intensità del tuono, dalla bellezza (o, per meglio dire, da quell’insieme di grazia, leggiadria, mondanità, attesa ingenua della vita e gioia innocente che persino le fanciulle per cui non proviamo interesse sanno, come rileva quel memorabile brano dello Zibaldone, suscitare) e ha sentito di non avere ancora alcuna arma sotto mano per contrapporsi, bilanciare, attirare a sua volta.

Mi è sempre sembrata molto più maschile che femminile questa figura di amante ignorato, preso dalle sue fantasticherie e infelice. Se non altro perché fin da giovanissime le femmine non sono senz’armi, avendo appunto la bellezza (quando questa manca supplisce l’illusione generata dal nostro desiderio) e mille altri trucchi (per lo più derivanti, o dalle disparità psicologiche correlate alla predisposizione materna a comunicare anche senza parlare, a plasmare un’anima quando è ancora “verde come fogliolina pur mo’ nata” e quindi a capire in anticipo i bisogni, le paure e i punti deboli per “manipolare”, o dalla convenzione sociale e naturale che impone pressoché soltanto al maschio l’ingrato, periglioso, faticoso e doloroso compito di uscire allo scoperto, senza certezze, senza orientamento, senza scudi e senza armatura, nelle faccende erotico-sentimentali dell’ars amandi in tutto e per tutto assimilabile a quella bellica) per farsi notare (e quindi apprezzare).

Quando miriamo le grazie dei una fanciulla, la idealizziamo, la accostiamo alla “intatta luna”, a quell’alone di luce diffusa che ammanta ogni cosa lontana di una vaghezza sconosciuta alle cose vicine (perché “in luogo degli occhi del corpo vedono gli occhi dell’immaginazione”), a quell’aurea di idealità armoniosa e beata che rende le cose sognate infinitamente superiori alle cose reali (proprio perché non ancora dissolte dal contatto col reale come avveniva nel castello di Atlante), a quella stessa luna sul cui lato oscuro, come insegnava l’Ariosto, finiscono tutte le cose perse sulla terra (dalle promesse non mantenuta al tempo dissipato dai fannulloni, dai sospiri degli amanti al senno di Orlando) e quindi ci predisponiamo a mutare le nostre debolezze erotiche in altrettante debolezze sentimentali, ma al contempo sappiamo come difficile sia poter trovare in noi qualcosa di altrettanto immediatamente evidente ed intersoggettivamente valido con cui far sembrare gradito e non molesto il primo dialogo con la portatrice di bellezza, come raro sia, anche procurata l’occasione, trovare le parole e i modi per rendere sensibili all’udito e all’anima eventuali doti di sentimento o intelletto potenzialmente apprezzabili dall’interlocutrice, come quasi impossibile risulti, anche nella rara occasione di colloquio solus ad solam, comunicare un desiderio, un apprezzamento, un flusso di sentimenti, che non si confondano con la brutalità, la banalità, la finzione, siamo davvero come Erminia sulle mura di Gerusalemme quando non ha che gli occhi lucidi, le mute labbra e il sospiro rotto per esprimere l’amore verso Tancredi (che ha la possibilità di combattere ed è universalmente ammirato).

Il re dei Saraceni chiede ad Erminia (che aveva conosciuto Tancredi assieme agli altri cavalieri cristiani durante un periodo di prigionia dorata) chi sia quel cavaliere così feroce in viso e abile nelle armi. Ed ella sulle prime non riesce neanche a rispondere, vinta dall’emozione, dal rossore e dalla voce rotta dal pianto e dal sospiro (impiegherà un po’ per dissimulare l’indifferenza e l’odio richiesti dal suo ruolo di nemica dei cristiani):

“Chi è dunque costui, che così bene
s’adatta in giostra, e fero in vista è tanto? –
A quella, in vece di risposta, viene
su le labra un sospir, su gli occhi il pianto.
Pur gli spirti e le lagrime ritiene,
ma non così che lor non mostri alquanto:
ché gli occhi pregni un bel purpureo giro
tinse, e roco spuntò mezzo il sospiro.”

Raramente ho visto in una donna una reazione simile al solo vedere un uomo da cui un tempo ha ricevuto soltanto un sorriso e qualche gentilezza. E’ la natura stessa a difenderla da questo genere di debolezza erotico-sentimentale (poiché suo è il privilegiato ruolo di selezionatrice di vita che le permette almeno in principio di attirare senza essere attirata e la pone piuttosto sul freddo piedistallo “turandottiano” di “gelo che ti dà foco e dal tuo foco più gelo prende”). Poiché il suo istinto è sentirsi bella e disiata per poter attirare tutti e selezionare fra tutti colui che eccelle nelle doti volute (in quanto qualificanti la specie) non potrà quasi mai sentirsi rapita (come noi) al primo sguardo (ché se i desideri fossero uguali fra i sessi non vi sarebbe la selezione sessuale), ma semmai, essere soltanto poi “incantata” dal suono della parole, dal significato della azioni, dalle prospettive di vita, quando già ha avuto modo di mettere alla prova, sondare, valutare. Prima che ciò possa anche solo essere immaginato, una bella ragazza resta inizialmente molto più simile, con il suo viso truccato ed il suo abbigliamento leggiadro alla moda ovvero sessualmente “aggressivo”, al Tancredi così abile nella mondana giostra delle armi e feroce nel viso. Tante volte invece, davanti alle grazie di una fanciulla o alle bellezze di una donna, io mi sono sentito Erminia, anche e soprattutto quando, conscio dell’incomunicabilità o comunque della difficoltà di risultare credibile come cavaliere, dell’irrealtà insomma di certe situazioni giovanili, volevo convincere me stesso di non essere interessato ed esteriormente mi comportavo di conseguenza.
Erminia è invece tanto innamorata da tentare l’irreale. Prende le armi di Clorinda e, così travestita, esce dalle mura sorvegliate per andare in cerca di Tancredi.

“ Era la notte, e ’l suo stellato velo
chiaro spiegava e senza nube alcuna
e già spargea rai luminosi e gelo
di vive perle la sorgente luna.
L’innamorata donna iva co ’l cielo
le sue fiamme sfogando ad una ad una,
e secretari del suo amore antico
fea i muti campi e quel silenzio amico. “

Perfetta è la consonanza fra il paesaggio lunare in cui la fanciulla si aggira e la passione silenziosa della sua anima. Ma è davvero un’anima femminile? Una volta, in intimo colloquio virtuale con quel personaggio femminile per antonomasia che occuperà l’ultimo capitolo di questo strano romanzo, accostai questa ottava del Tasso a quella parte del “Trovatore” in cui avevo sempre immaginato di farmi io stesso “musica al vento” per raggiungere la donna in una forma di bellezza finalmente in grado di essere udita: “Tacea la notte placida / E bella in ciel sereno /La luna il viso argenteo /Mostrava lieto e pieno ... /Quando suonar per l'aere, /Infino allor sì muto, ... /Dolci s'udiro e flebili /Gli accordi d'un liuto, /E versi melanconici /Un Trovator cantò. “

Non nascondo, infatti, che quelle stesse stelle dell’Orsa a cui il Leopardi confidava i propri teneri sensi e i propri tristi e cari moti del cor, quella stessa luna davanti alla quale si interrogava solitario sul senso del cosmo e sull’infelicità umana prima ancora di vedervi l’ideale della donna irraggiungibile, quello stesso cielo notturno e muto, insomma in cui risuonavano i chiaroscuri del cuore, avevano in me mantenuto il senso del luogo non solo letterario in cui avrei potuto finalmente comunicare con l’amata, una volta superate le incomunicabilità, le difficoltà contingenti, le convenzioni ostili e le barriere sociali: “Versi di prece ed umile, / Qual d'uom che prega Iddio; / In quella ripeteasi / Un nome ... il nome mio! / Corsi al veron sollecita … / Egli era, egli era desso! ... / Gioia provai che agl' angeli /Solo è provar concesso! ... /Al core, al guardo estatico, /La terra un ciel sembrò! “

Prima ancora che potessi confidare alla mia amica che al di là del denaro, delle escort (anche nel pay scambierei volentieri un'intera nottata di sesso pornografico con qualche ora di passeggiata alla luce della luna, immersi nel silenzio in cui solo la musicalità delle parole scelte, la dolcezza dei dialoghi sinceri e la profondità degli echi suscitati nell'anima dai racconti possono risuonare eroticamente) e della savana (questo termine diventerà familiare al lettore nell’ultima capitolo, quasi come sinonimo del mondo pay ed indipay) la cosa cui avrei aspirato era proprio suscitare con la bellezza non corporale e non mortale della poesia un simile amore corrisposto in colei che mi avesse fatto invaghire con la bellezza corporale e mortale del corpo, ella esclamò, con innocentissima crudezza: “come erano facili le ragazze in queste opere ottocentesche! La danno via solo per una serenata?”. Ovvio che ella intendesse come comportamento meno facile il verificare solidità economico-finanziarie, oltreché psichiche, la stronzaggine insomma del continuare (per effettivo interesse economico-sentimentale o per gratuito sfoggio di preminenza erotica) a negarsi solo per vedere fino a che punto un uomo è disposto ad offrire e soffrire. Ovvio che una eventuale compagna che usi questo tipo di criterio non abbia nulla a che spartire con la Leonora verdiana ("Di tale amor, che dirsi / Mal può dalla parola, /D'amor, che intendo io sola. / Il cor s'inebriò! / Il mio destino compiersi /Non può che a lui dappresso ... /S'io non vivrò per esso, /Per esso morirò!"), né tantomeno con la purezza fanciullesca dell’Ermina del Tasso. Del resto, la mia amica non aveva motivo di mentire. Non aveva motivo di ritenere tutti gli uomini indegni d’affetto e di stima avendo conosciuto prima il suo principe poi il suo cantore. Eppure ha detto quanto, semplicemente, ho poi sempre riscontrato nelle donne come genere. Non è un problema di comunicazione. Non è un problema di barriere sociali o di convenzioni. Non è neanche un problema di fortuna nell’incontrare o no una fanciulla più o meno sensibile. Semplicemente, l’animo di Erminia non potrà quasi mai risiedere in una donna. L’impulso femminile alla selezione per “il bene della specie” è radicalmente antitetico alla poesia, anzi è radicalmente antitetico, come ha ammesso il buon @Tesista76, al sentimento in generale.

L’animo femminile è impoetico sotto il doppio profilo dell’assenza di “Pietas” per chi non emerge nella lotta e della mancanza di senso estetico nella scelta. Noi siamo abbastanza sinceri nell’ammettere che miriamo prima di tutto la bellezza e non ci innamoreremo mai di uno scorfano (che, per dirla con “Rimini Rimini”, buttiamo anche quando peschiamo). Le donne invece, raccontando di non guardare troppo alla bellezza “esteriore”, danno l’illusione di essere le prime ammiratrici di una specie di bellezza “interiore”. La realtà è che, al contrario, mentre noi, come da dottrina neoplatonica, partiamo dalla bellezza del corpo per amare poi quella dell’anima (detta brutalmente, anche una qualunque “normale” anima umana, se guardata con l’attenzione di chi è perdutamente infatuato dalle grazie della fanciulla che la anima, risulta interessante e amorevole) esse ignorano la bellezza tout court, e preferiscono la “praticità” di quelle doti (le chiamano “carisma”, “facilità di rapporti”, “mascolinità”) che permettono di primeggiare socialmente e di portare loro doni costosi, vita agiata e “protezione” (anche quando non ne hanno bisogno). Quanto alla mancanza di “Pietas” (che non va intesa con la parola pietà falsificata dal cristianesimo in senso appunto pietista-umanitario verso chiunque – e quindi, in fondo, verso nessuno - al contrario molto presente fra le donne), basti pensare a come oggi considerino parimenti “diritti” tanto lo stronzeggiare sui coetanei che non hanno armi da contrapporre alla bellezza quanto l’accogliere tutti i migranti del mondo (con l’ovvia conseguenza di una società con nessuna barriera all’ingresso e ostacoli insormontabili nella conquista di ogni donna, l’esatto opposto di quanto sarebbe umanamente auspicabile per i concittadini maschi, ovvero tanta selezione all’ingresso del proprio “club sociale” in modo da ridurre la concorrenza, disciplinarla con criteri oggettivi e noti a priori – auspicabilmente pure meritocratici - ed abbattere quella specie di “onnipotenza” data ad ogni donna dalla possibilità di selezionare per arbitrio, capriccio e crudeltà o comunque con criteri soggettivi ed inconoscibili a priori per gli esaminandi). Loro chiamano giustizia, anzi natura, la società egalitaria che non permette a noi il bilanciamento di desiderabilità e potere, si compiacciono che i “deboli” (in senso erotico-sentimentale) siano sbranati o periscano di fame (amorosamente parlando, ma per certe escort e certe mogli anche in senso letterale) e concepiscono come “normali” le pene amorose a senso unico. E il fatto che la mia amica, oltre che la modella, avesse fatto anche la escort non la rende meno rappresentativa del genere femminile, anzi. Non ho mai incontrato nessuna “non-escort” che con i fatti (o anche solo con qualche battuta rivelatrice) sia mai stata in grado di smentirla.

Meglio tornare ad Erminia, la quale, quando avvista le tende nemiche, si sente come a casa. Nemmeno la consapevolezza di stare per tradire la propria gente (vita “rea”) e i dubbi su quanto sia davvero conveniente o anche solo possibile arrivare ad essere accettata da Tancredi e vivere con lui in un mondo avverso (vita “combattuta”) possono offuscare la gioia data dal semplice avvicinarsi all’amato (ed è per quello che le tende latina, cioè cristiane e quindi nemiche, sono belle agli occhi suoi). Nella speranza che il Cielo abbia la compassione di trattare umanamente chi per amore si macchi di una qualche colpa, il dialogo interiore di Erminia si conclude con l’apparente contraddizione esistenziale del poter trovar la vera pace in mezzo alla guerra:

Poi rimirando il campo ella dicea:
"O belle a gli occhi miei tende latine!
Aura spira da voi che mi ricrea
e mi conforta pur che m’avicine;
cosí a mia vita combattuta e rea
qualche onesto riposo il Ciel destine,
come in voi solo il cerco, e solo parmi
che trovar pace io possa in mezzo a l’armi.

L’ingenuità delle speranze di Ermina si dissolve ovviamente al contatto con la realtà della guerra. Viene infatti davvero scambiata per Clorinda e, inseguita da chi vuole vendicare la morte del padre ucciso dall’eroina, è costretta a fuggire. Lo spavento scaccia per un attimo ogni speranza d’amore e fa riaffiorare il rimorso per aver scelto di tradire la patria “pagana”. La fanciulla, dopo aver corso disperatamente in mezzo alla selva per sfuggire ai suoi inseguitori, scoppia in lacrime e, vinta dalla stanchezza, si addormenta
Questa non può che essere la sorte di chiunque, per sincera attrazione verso una donna, si abbassi a recitare da seduttore per compiacere la sua vanagloria, da giullare per farla divertire (magari lasciandosi irridere nel disio), o comunque a dissimulare il proprio desiderio (per non apparire “debole” nella contrattazione” e “uguale” agli altri uomini) e a simulare doti non realmente possedute (sicurezza d’animo, capacità di leadership, spirito mondano, gusto modaiolo, ironia ariostesca e quant’altro, oltre che ovviamente ricchezza, potere e prestigio sociale a vari livelli).
Ammetto che io praticamente mai ho avuto l’avventatezza di fingermi “figo”, di recitare da conquistatore di donzelle, di simulare e dissimulare qualità “sociali” e individuali, ma tutte le volte nelle quali ho fatto qualcosa di anche solo vagamente simile per corteggiare ho avuto le amare lacrime come unico risultato e un dolce paesaggio come contorno. Ma, come ho già detto riprendendo Brecht, anche la notte più lunga eterna non è (nemmeno quella di Erminia).

Non si destò fin che garrir gli augelli
non sentí lieti e salutar gli albori,
e mormorar il fiume e gli arboscelli,
e con l’onda scherzar l’aura e co i fiori.
Apre i languidi lumi e guarda quelli
alberghi solitari de’ pastori,
e parle voce udir tra l’acqua e i rami
ch’a i sospiri ed al pianto la richiami.

Erminia viene soccorsa e consolata da un vecchio pastore, che le racconta una storia ancora più triste e infelice della sua. Ella sparisce per un po’ dalla trama, per comparire durante il duello di Tancredi con Argante. Si trova lì perché ha seguito una spia cristiana (anziché denunciarla) con il preciso scopo di ritentare la sorte, questa volta con più fortuna. Al contrario di tutti gli altri “spettatori” che sono innanzitutto ammirati dalle arti belliche dei due avversari, ella è soltanto preoccupata per il suo amato. Ecco perché, appena possibile, esce in cerca del luogo dove i due sono probabilmente arrivati alla fase mortale dello scontro. Trova prima il cadavere del saraceno e solo dopo, richiamata casualmente da una voce che non può non riconoscere, Tancredi esanime. Con due sol versi il Tasso sa dipingere tanto l’attrazione per quella “faccia scolorita e bella” quanto la concitazione innamorata del soccorso, sottolineata da due negazioni (“non scese no”) prima del verbo quasi visivamente rapido (“precipitò di sella”)

“A riguardar sovra il guerrier feroce
la male aventurosa era fermata,
quando dal suon de la dolente voce
per lo mezzo del cor fu saettata.
Al nome di Tancredi ella veloce
accorse in guisa d'ebra e forsennata.
Vista la faccia scolorita e bella,
non scese no, precipitò di sella;”

Erminia-Guercino.jpg

Nel quadro che qui riporto del Guercino, sembra scendere dall’alto sull’eroe come un angelo (bellissima poi a destra la caratterizzazione della spia Vafrino travestito da saraceno). Non si può non vedere, in questa fretta di soccorrere, l’atteggiamento di ogni “cavaliere” anche moderno che, prima ancora di conoscere come ciò possa confondersi con l’attuale “zerbinismo”, conosce la subitanea voglia di rispondere al telefono quando pensiamo sia “lei”, di precipitarsi senza riflettere ovunque ella sia (pensando di essere richiesti o addirittura indispensabili), di non misurare quanto ci costi, in termini di tempo, fatiche, irrisioni e possibili umiliazioni e ferite emotive perpetue, il nostro “soccorso”.

Vede che 'l mal da la stanchezza nasce
e da gli umori in troppa copia sparti.
Ma non ha fuor ch'un velo onde gli fasce
le sue ferite, in sì solinghe parti.
Amor le trova inusitate fasce,
e di pietà le insegna insolite arti:
l'asciugò con le chiome e rilegolle
pur con le chiome che troncar si volle,

Erminia, semplicemente, vede come il male di Tancredi risieda nell’eccessiva perdita di sangue e non esita a troncarsi le chiome per usarle come insolita fasciatura. E questa è l’immagine con cui voglio consegnare Ermina al vostro ricordo, così come è dipinta da Nicolas Poussin nell’opera “Tancredi ed Erminia” custodita all’Hermitage.

Nicolas_Poussin_080.jpg

E’ anche una delle ultime volte in cui la vediamo nella trama. Il suo ultimo desiderio che vuol mostrare al lettore è quello di trarre almeno qualche bacio dalla bocca dell’ignaro amato. Il miracolo riesce e Tancredi si riprende, ma è tanto debole da non capire. Per lui Erminia rimarrà per sempre una sconosciuta. Come sconosciute, per me, sono in fondo rimaste tutte le donne (evidentemente ancora meno sveglie di Tancredi, o semplicemente non abbastanza interessate) a cui ho avuto l’ardire di dedicare versi, lettere, o, per dirla con D’Annunzio, “colloqui, sogni e taciti pensieri” (non preoccupatevi, nel prossimo “grado di separazione” saranno tutte comunque raccontate).

Per quanto riguarda Clorinda, la storia è più breve. Non è certo la prima donna guerriera della letteratura (basterebbe ricordarsi della vergine Camilla in Virgilio). E’ però la prima che, oltre alle armi, sappia portare anche un’interiorità. E per questo merita di essere comunque accostata ad Erminia.
Fin dal momento in cui venne abbandonata fra le tigri, Clorinda ha imparato a non sentirsi mai indifesa rispetto ai pericoli esterni e per questo ha rifiutato ogni versione “passiva” della femminilità. Fin da piccola si veste e si comporta da maschiaccio. Da donna, diviene una professionista della guerra. E’ l’emblema non tanto della “donna moderna” (chè davvero tutte queste guerriere mascoline non si vedono in giro), bensì dell’uomo di tutti i tempi costretto a “passare sopra al sentimento”, a “cancellare il proprio presepe interiore” (per usare due efficaci espressioni di @Tesista76) al fine di giungere all’amore e al successo, di “sublimare se stesso” nella rinuncia alla propria interiorità profonda e delicata (“femminile” nella semplificazione “sessista”) in favore di quel “piccolo mondo” esterno in cui primeggiare è indispensabile per avere l’attenzione, la credibilità e l’interesse dell’altro sesso (il quale, più vicino com’è agli interessi della specie piuttosto che a quelli dell’individuo, vede soltanto nelle qualità conferenti primato o prestigio sociale l’attrattiva sessuale, legata com’è quest’ultima a livello istintuale, inconscio, alla necessità di selezionare la vita e di garantire sicurezza e benessere alla futura prole)
Difatti, anche Clorinda ottiene con il suo combattere prima ancora che con la sua bellezza nascosta l’ammirazione di tutti (amici e nemici) compreso Tancredi. E’ proprio per potersi battere contro un avversario tanto bravo (creduto uomo) che l’eroe cristiano la insegue. In questa scena solo apparentemente surreale (Tancredi arriva a dispiacersi non ci siano “spettatori” ad una lotta che si preannuncia memorabile ed a chiedere di “dichiararsi reciprocamente le generalità” affinché, comunque vada il duello, il sopravvissuto possa ricordare al mondo il valore del caduto) c’è tutta la verità del mondo moderno in cui un uomo riceve interesse dalla società e dalle donne solo e soltanto se è “visibile”, solo e soltanto se è “valoroso” (secondo la scala di valori in voga nella società, e quindi, sostanzialmente, di valori economici, di conoscenza legata ad applicazioni utilmente monetizzabili, di qualità personali adatte a produrre lavoro e ricchezza), solo e soltanto se è “acuto” (nel capire cosa volere e come ottenerlo, nel tener testa dialetticamente alla donna, in entrambi i casi come se stesse sempre incrociando la spada con avversari e avversarie).

“«Guerra e morte avrai;» disse «io non rifiuto
darlati, se la cerchi», e ferma attende.
Non vuol Tancredi, che pedon veduto
ha il suo nemico, usar cavallo, e scende.
E impugna l’uno e l’altro il ferro acuto,
ed aguzza l’orgoglio e l’ire accende;
e vansi a ritrovar non altrimenti
che duo tori gelosi e d’ira ardenti.”

A parte la cortesia cavalleresca del scendere da cavallo per non avere vantaggio sopra l’avversario appiedato, l’ottava è riempita di significato dall’ultimo verso: i contendenti, di sesso opposti, si scontrano come due tori ugualmente gelosi l’uno dell’altro e ugualmente accesi non d’amore ma di ira. Certo il Tasso non ha potuto vedere come si è “evoluta” oggi la società occidentale la quale, pur di abolire l’immagine antifemminista della donna mansueta, costringe tutti, uomini e donne, a scontrarsi in quella bolgia caotica e non certo meritocratica che si ostina a chiamare “competizione” lavorativa fino a creare non solo scontri inevitabili (come quelli per le posizioni più prestigiose e retribuite di cui in effetti sarebbero gli uomini ad avere più bisogno, non avendo nè il privilegio femminile di essere universalmente mirati, socialmente accettati e amorosamente disiati per la bellezza, né il modo di influire sulle cose e sugli uomini tramite quanto in essi vi è di più profondo e irrazionale, proprio delle donne per natura come notato da Rousseau) ma pure problemi evitabili (si veda ad esempio la propagande femminista oggi lamentosa persino verso l’uomo che chiami la propria controparte dialettica “signora” anziché preoccuparsi di cercare da qualche parte il suo corretto titolo di studio e accusatrice di presunte molestie per un complimento, uno sguardo, un tentato corteggiamento). Ha però Torquato potuto sicuramente constatare come anche solo sul piano dialettico e mondano della vita di corte le donne pretendessero dagli uomini un atteggiamento “combattivo”, concedendo attenzioni e favori solo a chi fosse in grado di tener loro testa in duello (verbale o psicologico). E’ capitato persino a me di ricevere rispetti e quasi complimenti da una femminista alle cui tesi favorevoli alle legge sullo stalking ho ostinatamente rifiutato qualsivoglia accondiscendenza. Ero diventato talmente veemente nella mia dialettica che mi aspettavo una risposta di insulti, e invece…

“Ma ecco omai l’ora fatale è giunta
che ‘l viver di Clorinda al suo fin deve.
Spinge egli il ferro nel bel sen di punta
che vi s’immerge e ‘l sangue avido beve;
e la veste, che d’or vago trapunta
le mammelle stringea tenera e leve,
l’empie d’un caldo fiume. Ella già sente
morirsi, e ‘l piè le manca egro e languente.”

Qui è il personaggio maschile a prevalere, ma a che prezzo! Solo dopo averla ferita mortalmente, scopre esservi la sua amata dentro l’armatura del cavaliere misterioso. Quella rima “punta-trapunta” sembra quasi sonoramente riprodurre lo stridore del ferro acuminato che perfora corazza e seni della bella guerriera e ne fa uscire un ininterrotto (“avido”, dice il Tasso) flusso di sangue, caldo e copioso come un fiume. Quelle stesse “mammelle” che avrebbero dovuto rappresentare l’amore sessuale, quasi materno, e che sono sempre state nascoste dentro l’armatura, tornano ad essere simbolo d’amore solo nel momento in cui questo diviene morte. Come in tutte le ottave del Tasso, le immagini possono essere ribaltate se viste in controluce. Se leggiamo infatti la bellezza femminile di Clorinda come un’allegoria per indicare l’interiorità sentimentale dell’uomo (bollata come “femminile” non tanto dal presunto sessismo del mondo di una volta, quanto dalla pretesa delle donne di ogni tempo di avere utilmente a fianco un uomo “forte e guerriero”) allora il duello vede il soccombere di ogni figura maschile abbia nascosto dentro l’armatura della “competizione sociale” (simboleggiata dalle “armi” e dalla “santa crociata”) un proprio “io” troppo delicato e sensibile per esser fatto scontrare senza filtri con l’esterno. In ogni caso, il momento in cui la bellezza (interiore e simboleggiata o esteriore e descritta, come volete) si mostra finalmente in tutta la sua fralezza è solo quello della sua morte (vi ricorda qualcosa a proposito delle vostre relazioni con le donne?).

D’un bel pallore ha il bianco volto asperso,
come a’ gigli sarian miste viole,
e gli occhi al cielo affisa, e in lei converso
sembra per la pietate il cielo e ‘l sole;
e la man nuda e fredda alzando verso
il cavaliero in vece di parole
gli dà pegno di pace. In questa forma
passa la bella donna, e par che dorma.

L’ultima ottava con cui salutiamo Clorinda è un chiaro e continuo richiamo al Petrarca dei Trionfi, in particolare quello della Morte su Laura. Come non ripensare a quel “pallida no ma più che neve bianca” di quel poemetto, alla descrizione degli “occhi soavi e più chiari che il sole” presente ovunque, a quella “essenza stessa della poesia fatta sensibile” (cito le parole di un famoso critico) che sono l’immortale chiusura “parea posar come persona stanca/ sendo lo spirto già da lei diviso/ è quello che morir chiama gli sciocchi/morte bella parea nel suo bel viso”)?
Si può soltanto commentare per accostamento di immagini:

1280px-Tancred_and_Clorinda_by_Lagrenee_-_detail_01.jpg

Questa è quella dipinta dal francese Luis Jean Francois Legrenée (geniale il petto per metà armato, per metà nudo e con la ferita al centro). La vita bellissima e fuggente è tutta negli occhi che paiono, per rubare le parole al Foscolo contemporaneo del pittore, cercare “morendo il sole”. Ingeneroso il giudizio di Diderot sul suo connazionale (“privo di immaginazione”). Ma, si sa, gli illuministi non hanno mai capito niente di arte (e quindi manco di vita).

Penso che, come spero di avervi dato occasione di rendervi conto con questo mio saggio improprio e improvvisato, ingeneroso sia pura il giudizio (più celebre) di Galileo sull’intera Gerusalemme Liberata, vista dallo scienziato come “meno bella” rispetto all’Orlando Furioso dell’Ariosto (preferito politicamente perché non ancora sottoposto ai vincoli della controriforma, ancora libero di usare la fantasia per raccontare le guerre fra pagani e cristiani, con tanto di castelli magici, di viaggi con l’Ippogrifo sulla luna per recuperare il senno, di una geografia immaginaria in cui le battaglie per la terra santa si combatto nelle periferia di Parigi, insomma non ancora costretto al criterio del “verosimile”).

Se è vero che il Tasso è stato certamente molto limitato (per non dire osteggiato) nella sua azione poetica della controriforma, è altrettanto vero che il suo genio è riuscito comunque a racchiudere nella metrica dell’ottava una complessità umana ancora superiore a quella ancora tutto sommato “lineare” (amore inseguito e sfuggito, ira funesta, scherzi della fortuna, maturazione e avventure varie) a cui guarda l’ironia ariostesca. A costo di nascondere se stesso in due personaggi femminili, a costo di svuotare gli eroi “ufficiali” maschili (“rapiti”, per così dire, dalle necessità storico-politiche di verosimiglianza e di adesione all’etica cattolico-controriformata) di pathos e di empatia, a costo di parteggiare segretamente per i “pagani” (ovvero gli Arabi dietro cui neanche tanto nascostamente si può vedere l’intera e ormai tramontata civiltà umanistico-rinascimentale basata sui valori della bellezza, della classicità, della Grecia e di Roma, insomma, precedenti il cristianesimo), quel “pazzo” di Torquato Tasso è riuscito a creare, per la prima volta nella storia della letteratura mondiale, un’opera nella quale le donne non sono solo dei simboli di virtù (come nello stilnovo), delle belle senz’anima da conquistare (come nei poemi cavallereschi precedenti), delle Lara Croft salta e spara e odiatrici di uomini (come in quel filo rosso che unisce la Camilla di Virgilio a tutta la moderna cinematografia femminista), ma hanno un’interiorità nella quale gli uomini si possono identificare, un’opera in cui ogni dolcezza ha un fondo amaro ed ogni amarezza un retrogusto dolce, in cui ogni vittoria in duello è prima di tutto una sconfitta e viceversa, in cui l’avversario è la persona amata e l’amico (militare e politico) un nemico (personale e umano), un’opera in chiaroscuro in cui ogni fatto ha almeno due interpretazioni opposte entrambe vere, un’opera, insomma, “moderna” nell’unico senso nobile possibile per la parola. Quando anche la presunta “modernità” dei nostri contemporanei femministi e progressisti saprà scrivere e rappresentare qualcosa di altrettanto moderno allora si potrà dire di essere finalmente usciti dalla Controriforma.

Lasciatemi chiudere questo (troppo lungo) intermezzo con un’ottava dell’ultimo canto, quando l’assalto finale dei Crociati e la caduta della Gerusalemme (nella quale, al di là della forma, il Tasso vede istintivamente tutto il mondo poetico e umano che aveva animato le corti italiane della più felice era ariostesca), sono imminenti. Solimano (il “fier Soldano”), il personaggio “nemico” in cui tutta la grandezza del presunto “male” è stata identificata come in una tempesta, ma che non riesce a non suscitare ammirazione (come del resto tutto quanto di grande, di nobile, di bello, di eroico il mondo “pagano” del rinascimento ha concepito nel suo “generare verso l’alto” in ogni ambito della vita prima di essere dannato e condannato da Lutero e dalla reazione controriformista) sale sulla torre più alta per rendersi conto della situazione militare.

Or mentre in guisa tal fera tenzone
È tra ’l Fedele esercito e ’l Pagano;
Salse in cima alla torre ad un balcone,
E mirò (benchè lunge) il fier Soldano,
Mirò (quasi in teatro, od in agone)
L’aspra tragedia dello stato umano:
I varj assalti, e ’l fero orror di morte,
E i gran giochi del caso e della sorte.

Che gran regista sarebbe stato il Tasso se fosse vissuto nel nostro secolo! Pare quasi un finale alla Sergio Leone, come nel “Buono, il brutto, il cattivo” in cui solo alla fine si passa dai primi piani caratteristici di gran parte del film al campo lungo in cui si vedono d’un tratto la prateria, il deserto arido e il cielo infinito. Anche il Tasso, se guardiamo bene, ha tenuto tutto il “film” della Gerusalemme liberata concentrato sui “primi piani” (spesso “interiori”) dei vari protagonisti (seguiti di volta in volta nelle pieghe delle loro pene e dei loro desideri e solo di quando in quando in scene corali di battaglia). Ed ora la vista si apre sullo spazio sconfinato del deserto, ai cui ultimi lembi la città di Gerusalemme viene assaltata dai Cristiani ebbri di fanatismo, di morte e di bottino (al di là della “santità” conclamata dell’impresa). Sembra proprio di essere lì con Solimano a vedere levarsi il fumo nero di rudimentali ordigni, il frastuono dei ferri che si scontrano e delle grida di rabbia e di dolore. E qua un assalitore che prova a scavalcare le mura e cade trafitto, e là un difensore che viene trucidato da dietro con un sanguinoso colpo alla schiena, e ovunque la percezione che la vita sia più precaria e negletta delle foglie d’autunno a cui molti secoli dopo farà riferimento Ungaretti. Sembra quasi il campo lungo della scena di guerra e massacro del film di Leone, quando sudisti e nordisti si scontrano sul fiume mentre i due protagonisti osservano dall’esterno (“quasi in teatro, od in agone”) resi vicini ai caduti, quasi unici “umani” in mezzo a tanta abitudine e disprezzo della vita e della sofferenza, proprio dal loro materiale e psicologico “distacco” rispetto alle vicende belliche (sono infatti lì in attesa solo per attraversare il fiume e andare a recuperare l’oro in un cimitero). Non è più il Solimano comandante dei “Saraceni” che guarda qui, ma è il Tasso poeta che con distacco guarda alla vicenda intera delle Crociate, la quale è solo sfondo per l’infelicità dello stato umano, “il basso stato e frale e il mal che ci fu dato in sorte” (che ci ha raccontato nelle vicende personali dei vari personaggi, soprattutto femminili, “reali” proprio in quanto “inventati” e quindi non “falsificati” dalla necessità della trama piegata alla propaganda politica e religiosa) e con partecipazione vede in tutto soltanto il rammarico per un mondo più vivibile (quello della “paganità” così come era stata immaginata poeticamente ed elaborata culturalmente dal rinascimento artistico e dall’umanesimo filosofico) destinato ad essere distrutto dal caso e dalla sorte. Mi fa ridere chi, nel grandi rivolgimenti delle “guerre” contemporanee, crede di intravvedere un “senso” utile ad orientarsi esistenzialmente nella ricerca della gnocca e nel rapporto con l’altro sesso o con la società in generale. Siamo meno guerrieri di Solimano e come lui circondati da vicende militari che si decidono a prescindere dalla volontà nostra e probabilmente anche dei potenti, rette come sono dal caos di rapporti di forza mutevoli per la fortuna e per la sostanziale irrazionalità della vita e degli esseri umani. Con Gerusalemme cade anche il sogno machiavellico di poter usare la storia come magistra vitae. Emerge il Guicciardini del “particulare”. E dalla prossima volta continuerò a raccontare la storia dei miei sei gradi di separazione, il mio particolare punto di vista sulla vita.

Non temete, se i primi tre capitoli sono sembrati quasi tratti da un romanzo ottocentesco e se hanno avuto troppa riflessione (quasi intimista e per qualcuno “biecamente romantica”) a fronte di vicende inconsistenti, i prossimi tre cambieranno totalmente registro.

  • Nel quarto grado di separazione farò iniziare a girare il “turbinio della vita”, con ritmo ariostesco (“Le donne, i cavalier, l’arme, gli amori, le cortesia, l’audaci imprese”).
  • Nel quinto, per dirla con le parole della serie “Westworld”, metterò “in dubbio la natura della mia realtà”, affrontando il passaggio dal “vecchio” mondo reale al “nuovo” mondo virtuale.
  • Nel sesto, cambiando un po’ il titolo di un film di qualche anno fa (“Io, Chiara e lo scuro”), narrerò delle mie avventure (virtuali, ma con conseguenze psichiche reali, come si trattasse appunto di righe di codice aggiunte segretamente nella mia “unità di controllo” di “residente”, per proseguire l’analogia con la serie TV di cui sopra) con un personaggio di cui (come ben saprà chi, una dozzina di anni fa, abbia frequentato l’altro forum) non si può non parlare raccontando la storia di Beyazid II Ottomano. Le avevo promesso di renderla immortale per le vie internettiane e, nonostante tutto, sono abituato a saldare i debiti anche dopo oltre dieci anni (anche se, magari, non nella moneta attesa).
INCONTRA DONNE VOGLIOSE
Blumedico
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Gesummaria. Ti parlo da amico e - credo - da uomo di cultura. Evita le citazioni. Se intendi usare il sapere come mezzo di seduzione devi dissimularlo. La donna deve percepire la tua cultura anche parlando di futilità. Anzi: dovrai parlare solo di futilità.

E il lenzuolo si gonfia sul cavo dell'onda 
E la lotta si fa scivolosa e profonda

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Penso che abbia rinunciato da parecchio a sedurre…

- Che cazzo è quello?
- Ti sei risposto da sola.

INCONTRA DONNE VOGLIOSE
Blumedico

Mi piace molto il lavoro dell’amico B, per le illustrazioni dell’orlando spero di vedere qualche Von Stuck

Abbandonati al relax e al piacere, scopri i centri massaggi della tua citta'!
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@marko_kraljevic said:
Gesummaria. Ti parlo da amico e - credo - da uomo di cultura. Evita le citazioni. Se intendi usare il sapere come mezzo di seduzione devi dissimularlo. La donna deve percepire la tua cultura anche parlando di futilità. Anzi: dovrai parlare solo di futilità.

Per Ercole! Siamo su un forum dove alle donne non è nemmeno consentito intervenire. Siamo fra di noi. C'è bisogno di far finta di sedurre? C'è bisogno di usare le citazioni a scopo esornativo? C'è bisogno di comportarsi da attori che interpretano la parte dei casanova colti (ma con moderazione per non annoiare) o da giullari per far divertire (smodatamente) le donne? Se io cito versi o opere è solo perchè sento una consonanza fra quanto cantato o descritto dai loro autori e quanto io ho sentito e vissuto (più ho sentito e vissuto certi momenti, più il ricordo vi accosta immagini e suoni dalle poesie). Di quanto percepirebbe una donna che non c'è, a leggere qui, dove non leggerà mai, "francamente me ne infischio" (come direbbe il film più amato dalle donne).

Lasciatevelo dire, cari amanti del free, le donne vi hanno davvero "esteriorizzato". Pare che ogni atto, detto, parola, sguardo e scelta di vita debba essere funzione non quanto piace a voi, di quanto si conforma alla vostro essere interiore, ma di quanto piacerebbe o meno ad un'immaginaria donna che guardi dall'esterno, anzi agli occhi superficiali della società moderna nella quale i giudizi di valore e di gusto si formano sull'approvazione del sesso femminile.

Ma poi, di grazia, le donne sono davvero così "futili"? Io stesso, che, come si sarà ben capito, non sono certo un estimatore della presunta "gentilezza" di quel sesso (secondo me i più "complessi" e "delicati" siamo, dietro le apparenze contrarie, proprio noi), ho avuto occasione (e proprio di occasioni si deve parlare, capitate per caso e non cercate) di apprezzare tanto in giovin ragazze neppure vent'enni quanto in dame nel pieno fiorire della loro bellezza fisica e intellettiva (fra i trenta e i quaranta) la disposizione ad abbandonarsi al dialogo ed alla riflessione su temi filosofici e letterari non certo banali, una volta prese per mano, l'altra volta esse stesse conduttrici del racconto.

Miracoli della rete, dell'anonimato, della distanza, della chat?
Forse, semplicemente, miracolo del mettere da parte i "ruoli sessuali" stabiliti dalle convenzioni di un mondo reale non per questo necessariamente "vero". E non ve lo dice certo il solito filofemminista fissato con "l'abbattere i pregiudizi di genere".
Ve lo dice un nemico giurato del corteggiamento, inteso in senso lato non solo come obbligo nostro a farci avanti per primi, agire socialmente e metterci intellettualmente in mostra, ma anche come "stile" di vita "intrisecamente cortigiano" volto sempre alla ricerca del compiacimento altrui tramite quella "sprezzatura" che è nata con Baldassar Castiglione e continua ancor oggi ad informare i consigli di seduzione non più verso il signore da servire ma verso qualsiasi presunta "signora" (che pretenderebbe il "servitium amoris" gratis).

Se devo parlare solo di futilità, tanto vale entrare in un FKK e pagare una mezz'ora in più per il tempo "social" da spendere in camera con una bella e leggiadra fanciulla che per mestiere non pretende recite e corteggiamenti (e quindi permette un dialogo spontaneo sgravato da obblighi). L'ho fatto un paio di volte in Carinzia e mi sono divertito quasi più che a scopare.

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@FlautoMagico said:
Penso che abbia rinunciato da parecchio a sedurre…

...soprattutto è da parecchio che ho smesso di seguire, in amore, i consigli degli amici.

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@Beyazid_II il corteggiamento non esiste più. Esiste la seduzione, quella che ti fa sbrigare le pratiche più celermente quando allo sportello c'è una donna. O che ti permette di avere una fidanzata in ogni porto.

- Che cazzo è quello?
- Ti sei risposto da sola.

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Caro @Beyazid_II, la futilità non sta negli argomenti ma nelle teste. Il tuo parlare di cose futili (o se preferisci leggere) sarà ben altro di quello di un cretino, te lo posso garantire. E poi - permettimi - se l'approdo finale di tante e raffinate letture è la mignotta, qui c'è chi è giunto alla stessa conclusione sfogliando sì e no il Tromba durante il servizio militare.

E il lenzuolo si gonfia sul cavo dell'onda 
E la lotta si fa scivolosa e profonda

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@FlautoMagico said:
@Beyazid_II Esiste la seduzione, quella che ti fa sbrigare le pratiche più celermente quando allo sportello c'è una donna.

Ma anche un uomo, non necessariamente gay. E che ti permette di essere preferito in un colloquio di lavoro. O di far prevalere le tue idee tanto in un consiglio di amministrazione quanto al bar. La seduzione è arma universale e micidiale, e la donna è ottima scuola.

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@marko_kraljevic concordo, specialmente sui colloqui di lavoro

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@FlautoMagico said:
@Beyazid_II il corteggiamento non esiste più. Esiste la seduzione, quella che ti fa sbrigare le pratiche più celermente quando allo sportello c'è una donna. O che ti permette di avere una fidanzata in ogni porto.

come non esiste il sussidio di disoccupazione perchè si chiama "reddito di cittadinanza", come non esiste il censimento degli zingari perchè si chiamerà "attenta ricognizione della situazione dei senza fissa dimora con particolare riguardo alle esigenze dei minori"...

Chiamalo come vuoi, ma è sempre qualcosa che dobbiamo dire, fare, agire, quando la controparte è già apprezzata di per sè, ha un potere in partenza, sta dalla parte degli "esaminatori". E' insomma come giocare contro chi sta dalla parte del banco che comunque vince sempre.

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@marko_kraljevic said:
Caro @Beyazid_II, la futilità non sta negli argomenti ma nelle teste. Il tuo parlare di cose futili (o se preferisci leggere) sarà ben altro di quello di un cretino, te lo posso garantire. E poi - permettimi - se l'approdo finale di tante e raffinate letture è la mignotta, qui c'è chi è giunto alla stessa conclusione sfogliando sì e no il Tromba durante il servizio militare.

...ma io sono stato riformato. E' per quello che ci sono dovuto arrivare con "tante e raffinate letture".

A parte gli scherzi, ti ringrazio per la forse immeritata stima, ma da parte mia ti garantisco che se dovessi parlare per forza di qualcosa che non mi interessa risulterei irrimediabilmente sgradevole. Del resto, così le fanciulle hanno deliberato. Altrimenti non sarei qua a narrare di cose avvenute 20 anni fa.

La verità è semplice, sono io ad aver fatto un giro molto lungo per arrivarci. Sono di nuovo al punto di partenza? Pazienza! Del resto, anche andare in montagna è solo conquista dell'inutile, ma il fine è l'esperienza dell'ascensione.

P.S.
Se vuoi davvero conoscere quale sia l'approdo finale, devi aspettare gli ultimi tre gradi...

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@marko_kraljevic said:

@FlautoMagico said:
@Beyazid_II Esiste la seduzione, quella che ti fa sbrigare le pratiche più celermente quando allo sportello c'è una donna.

Ma anche un uomo, non necessariamente gay. E che ti permette di essere preferito in un colloquio di lavoro. O di far prevalere le tue idee tanto in un consiglio di amministrazione quanto al bar. La seduzione è arma universale e micidiale, e la donna è ottima scuola.

Sì vabbe', se chiami seduzione quella, allora anche io, che sono negato, ho "sedotto" più di una prof. per avere la lode all'esame....

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@FlautoMagico said:
@marko_kraljevic concordo, specialmente sui colloqui di lavoro

Allora siamo proprio ai poli opposti anche in questo.
Per me un'esposizione non deve essere "seduttiva" (come pretenderebbero certe moderne teorie d'insegnamento), ma, al contrario, deve mantenere la giusta distanza propria all'oggettività, deve disinteressarsi di quanto non è necessario, deve dare l'idea del "grande stile che disdegna di piacere".

A me la matematica è sempre piaciuta per questo: perchè è una violenza che appare come bellezza, è una verità che si afferma a prescindere da tutto, con tutta la forza delle necessità, con più potenza di chi, per "convincere" sbatta ripetutamente contro il muro la testa dello studente.

"Fare pubblicità", nel lavoro come con le donne, mirare cioè a rendere gradito qualcosa (o se stessi) non con la pura forza dei fatti, ma con artifici di varia natura, insomma, non mi è mai piacuto. Purtroppo devo riconoscere che anche il mondo scientifico (ormai lontano dall'Episteme di cui parlava Platone e divenuto in tutto e per tutto "narrazione") si sta muovendo nella direzione del "marketing".

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@Beyazid_II ai letterati la matematica piace tanto ma poi non la capiscono… invece la matematica è bella proprio quando se ne capiscono le implicazioni più profonde.

- Che cazzo è quello?
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@FlautoMagico said:
@Beyazid_II ai letterati la matematica piace tanto ma poi non la capiscono… invece la matematica è bella proprio quando se ne capiscono le implicazioni più profonde.

Non piace alle prof. di lettere. Alle medie osai scrivere in un tema che quando studiavo concetti matematici mi pareva di studiare una materia "eterna", valida per tutti in ogni luogo e in ogni tempo, al contrario delle materie umanistiche condizionate dalla soggettività degli autori. Avevo in pratica precorso Platone, ma come risposta ebbi una bella sgridata e un consiglio "vai a farti un giro in bici piuttosto che scrivere queste scemenze"...

Nella mia esperienza successiva, i primi a non capire la matematica mi sono proprio parsi i colleghi ingegneri: il loro problema non è non capire le implicazioni, ma proprio ignorare le premesse.
Non verificano mai le ipotesi, poi si lamentano che "il teorema non funziona" o "la teoria non ha riscontro nella realtà". L'esempio più eclatante è quello del toroide in elettromagnetismo. Come noto, i punti che lo formano non costituiscono un insieme semplicemente connesso (banalmente, c'è il buco in mezzo alla ciambella). E' ovvio quindi che dalla proprietà locale del rotore nullo non si possa dedurre quella della circuitazione uguale a zero lungo qualunque percorso. Per far "funzionare" il lemma di Poincarè devo essere in un insieme semplicemente connesso. Quando il prof di Fisica II, prima di introdurre la corrente di spostamento (che è stata scoperta proprio così, per "estetica"), chiese contezza di tale apparente contraddizione, fui l'unico ad alzare la mano, ma ero troppo indietro perchè mi potesse vedere. E così, ancora una volta, gli ingegneri fecero una magra figura quanto a comprensione della matematica (tanto che mi sento sempre a disagio: sono chiamato ingegnere in mezzo ai matematici e matematico in mezzo agli ingegneri).

I letterati, semmai, vanno troppo in là con le presunte implicazioni, fino ad inventarsi castelli in aria di filosofia e morale basati su sciocchezze che, con il linguaggio della matematica, si spiegherebbero con due passaggi. E te lo dice uno che ha la "Prova matematica dell'esistenza di Dio" qui sul comodino dell'ufficio.

Che dire poi, di quegli stessi matematici responsabili dell'insegnamento a ingegneria? Quelli che insegnano le variabili aleatorie nelle ultime due ore di lezione dell'ultimo giorno di Analisi. Quelli che "per semplificare" spiegano solo l'integrale di Riemann (la "banale" somma infinita di infinitesimi) e non insegnano quello di Lebesgue (infinitamente più elegante, ma che implicherebbe capire qualcosa della teoria della misura)! A quel punto, per un ingegnere, che significato potranno avere le trasformate di Fourier o di Laplace, quando è noto che Lebesgue ha dovuto inventarsi un nuovo integrale proprio per poter trattare gli infiniti come serve in quei casi? Vogliamo parlare di implicazioni profonde? Basterebbe un minimo di rigore, anzi, solo di buon senso.

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@Beyazid_II questa è la matematica ready-to-wear che insegnano a ingegneria, ma esistono vette ben più alte per chi ha deciso all'alpinismo. Penso ai numeri di mersenne, legati ai numeri perfetti, i quali sono sempre pari, ma nessuno sa perché. Ecco una vetta da scalare.

- Che cazzo è quello?
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@FlautoMagico said:
@Beyazid_II questa è la matematica ready-to-wear che insegnano a ingegneria, ma esistono vette ben più alte per chi ha deciso all'alpinismo. Penso ai numeri di mersenne, legati ai numeri perfetti, i quali sono sempre pari, ma nessuno sa perché. Ecco una vetta da scalare.

Va bene, ma lì parliamo di passioni veramente elevate. Io dico, semplicemente, che anche nelle cose terra terra utili ad un ingegnere, specie se fa ricerca, ci devono essere rigore e completezza, ormai esiliate dall'università.

P.S.
Quando le vette sono troppo alte, rischi che uno strato di nuvole non ti faccia più vedere il fondovalle. E purtroppo per un ingegnere è fondamentale almeno far credere che quanto sgorga dai ghiacciai in quota rifluisca anche a valle...

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QUARTO GRADO: DA MARSILIO FICINO A FRIEDRICH NIETZSCHE (1/18)

Ovvero: "LE DONNE, I CAVALLIER, L’ARME, GLI AMORI, LE CORTESIE, l’AUDACI IMPRESE"

Parte 1 di 18 : “Dai cieli bigi/ guardo fumar da mille/ comignoli Parigi!”

Ne uscii come di prigione, librato in aria dalla brama di nuovo, di piacere, di vita. Pensavo al piacere trascorso ma non vissuto, alle fatiche compiute e a quelle da compiere, alla perfezione del piano e al rischio estremo. Rimaneva da pagare il taxi, entrare in albergo sperando che il “complice francese” avesse mantenuto la promessa di non chiudere a chiave il portone, risalire le scale in silenzio e raggiungere l’ultimo piano. E se qualcosa ancora fosse andato storto? Rischiavo cinque anni. Non potevo sfuggire al ribrezzo per le sensazioni provate e alla repulsione innate per certe azioni. Capivo che era crollato un mito: tolto il velo, la bellezza era svanita, l’incerto si era dileguato e tutte le fantasie tutte le vaghe illusioni si erano schiarite e determinate. L’indefinito, al contatto crudo con il reale, era stato limitato dalle contingenze materiali e, così ristretto, era morto soffocato. In quella notte piovosa aveva esalato l’ultimo respiro quella parte di me che aveva sempre sospirato, gemendo, la donna, in simili piogge dopo aver cercato il piacere. E come nell’imminenza della morte ritornano le estreme gioie della vita, così io quella bellezza rimembravo, “ne’ suoni, ne’ colori, ne’ le forme”. Ma quell’odore, quelle luci, quelle forme quasi di statua, così fredda così plastificata, così totalmente disanimata erano un ammonimento costante a non tornare indietro, un cancello sbarrato alle mie spalle, più infuocato del rogo di vascelli incendiati.

Cinque anni. L’intera era liceale. Rischiavo di buttare via i cinque anni più intensi, vissuti e nobili della mia vita. Quelli che si erano indelebilmente scritti in me facendomi diventare per sempre quello che ero. Nel bene e nel male, nel gusto e nelle nevrosi, ma soprattutto nel pensiero. Rischiavo che quei cinque anni non avessero il loro definitivo e giusto coronamento. Rischiavo che mi fosse vietato di presentarmi alla maturità? Rischiavo forse la sospensione? Rischiavo, comunque, che uno degli insegnanti accompagnatori se ne avesse a male incrinandomi il giudizio di presentazione. E per cosa? Per “il gesto”.

Camminavo allora spedito, spinto da un’eccitazione più forte, da un sentimento più puro, reso terso e limpido dalla pioggia, correvo con la mente alla promessa di non smarrirmi mai più nella miseria del falso piacere, di ricercare l’assoluto fuori da ogni passione, di agire libero da ogni costrizione animale, sospinto solo dal desiderio di abbracciare e gustare la varietà delle forme e degli aspetti della vita.

Forse la paura aveva fermato il mio inconscio nel momento estremo del piacere, negandomi l’orgasmo tanto ricercato dalla mia volontà, dal mio corpo, dalle carezze di lei. Forse il timore di mettere a repentaglio tutto per un’irragionevolezza aveva prevalso sul coraggio di vivere, sulla volontà di venire, sulla libertà del rischio. O forse l’amore sessuale non era quello che volevo, non era quello che gli amici, la televisione, il mondo, persino i poeti, mi avevano fatto credere che fosse. Tutti i miei coetanei facevano follie pur di stare con le ragazze (addirittura abbassavano i loro canoni estetici al gusto dell’orrido pur di rimediare una pomiciata o una chiavata). Tutti i film erano animati da protagonisti di ambo i sessi che affrontavano mille peripezia pur di stare insieme, per una notte o per una vita (anche se poi in effetti il regista raramente si occupava di cosa facessero davvero sotto le lenzuola o durante il “vissero felici e contenti”). Non avevo quindi mai dubitato che dovesse essere quello il sommo piacere. “Quanto piace al mondo è breve sogno”, chiosava Petrarca. “Quanto piace al mondo – piuttosto – è una fregatura” parafrasavo io in quel momento (pensando anche a quello che avevo pagato). Tanto lo avevano legato al peccato i predicatori dei tempi di Jacopone, tanto lo aveva condannato lo stesso Dante nel Canto V dell’Inferno (quando egli stesso sviene ricordando di quanto anch’egli aveva vissuto la lussuria), salvo poi usarne i termini durante la stessa “visio dei” (quel “venni” messo là su in Paradiso!), tanto lo aveva rimpianto (senza averlo vissuto?) il Tasso nelle sue Rime umide di pianto e di languore, tanto lo aveva mitizzato (con l’arte e con la vita) il Foscolo dell’Amica Risanata (tanto da farne cagione per tramutare in dee immortali le mortali donne amate dai mortali poeti), tanto lo avevano esaltato i romantici inglesi da Byron a Shelley fino a quelli pronti a morire per esso, tanto lo aveva fatto giungere a perfezione letteraria e poetica il D’Annunzio del Piacere e del Poema Paradisiaco, che io stesso credevo sufficiente trovarmi innanzi all’occasione della “prima volta” per essere rapito dall’estasi. Come riconobbe Omero, “molto mentono gli aedi”.

Uscì da quella stanza un uomo più triste e più saggio (ed avevo appena diciotto anni!), come un carcerato che torna alla vita, desideroso di riconciliarsi con sé, con gli altri, con la natura, con il mondo, anzi, con i mondi. Dicevo fra me, ancora una volta, “incipit vita nova”, intendendo con questo un’esistenza liberata dai piaceri futili, protesa a nuovi universi creati dalla mente e indipendenti dalle costrizioni esterne, rivolta a interessi superiori a quelli comunemente perseguiti dagli uomini (ah, follia adolescenziale: quanto sarebbero stati comunemente umani i miei obiettivi negli anni successivi, “umani, troppo umani!”). Capivo l’inconsistenza di questi desideri, mi ricordavo di quante volte in passato avevo detto lo stesso, dopo un pomeriggio di noia e di inutile ricerca di godimenti, ma questa volta avevo avuto la “prova sperimentale” decisiva. Pure, questa riflessione mi addolciva e mi rallegrava, liberando la mia decisione da qualsiasi ombra amara e lacrimosa di pentimento, mentre, seduto sulla vettura, volavo sulle ali della vera libertà, sulle onde di una mente leggera e sgravata dal desiderio opprimente verso nuovi mondi, nuovi orizzonti, nuovi desii, bramoso di fuggire lontano, quasi romito e strano da questo universo meschino.

Meschino perché privo di dio. Microcosmo perché soltanto mondo complesso sì ma tutto sommato meccanicistico e senz’anima. Non più macrocosmo abitato dall’anima come l’interiorità dei poeti che mi avevano parlato d’amore. Nella realtà, non avevo trovato nulla di divino né nel sesso né nella donna.
Non era bastato procurarsi l’occasione sotto forma della più bella e disponibile delle donne immaginabili. Non era bastato trovarsi dinnanzi alla perfezione per essere investito dal piacere.
Non avrei più, per almeno cinque anni, ricercato l’amore a pagamento.
Non provavo né pentimento né colpa. Prima di sperimentare non potevo sapere. E nessun male avevo procurato a quella modella che, uscita dalla doccia, aveva iniziato il nostro romantico incontro con “give me my money”. E se ne era potuta tornare al locale con ben poca fatica amorosa e un piccolo, ridicolo, tentativo di accoppiamento fallito in più. Il male era in me, in termini di crollo del senso della bellezza che aveva ammantato l’irraggiungibile (fino ad allora) figura della donna da amare carnalmente. E tutto il mio mondo che da quella figura centrale per la nostra letteratura, anzi, da quell’atto così temuto e amato da poeti e mistici, si era costruito non crollò, ma si svuotò di valore.

Come in "C'era una volta in America", il disvelamento della verità era avvenuto in una notte di pioggia.

Ma come era potuto succedere che l’universo, così magnifico nella narrazione fiorentina quattrocentesca, così stupefacente negli esiti cinquecenteschi dell’arte, così permeato dalla potenza divina secondo la dottrina neoplatonica che aveva ammantato ogni mia interpretazione del reale, mi apparisse ora così spoglio, così freddo, così vuoto? Evidentemente, in tutto il mio umanesimo, avevo sempre tenuto ferma la massima di quel Sant’Agostino che Dante teneva sempre in saccoccia: “In interiore homine habitat veritas”. Ed ora quella verità (quel “dio”, se vogliamo usare un’espressione impropria ma pregnante di significato) non abitava più lì. Certo, da tempo avevo smesso di credere al dio di Abramo di Isacco e di Giacobbe (che mi era presto parsa una favola per bambini extraeuropei), a quello “medievale” di Aristotele (nel senso dell’escatologia), al dio morale della tradizione cristiana, a quello moralista e tirannico della tradizione biblica, a quello, insomma, che imponeva i “tu devi-non devi” da schiavo ed usava i preti, i rabbini (e i freudiani) per mistificare il mondo e scambiare i rapporti di causa-effetto con quelli colpa-punizione. Eppure, per quanto tutta umana fosse la costruzione del mondo, delle sue bellezze, delle sue misure, il loro senso ed il loro valore (e pure la loro “eternità”, a dispetto della finitudine della dimensione umana) erano dati da quella fiammella divina che alberga(va) nel cuore dell’uomo (“ad illuminar la sotterranea notte”, avrebbe detto il Foscolo). Per questo e solo per questo l’uomo poteva dirsi, con Ficino e Plotino, “copula mundi” a metà strada fra le bestie e gli dèi. Per questo e solo per questo la Poesia aveva sempre potuto trionfare sul Tempo (come l’Eternità e Dio). Per questo e solo per questo nessuna rete neurale da sola sarebbe stata veramente umana (avevo, almeno fino a quel momento, sempre pensato). Spenta quella fiamma, era spento anche il senso del mondo. Nulla aveva più valore e la bellezza non poteva più splendere. Io avevo visitato il templio della bellezza, ma la sua dea non abitava più lì.

“Dio è morto”. A me l’annuncio non arrivò di giorno al mercato, come nello Zarathustra, fra una turba di piccoli uomini che sorridono e ammiccano, ma in quel momento solitario nella notte di Parigi, in cui ritornavo in taxi (e per l’ultimo tratto a piedi, per sviare i sospetti di eventuali docenti sonnambuli) all’albergo in cui soggiornava l’intera classe (con i suoi sbadati professori) dopo la mia prima esperienza sessuale. Avevo voluto farne un “evento mondano”, qualcosa da ricordare negli anni a venire come l’ultima memorabile esperienza comune prima della maturità e dell’addio ai banchi di scuola. Doveva essere “l’impresa di Parigi”, qualcosa a metà fra una “rivolta morale giovanile” da “attimo fuggente” (“tutto il piacere ora che siamo giovani, ora che siamo ancora “immaturi”, o mai più”) e una provocazione intellettual-dannunziana degna della belle epoque (“dimostrerò che la mia eccellenza nello studio mi può porre al di sopra delle regole morali”). Avevamo studiato e parlato per mesi su come realizzare la cosa. Avevamo addirittura utilizzato la mia prima pionieristica connessione ad internet (rigorosamente a 56k e solo dopo le 18) per raccogliere informazioni dai turisti stranieri in visita alla capitale francese in cerca di gnocca.
Gli amici e compagni, tutti radunati ad attendermi all’ultimo piano dell’edificio, come in una rivisitazione moderna della Bohème, mi chiesero, quasi in coro: “Allora, allora, racconta…”

A loro raccontai soltanto la parte pornografica (e pure ciò non bastò ad evitare di essere oggetto di scherno per anni). Ai miei due lettori racconterò invece l’origine interiore dell’esperienza e l’esito esteriore tragicomico.

“Vogliamo partire dall'assunzione che la cultura ed il pensiero umanistico-rinascimentali altro non siano se non una proiezione, nel mondo delle idee e dell'arte, di quella particolare e straordinaria realtà sociale e politica costituita dalla civiltà dei liberi Comuni.”

Usava il plurale maiestatis quando esponevo una tesi storico-filosofica. Il professore mi invitò a chiarire meglio il concetto di “Comune”.

“Fatto unico nella storia del medioevo, il Comune, come entità politica, non sorge in seguito a una volontà teologica o filosofica volta a conformare il reale secondo un disegno divino o un modello aprioristico discendente dall'alto e ritenuto sacro e inviolabile, come avvenuto per i potenti ordini religiosi e cavallereschi (improntati appunto al rispetto della "regola" o del "codice" dettati dal fondatore su "ispirazione" divina) o per lo stesso Sacro Romano Impero, ma si organizza dal basso, a partire da una situazione di fatto, dalla realtà dei commerci e della crescita economica.”

Il nostro “Averroè” emiliano-romagnolo, notò che stavo vedendo l’umanesimo come strumentale all’ideologia politica delle città-stato (comunali prima e signorili poi) in chiave di emancipazione dalla Chiesa.

“La sua legittimazione, dunque, assieme alla sua dignità di fronte alla storia, ed in ultima analisi alla giustificazione del suo stesso potere presso i contemporanei, non può derivare dai "due soli" del medioevo, il Papato e L'Impero, non può essere attesa discendere dal cielo, ma deve essere costruita dagli uomini.
E' dunque naturale che la forma mentis degli individui avvezzi a vivere sotto una tale inusuale organizzazione di potere politico, non voluta in principio né da una bolla papale né da un bando dell'impero, si vada infine improntando al naturalismo pagano, alla nobilitazione di ogni attività propriamente umana, all'indagine razionale sulla natura, al libero dibattito filosofico e religioso, alla visione disincantata della realtà, al rapporto pragmatico ma rigoroso con il sapere e le scienze umanistiche, all’ammirazione per gli antichi, siano essi filosofi, condottieri o poeti, in quanto non subordinati, nel loro agire, nel loro pensare, nel loro concepire la vita, alla concezione dogmatica del medioevo cristiano.”

In parte, in effetti, tornavo ad avvalorare le tesi “illuministe” (o, forse, meglio “positiviste”) del Michelet sulla contrapposizione medioevo-rinascimento in chiave “rivoluzionaria”.

“Una siffatta maniera di vivere e di pensare, diffusasi dal XV secolo a Firenze, a Milano, a Venezia così come nelle Fiandre, nei Paesi Bassi, nella Borgogna, e tanto più rivoluzionaria quanto più in tali zone i traffici commerciali ed il rigoglio economico sono evidenti, non può essere, secondo chi scrive, il mero frutto di un’arbitraria elaborazione teorica di singoli individui, una pietra preziosa caduta dal cielo per infondere la virtù nella rosa della conoscenza, così come avveniva nei poemetti allegorici medioevali, ma deve essere il prodotto culturale, per così dire l’idemsentire, di una intera società. Se è vero che l’arte è la diretta espressione della vita, allora l’Umanesimo e il Rinascimento devono essere creazioni di una civiltà totalmente nuova rispetto agli schemi tipici del medioevo, una civiltà che non può non identificarsi con quella dei comuni nati dagli scambi delle merci e delle idee, affrancatori di fatto degli individui dalle servitù della gleba e progressivi demolitori dell’ordine feudale. Questa civiltà, sorta dal basso, in maniera frammentata e confusa, da assemblee e da patti privati di liberi cittadini fin dagli anni attorno al mille, finisce per produrre, quattro secoli dopo, un mondo nuovo, già consapevole di sé e capace di studiare, comprendere, valutare e respingere quello precedente. Se è vero che, cronologicamente, il Rinascimento si afferma, nella sua massima espressione, all’età della signoria, è altrettanto vero che un movimento artistico, filosofico, intellettuale di tale portata “rivoluzionaria” e di tale forza concettuale deve avere dietro di sé un’elaborazione complessa e plurisecolare, frutto di modi di vivere e di pensare, trasformazioni politiche, condizioni economiche e culturali di chiara rottura con il passato ed in continuo, incessante, creativo quanto contraddittorio divenire.”

Come tutti i veri “stronzi” (sempre detto in maniera bonaria come potrei dire ai miei figli se ne avessi e come lui, lo ricordo ancora, faceva con noi) quel professore era anche molto bravo. Era riuscito con metodo perfettamente “maieutico”, proprio del Platone più degno allievo di Socrate, a fare esprimere da me, noto esponente della “destra storica” (all’interno dell’istituto), di un misto di tradizionalismo (ormai non più cattolico data la deriva sinistrorsa della curia già rilevabile in quegli anni) e di liberalismi patriottico-risorgimentale (commemoravo il 4 novembre) concetti quasi pienamente “hegeliano-marxisti”. Non sapevo che allora non era tanto un Marx a parlare in me (e tanto meno quel ciarlatano di Hegel), bensì un Nietzsche, qualcuno cioè, il quale, senza ridurre la complessità del mondo e dell’uomo all’economia ed alla specie, concepisse la “più che vita” (che pure per lui esiste, tanto da fondare sopra di essa la “morale dei signori”, la lotta all’egalitarismo specista ed il dovere di “generare oltre” in nome della vita ascendente - al fine di rendere “sistematica” la nascita del tipi umano superiore identificato con l’artista rinascimentale - ma che non possiamo più chiamarlo “spirito” per non essere scomunicati dal professore di Basilea) come qualcosa di non dato dall’alto, ma di sorto dal basso. “Restate fedeli alla terra”, avrei molto tempo dopo appreso da Zarathustra.

Allora non potevo capirlo, ma c’era del vero in quanto diceva: anche nel periodo rinascimentale quella “spinta al divino” che si percepisce così forte in un Marsilio Ficino o in un Pico della Mirandola è già svanita quasi del tutto nell’Ariosto e nel Machiavelli, autori delle due principali opere (significativamente messe poi all’indice dalla Controriforma) del Cinquecento. Già il Leon Battista Alberti ed il Brunelleschi, con le loro architetture ed il loro uso della prospettiva, avevano dato un occhio propriamente umano al mondo (abbandonando la pretesa dello slancio verso l’assoluto proprio del gotico medievale), così come del resto i pittori, da Leonardo a Piero della Francesca, che avevano abbandonato la dimensione “bidimensionale” e “puramente simbolica” delle raffigurazioni medievali figlie del bizantinismo.
Anche la “filosofia del martello” (cifra pienamente nietzscheana) poteva (anche se impropriamente) essere vista sottesa al Rinascimento. La prova è nel fatto che in ogni campo non solo dell’arte e della letteratura, ma pure della vita, si ricercò per più di un secolo il modello ideale, come se la realtà fosse appunto un marmo da cui far emergere, per sottrazione, quella forma divinamente perfetta la quale, per usare la celebre immagine di Michelangelo, è già contenuta prima che l’artista vi tolga il superfluo. Il modello ideale di gentiluomo fu scritto nel “Galateo” di Giovanni della Casa (ed ancora oggi informa un modello comportamentale quasi universalmente ammirato ed accettato), il modello ideale di cortigiano fu nell’omonima opera di Baldassar Castiglione (ed anche oggi la “sprezzatura”, che permette di far apparire naturale il risultato di lunghi periodi di studio, abnegazione e sacrificio, è di gran lunga preferita alla “affettazione” che infastidisce e annoia, come ben sanno, ad esempio quel contemporaneo modello di cortigiane che sono le escort top-class). Il modello ideale di uomo politico fu il Principe di Niccolò Machiavelli, il cui acume nel rivedere nelle historiae di Tito Livio (depurati dalle contingenze) quegli elementi immutabili della categoria del politico da applicare anche, con dovizia di esempio, alla storia del suo secolo (tanto da spiegare con spietata lucidità, ad esempio, perché la rombante discesa di Carlo VIII in Italia, sistematica contraddizione di ogni principio seguito dai Romani in situazioni simili, sia sfociata in un clamoroso fiasco: “sbassato uno minore, potenziato uno potente, non chiamati da li provinciali, non messo colonie”) non finisce mai di stupire, così come il disincanto geniale nel riconoscere caratteristiche umane che secoli di astratta morale medievale – tanto di moda anche oggi nel moderno mondo democratico e umanitario - avevano voluto negare (come quando sconcerta il lettore dicendo che si dimentica prima “uno fratello o un padre ammazzato” che non l’esproprio “di uno podere, ed il motivo è presto detto: ognuno ben sa che per lo rivolgimento de li ordini non potrà mai avere resuscitato lo fratello o lo padre, ma e’ potrà ben riavere il podere!”, o quando contraddice le anime belle di ogni epoca sentenziando “è meglio essere temuto che amato, perché nel primo caso, l’uomo è “tenuto ad uno vincolo di obbligo che, per essere la natura degli uomini trista, può essere abbandonato alla prima occasione”, mentre, nel secondo “da una paura di pena che non abbandona mai”). L’apparente contrasto fra la spietatezza razionale della politica e la cavalleresca fantasia delle avventure epiche fa vivere in eterno l’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto. Presentato inizialmente come “gionta” all’Innamorato di Matteo Maria Boiardo, l’opera ariostesca introduce in realtà un ulteriore elemento di rottura con la tradizione puramente “cavalleresca” dell’epica ereditata dal medioevo. Nel Boiardo entra per la prima volta il tema “umanista” dell’ideale di “aristocrazia guerriera” che sta sopra le diverse fazioni religiose in lotta (in un romanzo medievale non sarebbe stato immaginabile avere una scena nella quale l’avversario moro venga “confessato” e convertito in punto di morte dall’eroe cristiano che lo ha sconfitto). Nell’Ariosto a questo si aggiunge l’intenzione, dietro la metafora della selva, piena di insidie non solo per le angeliche fanciulle, della politica così piena di intrighi e menzogne delle corti rinascimentali. Come ha detto un critico più autorevole di me “Il Furioso è la vera commedia umana del Rinascimento”.
E allora lasciamo che i primi due versi dell’opera (“Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,/ le cortesie, l’audaci imprese io canto”) guidino il racconto di quella commedia che fu la mia vita per i cinque anni che trascorsero dalla maturità alla laurea (con qualche fuga in avanti verso il presente, quando vi sarò trascinato dal racconto di donne e motori).

Lo zio Friedrich potrebbe essere solo contento nel vedere la filosofia di un suo discepolo (postumo di più di un secolo) raccontata non con il linguaggio della teoria ma con quello della vita (e per giunta scandita dal ritmo del poema simbolo del periodo rinascimentale).

INCONTRA DONNE VOGLIOSE
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QUARTO GRADO: DA MARSILIO FICINO A FRIEDRICH NIETZSCHE (2/18)

Ovvero: "LE DONNE, I CAVALLIER, L’ARME, GLI AMORI, LE CORTESIE, l’AUDACI IMPRESE"

Parte 2 di 18 : “Le donne”

Fra le donne racconterò qui principalmente di coloro alle quali ho avuto la fortuna di accostarmi su un piano di autenticità e di parità, senza dovermi abbassare, legato con le mani dietro la schiena come i romani sconfitti, a passare sotto quelle “forche caudine” sotto cui (senza bisogno di aver perso prima alcuna battaglia), in un modo o nell’altro, si chinano, volenti o nolenti, in occidente tutti i maschi, consapevoli o meno, in cerca del cosiddetto “free”, alla prostituzione psichica del “forse che sì, forse che no”, al dovere di parlare per compiacere e di inventare per sorprendere, al costume del simulare (per “guadagnare punti”) e del dissimulare (per non essere “scartato a priori”), all’obbligo di “impostare una strategia” per la cosiddetta “conquista” (la quale sistematicamente uccide ogni spontaneità e fa vivere ogni parola, ogni atto, ogni sguardo, ogni invito, ogni silenzio di un secondo fine, di un sotterraneo significato diverso da quanto appare), all’accettazione di quella tensione da esame tipica della situazione asimmetrica nella quale la controparte, dall’alto del piedistallo della bellezza (quando manca, vi supplisce l’illusione generata dal desiderio, se non dovesse bastare l’unica delle convenzioni sociali fra i generi che il femminismo si è ben guardato dal contestare) può già rilassarsi, valutare con calma e scegliere se divertirsi “con noi” o “contro di noi”. Parlerò insomma innanzitutto solo di quelle donne che non ho dovuto o voluto in alcun modo “corteggiare” (le altre vanno sotto la voce “cortesie”). Certo non c’è stato innamoramento fra noi (ma, del resto, non c’è stato nemmeno con le “corteggiate”). Se però sono ancora ricordate dopo tanti anni significa che, nel casuale turbinio della vita, non mi sono state completamente trasparenti (né io, credo, sono stato trasparente a loro).

Facciamole girare, per una volta, come fossero su una passerella (anche se, eccetto la prima, non credo abbiano mai fatto le modelle), sulle note immaginate di quel “Le Tourbillon De La Vie“ che Jeanne Moreau canta in “Jules e Jim” di Truffaut”: esse che oggi come me sono a cavallo degli anta non potranno rammaricarsi di essere ricordate quando di anni ne avevano più o meno la metà ed erano nel fiore di una vita che auguro a tutte essere serena.

"Le donne: la modella russa di Parigi"

La prima donna di cui devo raccontare, è ovviamente colei che per prima è stata mia carnalmente (anche se, come detto, in maniera incompleta) e di cui anche in questo racconto, come in quello del monaco Adso, non si sa neppure il nome. La identificheremo quindi con quel famoso “centone” petrarchesco che simboleggia l’intera poesia di un personaggio centrale della letteratura rinascimentale quale Pietro Bembo:

“Crin d'oro crespo e d'ambra tersa e pura,
ch'a l'aura su la neve ondeggi e vole,
occhi soavi e più chiari che 'l sole,
da far giorno seren la notte oscura,

riso, ch'acqueta ogni aspra pena e dura,
rubini e perle, ond'escono parole
sì dolci, ch'altro ben l'alma non vòle,
man d'avorio, che i cor distringe e fura,

cantar, che sembra d'armonia divina,
senno maturo a la più verde etade,
leggiadria non veduta unqua fra noi,

giunta a somma beltà somma onestade,
fur l'esca del mio foco, e sono in voi
grazie, ch'a poche il ciel largo destina.”

Un centone è notoriamente un componimento costituito da versi presi da un altro poeta e riordinati originariamente: quasi un anagramma letterario. Per la plebe, la parola richiamerebbe un biglietto da cento euro (o da vecchie centomila lire). A me, come si vedrà, costò due milioni (delle vecchie lire). I capelli dorati e la pelle ambrata c’erano anche nel mio caso, così come gli occhi chiari. Non essendo riuscito a farla ridere (anche se di motivi per ridere, come vedremo, ce ne sarebbero stato parecchi) non so se il suono delle sue risa avrebbe raddolcito ogni mio dolore. Le sue parole (in Inglese) sono sempre state stringate come quelle di chiunque voglia chiudere in fretta un affare. E difatti ci siamo pure stretti la mano. Non essendo scappata con i soldi deduco fosse anche onesta. Di armonie divine e di leggiadria però, ad onor del vero, non ho percepito la presenza. Ma forse solo perché ero ancora, letteralmente, “immaturo”. Mi ha invece sempre dato l’aria dell’uomo maturo, dalla voce bassa e calma, come quella del mio prof d’Italiano, l’autore del centone (che nella vita, oltre ad essere cardinale, è stato anche direttore della biblioteca marciana). Petrarchesco non solo nell’ispirazione, ma pure nella convinzione, il nostro Cardinale veneziano. Non si limitò a comporre sonetti con perfetto andamento bimembre, scelte lessicali davvero “pure e rarefatte” e suoni e immagini tratti direttamente dai rerum vulgarium fragmenta. Arrivò a teorizzare il modello ideale di lingua italiana nel celeberrimo trattato “prose della volgar lingua”, nel quale la doppia scelta “Petrarca in poesia, Boccaccio in prosa” divenne la regola per i secoli a venire (ed è ancora regola per chi vi scrive, dato che, se devo comporre dediche in versi ad una donna, uso quasi sempre il metro del sonetto, mentre, quando compongo prosa, ricalco l’ampio periodare del Latino ispirandomi alle lunghe e armoniose frasi del decamerone ricche di subordinate: scrivere per me in Inglese, con le frasi brevi e semplici proprie di quella lingua è per me una grande forzatura).

Non poteva, il cardinale, sapere che il suo modello di donna ripreso dal Petrarca avrebbe guidato la ricerca di gnocca per la prima scopata di un maturando in gita scolastica. L’inarrivabile madonna petrarchesco-stilnovista, tanto alta da poter essere soltanto guardata dal basso verso l’alto (come la luna) o sognata ad occhi aperti quando passa per via, e tanto bionda da rendere l’idea del sole che splende sulle messi al vento, o dell’angelo magnifico sceso da cielo in terra “a miracol mostrare”, non può, nel mondo contemporaneo, che trovare personificazione nelle modelle. Medesimi sono l’effetto di attrazione sui mortali e di rischiaramento sul resto del creato (“fa tremar di chiaritate l’aere/ e mena seco amor/ sì che parlare null’omo pote ma ciascun sospira”) e medesimo è il senso di lontananza dal campo del possibile percepito da chi le vede sfilare in televisione.

Come era dunque possibile trovare una modella alta un metro e ottanta, biondo platino, “occhi di cielo” (come dice il giovane innamorato dell’attimo fuggente) e con le misure perfette 90-60-90? Avevamo l’arma informatica. Un modem a 56k e un amico che aveva nome Lorenzo (come, appunto, il Magnifico) mi misero in contatto con siti antesignani di gnoccatravel. Non esisteva ancora nemmeno il motore di ricerca di google, al tempo. Non so come facemmo a scovare da qualche parte nella rete, rigorosamente in slang americano, un post in cui veniva per filo e per segno descritta la “scena pay” della Parigi di fine anni Novanta. Un’enciclopedia che partiva dal livello “chip and dirty” e finiva in quello “top class”, dove i prezzi erano bollati come “unacceptable”. Si favoleggiava di un locale chiamato “Le Baron”, dove i miliardari entravano per incontrare vere modelle. Con l’equivalente di un milione di vecchie lire era possibile “sdebitarsi” con il locale e uscire con una ragazza, la quale poi, accompagnata in un hotel a quattro o cinque stelle, chiedeva altrettanto per i propri favori. Avevo quindi preparato una busta con due milioni di vecchie lire. Il mio amico invece non preparò nulla perché diceva di voler puntare al “chip and dirty” con una stradale (cosa che poi non fece, preferendo anch’egli vedere l’avventura top anche se solo come spettatore dell’incontro).

La parte più difficile della preparazione fu trovare il modo di soddisfare il “dress code” del locale. Matteo, il capoclasse tuttologo, sosteneva che bastasse un maglione elegante “con il collo a V”, ma io volevo un vestito di gala. Così ricorsi al gusto e all’esperienza di mia madre ed al finanziamento di mio padre. Dopo vent’anni, conservo ancora da qualche parte nell’armadio “il completo di Parigi”. Il dettaglio più critico furono le scarpe: non ero affatto abituati a camminare con delle scarpe in cuoio nuove di quell’elegantissimo genere e scivolavo terribilmente ad ogni passo. Decidemmo di rilassare il requisito dell’eleganza “incidendo” artigianalmente la suola per scivolare meno (un po’ come nei tempi eroici delle corse quando, con la pioggia, le slick venivano intagliate a mano per ottenere delle semislick ante-litteram). Partimmo di domenica sera dalla stazione (ed era la domenica in cui mi ero alzato alle 3 di mattina per vedere il GP d’Austrialia dello scambio di favori Hakkinen-Coulthard su Mclaren-Mercedes: era il primo GP della prima stagione in cui vennero guarda caso imposte le “gomme scanalate” in F1, assieme alle carreggiate ristrette). In treno i “cari compagni” non mi fecero chiudere occhio un momento. All’arrivo a Parigi ero distrutto e dispiaciuto per non poter dormire (bisognava iniziare a visitare la città). Mi ricordo solo che ci portarono in un padiglione in cui si visionava un filmato dove ad un certo punto appariva Mario Andretti con il figlio Micheal quando correvano assieme in F. Indy (si vedevano alcune scene da un triovale e l'immancabile immagine del podio con padre e figlio a Nazareth).

Finalmente venne ancora sera e mi riposai. La giornata (anzi, la sera) successiva era quello destinata all’impresa. Con un gruppo scelto di “cavalieri” partii per l’impresa. Eravamo troppi per prendere un taxi e troppo lontani per andare a piedi. Optammo per la metropolitana. Mi ricorderò sempre la scena nel vagone della metro nella quale, dovendo “proteggere” il tesoro che avrei dovuto consegnare alla mia bella, mi muovevo circospetto, circondato dagli amici che si atteggiavano a guardie del corpo di un magnate russo. Scene da 007 “fai da te” no Alpitour. Se ci fosse stato per caso un ladro vero, ci avrebbe beccati subito. Ed io con quelle scarpe con cui, nonostante gli intagli, continuavo a scivolare ad ogni spostamento! Finalmente giungemmo davanti al mitico Le Baron. Subito un via vai di limousine e di auto di lusso (del genere Mercedes Classe S dell’incidente di Lady D. che era avvenuto da meno di un anno) che eravamo capitati nel posto giusto. “This is not a discoteque! Silence! Musique! This is a club! High Class Club. Very high price!” Ci ammonì preventivamente il proprietario giapponese evidentemente preoccupato per l’arrivo di una decina di baldi giovanotti di poco maggiorenni (per fortuna, proprio a causa della gita scolastica, avevamo tutti fatto le carte d’identità valide per l’espatrio per dimostrarlo). Il più smargiasso di noi, l’epico Filippo, se ne uscì con un memorabile “Don’t worry, we are very rich. We don’t care about price….”. Quel “we don’t care” diventò un tormentone per gli anni a venire.

Entrando, passammo accanto ad una modella giapponese, con i capelli tagliati a caschetto, che pareva disegnata da un autore di manga, tanto era sensuale. Si vedeva che non la (allora ancora “cafona”) mafia russa, ma la raffinata “Jakuza” gestiva il locale. I commenti si sprecarono. Qualcuno di noi ebbe quasi uno svenimento. Ma il mio obiettivo erano le madonne bionde. Ci sedemmo e ordinammo da bere. Lorenzo e Davide iniziarono il giro di perlustrazione delle tipe. Poi mi vennero a riferire: “abbiamo individuato l’obiettivo, adesso viene a sedersi qua, tu stai fermo e tranquillo, se inizia ad accarezzarti non ti spaventare”. Mi credevano più agitato di quanto fossi. Venne in effetti una stangona bionda da copertina (ma non da copertina di giornalaccio porno da edicola, da copertina di un Cosmopolitan o di un settimanale “serio”, o addirittura politico, quando, per attirare nuovi lettori, punta sullo stupore suscitato da una bellezza fuori dall’ordinario e sull’eleganza delle forme femminili) che si sedette proprio accanto a me. Poteva essere una versione ancora “migliorata” di Valeria Mazza (da ventenne), ma con uno sguardo meno cerbiatto, degli occhi più grandi e ancora più pieni di splendore. Con le membra scolpite, i lunghi capelli ondeggianti davvero come neve trasportata dal vento le sue forme perfette di modella avvolte nell’aderente e cortissimo vestito bianco (ancora!), pareva veramente una statua a cui gli dei, commossi, avessero voluto donare la parola e l’anima. “How are you…” e i soliti convenevoli.

Per fare conversazione, i miei amici le chiesero l’età, cosa che sconvolse la mia educazione di allora (mia madre mi aveva sempre ripetuto che alle signore non si chiede mai, e lei stessa evitava quando possibile di presentare documenti dove la sua data fosse indicata), ma non l’interessata. A 24 anni se lo poteva permettere. Anche se, per un diciottenne come me, era una “grande età”, un’età cioè in cui le donne possono già raggiungere il culmine della loro bellezza e compiere “l’ideale” per cui sono desiderate da tutti i garzoncelli (in misura maggiore di quanto non lo sia la femminilità ancora in qualche modo acerba delle coetanee). Desiderare ragazze “più grandi” di me era sempre stata una costante per me, parte del mio volere ad ogni costo la perfezione, a costo anche dell’irraggiungibilità. Nessuno di quelli che conoscessi stava infatti con una ragazza più grande, e sicuramente nessuno con una bellezza simile (non era ancora scoppiata la moda dei baby calciatori con le showgirls affermate).

Ora la donna esteticamente ideale e socialmente irraggiungibile mi era seduta accanto, sullo stesso divanetto. Così vicino che mentre parlavo non potevo evitare di scivolare con lo sguardo sulle sue due rotondità del petto, contenute nel candido vestito come pompelmi in una cesta, come “pesche intatte”, come bianche nuvole che si sprigionano lentamente verso l’alto (“nube lattea che la montagna esprime dalle sue mamme delicate”, avrebbe detto D’Annunzio nel Novilunio di Settembre). Per non delirare distolsi lo sguardo che però finii sulle sue gambe, che teneva leggermente accavallate e che, dato il minivestito, non lasciavano molto all’immaginazione. La perfezione, del resto, non ammette commenti. Da quella volta mi resi conto che quando si dice “gambe da modella” non si produce un banale “sintagma stereotipato”, ma si compie una classificazione con un preciso riscontro nella realtà. Anche senza ancora poterle accarezzare, provavo già la sensazione della morbida sabbia indorata dal sole e lisciata dall’onda. Era, ella, piuttosto abbronzata per essere un tipo slavo.

Quando le chiesi da dove venisse e mi rispose “I’m Russian”, io, suggestionato da Keats e dalla sua “Ode to a Grecian Urn”, capì “I’m Grecian” (senza capire che se fosse stata greca avrebbe detto, nel mondo moderno, “Greek”) e iniziai con la lode alla bellezza classica. Quando capii di dover parlare di Russia, capii di essere in difficoltà, perché la scuola italiana (complice il “manzonianesimo” giustamente criticato da quel personaggio di prof interpretato da Silvio Orlando) non mi aveva ancora permesso di entrare in contatto con i grandi autori russi (avrei avuto bisogno di incontrare, molti anni dopo, una ex-modella ed ex-escort per essere introdotto a Bulgakov e a Tolstoj, ma questa è un’altra storia). Per fortuna non ce ne fu bisogno. Si mise pure a parlare un po’ di Italiano (la fame di gnocca dei nostri connazionali faceva miracoli, e, unita al poter d’acquisto e al benessere che avevamo quando ancora la Banca d’Italia stampava le mai abbastanza rimpiante Lire, poteva più del Manzoni diffondere la tosca favella nel mondo) per dirmi che “puoi uscire con una ragazza, ma devi prima ordinare una bottiglia di champagne”. Mai uomo più felice di cantare “cameriere, champagne!”. Cos’era il vile, strisciante e frusciante denaro al confronto con l’alta e statuaria bellezza? Il problema era però l’inflazione.

Da quando il reporter gnoccatravel ante litteram aveva postato la sua guida sul web era passato evidentemente qualche mese (se non un anno) ed i prezzi del locale erano sensibilmente aumentati. “Ragazzi, qui si rischia di finire la serata a lavare i piatti per i giapponesi”. Si organizzò quindi una colletta per me, come in ogni commedia italiana di rispetto. Con la nuova iniezione di denaro, che teneva conto del costo combinato di bottiglia, hotel di lusso ed escort top, potei finalmente alzarmi dal divano tenendo per mano il mio sogno estetico. Lorenzo chiese ed ottenne di poter dare almeno un bacio sulla guancia alla mia modella-escort. Davide si limitò invece a dirmi nell’orecchio “Zio c….. chiavala tutta”.

Io non mi preoccupavo, perché vivevo ancora nell’illusione che tutte le difficoltà fossero nell’approvvigionamento della gnocca e che una volta in camera con lei la massima bellezza avrebbe anche provveduto al massimo piacere. Usciti dal locale, ella divenne più spigliata, e mi chiese qualcosa della mia vita e dei miei hobby. “Oh do you like cars, and what cars do you have”. “A race car”, risposi, pensando alla mia Williams. Ma ella, evidentemente pensando ai soldi, capì dal mio inglese scolastico “a rich car”. Il dialogo fra noi non iniziava nel più comunicativo dei modi. Arrivati in hotel, il cameriere dalla reception (complice e corrotto) mi sorrise dicendo “a special price for you”. E per fortuna! Era praticamente il doppio di un hotel a quattro stelle normale. Dettagli. Una volta in camera, la mia bella andò a farsi la doccia (non sapevo ancora che quello schema comportamentale femminil-professionistico avrebbe segnato praticamente tutti i miei incontri amorosi: credevo ancora che, come nei film, appena entrati iniziassero i furori erotici con tanto di urla animali e vestiti volanti). Io, rimasto solo davanti allo specchio (“put down your clothes in the meantime”, mi aveva detto) facevo gesti di esultanza per sottolineare la storicità del momento. Tutto quello che per anni avevo sognato e desiderato si stava avverando. La più bella fra le belle fra le mie braccia. Ah, magia del denaro! Al diavolo il moralismo perbenista (mi pareva di sfidare le leggi borghesi andando a puttane, anche se all’epoca la crociata antiprostituzione non era forte come oggi, ma, si sa, chi voglia il piacere deve avere una resistenza da vincere).

Non avevo fatto i conti con la più debole ma pur presente realtà della carne. Se fossi stato un lettore di quelli che all’epoca si chiamavano “carnacci” avrei forse avuto qualche punto di riferimento. Ma io mi ero formato solo su romanzi francesi e liriche stilnoviste. Persino le attività autoerotiche erano stilizzate: fantasia su immagini di modelle che fra le pagine delle riviste di auto o di quelle di moda (piratate dai primi “spacciatori” di gnocca via floppy) mettevano sì ben in vista gambe e seni, ma non erano mai completamente nude (al massimo in bikini) e comunque mai in atto sessuale.
Fu così che quando la modella reale, uscita dalla doccia, si mise nella posizione volgarmente detta “pecorina” uscì anche totalmente dal mio immaginario erotico. Di più: così acquattata a quattro zampe e protesa in avanti come volesse defecare mi fece sentire un Fantozzi. “Fuck me”. Mi disse “Co-co-come?” pensai parlando fantozzianamente. “You don’t like this position”. E allora si sdraiò in avanti a gambe aperte. “Fuck me”. “But, I don’t know where is it!” Non sapevo neanche che si dicesse “pussy”. Pietosa, si girò verso di me mettendosi nella posizione volgarmente nota come “smorzacandela” ed inizio ella a fottermi.

“Ma come ti fotteva, così o così” – mi chiese a questo proposito Lorenzo quando, assieme agli altri “cavalieri” che mi avevano accompagnato al locale, stavamo tutti assieme ricostruendo “l’incidente probatorio” con il quale dovevo “provare” a tutti il fatto di aver finalmente compiuto la prima scopata della mia vita. Dovetti poi raccontare come, nonostante tutti gli sforzi, forse perché improvvisamente impaurito dall’ipotesi di essere scoperto dai prof, forse perché intimorito da un insieme di manovre (fra creme e preservativi vari) che mi parevano un’operazione asettica e odorante di plastica, non fossi riuscito a raggiungere il culmine del piacere. “Non sei venuto?” Mi aveva detto quando mi aveva sentito smettere di assecondare i suoi movimenti “Perché non sei venuto”. “Se non vieni adesso non vieni più”. Strano che la modella straniera con cui avevo dialogato solo in Inglese fuori dalla camera, appena sul letto avesse magicamente “switchato” in un Italiano degno di Pietro Aretino. Che sia davvero la nostra lingua quella dell’Eros “par excellence” (alla faccia dei cugini francesi)? O, semplicemente, sono (anzi probabilmente erano) gli Italiani i clienti per eccellenza delle modelle disposte a concedere le proprie grazie per denaro.

Ad ogni modo, dovetti in qualche modo giustificare la mia (di solito, non uso francesismi, ma qui eravamo davvero in Francia…) “défaillance”. L’ipotesi di tacerla e raccontare al posto della realtà travagliata un’impresa liscia e stereotipata da fumetto porno (come avrebbe fatto un qualunque coetaneo sostenitore del mito del “trombatore”) non mi era neppure passata per la testa. Fu il tipico momento in cui un pizzico di ingenuità in meno nell’intimo mi avrebbe risparmiato tantissimi sfottò pubblici negli anni a venire. Forse avrebbe anche cambiato il mio modo di approcciarmi alle ragazze, di avere fiducia nelle mie doti amatorie e non solo, di ricercare l’amore stesso. O forse no, perché magari i motivi che mi hanno poi trattenuto dal corteggiare (e, soprattutto dal vedere le ragazze dell’ambiente che conoscevo come “papabili”) erano altri (rispetto allo “sputtanamento” – è proprio il caso di dirlo – di questa vicenda), la sfiducia nelle possibilità di conquista motivata da considerazioni numeriche e razionali (basate sulla considerazione di non avere ancora conseguito un’affermazione sociale tale da rendermi degno delle belle da tutti disiate e sulla bassa probabilità di incontrare fra tali rare fanciulle proprio una a cui risultare gradito per motivi intellettivi o sentimentali, piuttosto che sul timore di non essere all’altezza su un piano puramente sessuale), la scelta di praticare la continenza o di rivolgermi al pay decisa (come si vedrà nel prossimo grado di separazione) da attente riflessioni personali e precise motivazioni filosofiche. Rimarrà un dubbio del lettore l’ipotesi che tutto questo abbia, freudianamente, una base puramente sessuale.

Quello che è certa è la mancanza totale di discrezione da parte dei miei compagni di sventura, i quali, dopo essersi fatti raccontare ogni particolare, andarono in giro a sbandierare ai quattro venti che “era morto il mio uccello”. Non nascosi infatti che, dopo l’uso di strani unguenti e del preservativo, non riuscissi più, nemmeno a distanza di ore, ad avere un’erezione (e la cosa proseguì per giorni, per tutto il periodo della gita e in parte anche a casa). “Ecco, questi preservativi ritardanti sono un disastro” – fu il commento tecnico di Paolo, forse l’unico fra noi ad avere una sufficiente esperienza amatoria. “Ma sì, ti dico che, per paura venissi subito come capita a chi è alla prima esperienza, ti ha infilato un ritardante. Solo che tu non ne avevi bisogno.” Le mie giustificazioni erano più psicologiche “quando ho pensato che potevo essere beccato e rischiare di non essere ammesso alla maturità mi sono bloccato”. “Zio c…. che coglione, tanto se ti beccano ti beccano, ti conveniva intanto scopare. Sei proprio un coglione” – commentò spavaldamente Davide. “Io una così alla pecorina non riesco neanche ad immaginarla…” - soggiunse desolato “Ti avevo detto di chiavarla tutta anche per noi….”. “Ma io l’ho chiavata!” mi difesi in estremo. “No, hai solo messo l’uccello in una guaina calda” fu la lapidaria risposta.

Più dunque che nel momento della scopata, plastificata e abortita, preferisco ricordarmi della russa di Parigi nell’attimo del commiato, in cui, con preoccupazione quasi materna, mi diede un dolce bacio sulla guancia raccomandandosi di dire all’autista del taxi di dover arrivare il albergo in non più di dieci minuti. Altrimenti, ella dicea, sarei stato fatto girare a vuoto per la città con l’unico scopo di far incrementare il tassametro.

Escort Advisor_mobile

Propongo di cambiare il titolo del thread in “Pippe mentali all’ennesima potenza”.

Così, come chi ‘non ha dolce donzell con cui deliziar il nobile augell’ finisce leopardescamente a ‘sollazzar il proprio membro con mano’, ingobbito e ripiegato su sé stesso, confondendo la forma con la sostanza, tradendo la funzione biologica riproduttiva con un surrogato falangeo, con l’unico fine della scarica endorfinica che, nè più nè meno di una sostanza dopante psicotropa miri non alla veritá dinamica del creato, ma all’offuscamento della mente e al riequilibrio energetico del neurotrasmettitore, mentre al di lá della siepe, che il guardo esclude, interminati
spazi e infiniti silenzi vivono nel sabato del villaggio,
allo stesso modo la razionalitá onanistica prende il sopravvento, e tradite le istanze romantiche del creato il ratto s’apprende, il ratto apprende d’aver fatto la fine del topo, e vacillando nel suo rapporto con l’esistenza, naufragando e non riuscendo a interagire con esso, e con il sesso, cerca un appiglio e nel pensier si finge, si finge scrittor, nobile letterato, un intellettuale, un artista che lontano dai riflettori del palcoscenico tradizionale, sceglie l’arena del sottobosco gnoccatravellesco-cavalleresco per rappresentare sé stesso al creato, e rappresentare il creato a se stesso,
ma ahimé d’in sù la vetta della torre antica, il passero é solitario, e a nulla serve osservare incantati la danza di Shiva sulle pareti della caverna platonica, Lei non c’é, non c’é il Femminile, prorompente istanza categorica del creato, energia riproduttiva, metafisica e trascendentale, che sublima se stessa negli orgasmi liquidi di una notte. Cosa resta ? Il Re é nudo, resta soltanto una deriva quantistica razionale, il gatto é vivo o morto ? un’equazione ce lo dirá, ma non espressione di una matematica assoluta che, ingegneristicamente parlando, ha ragione d’esistere soltanto in rapporto con il creato, con le multiformi possibilitá dell’esistenza. No, tra Eros e Thanatos abbiamo scelto Thanatos. Che il destino si compia, lo spettacolo é finito signori, un applauso del pubblico, nel pensier mi ‘fingo’ e naufragar m’é dolce in questo mare.

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@Feynman said:
Propongo di cambiare il titolo del thread in “Pippe mentali all’ennesima potenza”.

Perchè, quelli che fuori da qua vengono chiamati pomposamente "valori", sono qualcosa di diverso?

@Feynman said:
Così, come chi ‘non ha dolce donzell con cui deliziar il nobile augell’ finisce leopardescamente a ‘sollazzar il proprio membro con mano’, ingobbito e ripiegato su sé stesso, confondendo la forma con la sostanza, tradendo la funzione biologica riproduttiva con un surrogato falangeo, con l’unico fine della scarica endorfinica che, nè più nè meno di una sostanza dopante psicotropa miri non alla veritá dinamica del creato, ma all’offuscamento della mente e al riequilibrio energetico del neurotrasmettitore, mentre al di lá della siepe, che il guardo esclude, interminati
spazi e infiniti silenzi vivono nel sabato del villaggio,

Già venti anni fa ti avrei risposto che di Leopardi si ragiona ancora, mentre dei recanatesi che si divertivano resta si e no il nome nel cimitero (se non li hanno ancora traslati). E poi vogliono fare il festival della poesia...

@Feynman said:
allo stesso modo la razionalitá onanistica prende il sopravvento, e tradite le istanze romantiche del creato il ratto s’apprende, il ratto apprende d’aver fatto la fine del topo, e vacillando nel suo rapporto con l’esistenza, naufragando e non riuscendo a interagire con esso, e con il sesso, cerca un appiglio e nel pensier si finge, si finge scrittor, nobile letterato, un intellettuale, un artista che lontano dai riflettori del palcoscenico tradizionale, sceglie l’arena del sottobosco gnoccatravellesco-cavalleresco per rappresentare sé stesso al creato, e rappresentare il creato a se stesso,

Tu e gli altri dovreste soltanto rigraziare che, almeno per ora, io ed i miei simili ci accontentiamo del sottobosco. Se dell'esistenza ci sono rimaste solo le briciole perchè i baroni all'università hanno preso al nostro posto scelte sbagliate che dobbiamo pagare sulla nostra pelle e i politici nell'occidente si sono venduti ad interessi altrui, si potrebbe anche uscire allo scoperto ed usare l'AK47 al posto della penna. Personalmente di saper interagire con la realtà ho dato prova dal primo giorno di prima elementare fino alla tesi di laurea (i numeri, quando i risultati dipendenvano da me solo, non hanno mai mentito). Ed anche dopo quando posso lavorare con i criteri che mi sono propri. Certo, se "lavoro di gruppo" significa pagare il fio della mediocrità altrui e delle decisioni scriteriate di chi è abituato a comandare per grazia ricevuta e lo fa "divertendosi" sulla pelle altrui senz'altra preoccupazione che di far vedere aver sempre l'ultima parola (anche quando è un'emerita cazzata) allora ho comprensibilmente poca voglia di interagire in questo "lavoro". Meglio dimenticare questo genere di "scienza" (almeno in vacanza) e rifugiarsi nella letteratura. Se però volete l'interazione col mondo, non lamentatavi se a quel punto si dovrà parlare di politica (che invece volevamo fuori dal forum).
Sono abituato dall'età scolare ad essere irriso da gente che non vale un pelo del mio culo e ormai sto facendo l'abitudine alle prediche da parte di chi, senza meriti particolari (se non magari quello di essere nato in tempo al posto giusto), si trova in posizione socialmente privilegiata e accusa chi isolitamente più giovane) si trova più in basso non di essere stato sfortunato o ostacolato, ma semplicemente di "valere meno". Se ogni tanto scendesse sul ring a confrontarsi direttamente, questa gente...

@Feynman said:
ma ahimé d’in sù la vetta della torre antica, il passero é solitario, e a nulla serve osservare incantati la danza di Shiva sulle pareti della caverna platonica, Lei non c’é, non c’é il Femminile, prorompente istanza categorica del creato, energia riproduttiva, metafisica e trascendentale, che sublima se stessa negli orgasmi liquidi di una notte. Cosa resta ? Il Re é nudo, resta soltanto una deriva quantistica razionale, il gatto é vivo o morto ? un’equazione ce lo dirá, ma non espressione di una matematica assoluta che, ingegneristicamente parlando, ha ragione d’esistere soltanto in rapporto con il creato, con le multiformi possibilitá dell’esistenza. No, tra Eros e Thanatos abbiamo scelto Thanatos. Che il destino si compia, lo spettacolo é finito signori, un applauso del pubblico, nel pensier mi ‘fingo’ e naufragar m’é dolce in questo mare.

Aspetta, aspetta, che le donne verranno. Per ora non mi sembra il caso di dire che ha vinto Thanatos solo perchè ho fatto cilecca la prima volta! E poi certo che se scegliere l'eros costa due milioni delle vecchie lire, anche Schroedinger avrebbe preferito l'alternativa...

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@Beyazid_II

Ho letto con interesse i tuoi precedenti scritti sull'inganno alla base delle teorie femministe, e i tentativi degli uomini di riequilibrare con meriti, denaro, successo e potere dei rapporti sbilanciati tra i sessi.

Al di là del mio precedente scritto goliardico, in cui tra il serio e il faceto ti facevo notare che il rifugiarsi nei grandi costrutti razionali è una fuga dalla realtà, così come è stata una fuga dalla realtà per Leopardi, o per John Nash, se vogliamo parlare anche di scienziati.

La fuga dalla realtà, che può servirsi di droghe, costrutti razionali, elaborazione del software, scrittura di libri, ludopatia, o tutto quello che ti pare, fornisce un temporaneo sollievo in quanto fornisce l'illusione di avere il controllo sulla realtà, quando invece della realtà ci si è ritagliati un piccolo pezzettino e si è lasciati fuori tutti gli altri.

Non è una critica personale nei tuoi confronti, io stesso ho la tendenza a compensare mancanze a livello emotivo con un'iper-razionalità. Ma il mondo sociale, come hai detto tu, non fa scelte razionali, e in un contesto in cui non è premiato il merito, i costrutti razionali sono visti sempre con diffidenza e distacco. Soprattutto le donne, fanno scelte emotive e non razionali, e mettere in mostra le proprie capacità, elaborarando costrutti razionali di hegeliana complessità, così come il pavone che mostra la ruota, genera nelle persone mediocri l'effetto opposto di quello che si vorrebbe ottenere.

In un periodo della mia vita in cui ero anch'io concentrato ad elaborare costrutti teorici di straordinaria complessità, ho visto casualmente un film intitolato "La cena dei cretini".
Il protagonista era un tizio che aveva l'abilità di costruire strutture complesse utilizzando degli stuzzicadenti, tipo la Torre Eiffel e roba simile. Lui si vedeva come un genio, e si chiedeva perchè la gente non lo riconoscesse come tale e lo sottovalutava. Ecco, lui era il cretino invitato a cena da persone infinitamente più misere e cretine di lui, ma solo e unicamente per deriderlo e umiliarlo.
Dopo aver visto il film mi sono chiesto se per caso non stavo anche io costruendo dei monumenti con degli stuzzicadenti che non interessavano a nessuno. E ho deciso di mettere un limite ai ragionamenti, di costruire un recinto al di là del quale il percorso diventava inutile e limitante (qualcuno lo chiama ecologia della mente).

Tutto questo non ha niente a che vedere con quello che scrivi, possono essere anche degli sprazzi di luce e verità sull'universo che illuminano il creato. Ma ognuno deve decidere che tipo di vita vuole condurre, quella chiusa in biblioteca di Leopardi, nei laboratori nello scantinato di un'università inglese, scrivere su un forum come se fosse telefono-amico, oppure in spiaggia in Thailandia a fare una nuotata, prendere il sole, e sorbirsi un fruitshake tra una trombata e l'altra.con la gnocca.

Perchè l'unica cosa certa è che dopo che saremo morti saremo solo morti, che si sia stati Leopardi, Kant, Cicerone o Lucio Battisti, non importa..

Chi vuol esser lieto sia, di doman non c'è certezza.

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"in spiaggia in Thailandia a fare una nuotata, prendere il sole, e sorbirsi un fruitshake tra una trombata e l'altra.con la gnocca."

@Feynman è evidente che sei una persona di spessore, e anche molte cose che hai scritto sarebbero da commentare. Questa semplice frase buttata lì tra un concetto e un altro però mi ha allargato il cuore, perché godere di una Gnocca come si gode di uno shake e subito dimenticarsene è forse il segreto della felicità.

Purtroppo ci sono anche le malattie, la Gnocca bisognerebbe coltivarla in una serra e poi quando è matura si toglie dal cellophane e si consuma, io invece riesco solo a complicarmi la vita con più storie di quelle che posso gestire.

- Che cazzo è quello?
- Ti sei risposto da sola.

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@Beyazid_II

Aggiungo soltanto al precedente post che gli stessi ostacoli sociali che dici di incontrare tu, precarietá e preclusione di carriere accademiche, li ho incontrati anche io spesso, con obbligo di reiventarmi più volte nella mia vita e diventare imprenditore di me stesso. Il fatto che tu mi abbia associato ai senior, quelli dei ‘diritti acquisiti’ per intenderci, é una toppa colossale. Magari facessimo la rivoluzione (io sarei il primo), e mandassimo un po’ di questi vecchietti in pensione. Ma in pensione vera, non in pensione da dove continuano a lavorare con le finte consulenze.

Tutto questo, come si dice, per completezza di informazione.

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@FlautoMagico said:
"in spiaggia in Thailandia a fare una nuotata, prendere il sole, e sorbirsi un fruitshake tra una trombata e l'altra.con la gnocca."

@Feynman è evidente che sei una persona di spessore, e anche molte cose che hai scritto sarebbero da commentare. Questa semplice frase buttata lì tra un concetto e un altro però mi ha allargato il cuore, perché godere di una Gnocca come si gode di uno shake e subito dimenticarsene è forse il segreto della felicità.

Purtroppo ci sono anche le malattie, la Gnocca bisognerebbe coltivarla in una serra e poi quando è matura si toglie dal cellophane e si consuma, io invece riesco solo a complicarmi la vita con più storie di quelle che posso gestire.

Grazie. Il discorso felicitá é molto complesso e soggettivo, forse meriterebbe un topic a parte.

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@Feynman said:
@Beyazid_II

Ho letto con interesse i tuoi precedenti scritti sull'inganno alla base delle teorie femministe, e i tentativi degli uomini di riequilibrare con meriti, denaro, successo e potere dei rapporti sbilanciati tra i sessi.

Al di là del mio precedente scritto goliardico, in cui tra il serio e il faceto ti facevo notare che il rifugiarsi nei grandi costrutti razionali è una fuga dalla realtà, così come è stata una fuga dalla realtà per Leopardi, o per John Nash, se vogliamo parlare anche di scienziati.

La fuga dalla realtà, che può servirsi di droghe, costrutti razionali, elaborazione del software, scrittura di libri, ludopatia, o tutto quello che ti pare, fornisce un temporaneo sollievo in quanto fornisce l'illusione di avere il controllo sulla realtà, quando invece della realtà ci si è ritagliati un piccolo pezzettino e si è lasciati fuori tutti gli altri.

Non è una critica personale nei tuoi confronti, io stesso ho la tendenza a compensare mancanze a livello emotivo con un'iper-razionalità. Ma il mondo sociale, come hai detto tu, non fa scelte razionali, e in un contesto in cui non è premiato il merito, i costrutti razionali sono visti sempre con diffidenza e distacco. Soprattutto le donne, fanno scelte emotive e non razionali, e mettere in mostra le proprie capacità, elaborarando costrutti razionali di hegeliana complessità, così come il pavone che mostra la ruota, genera nelle persone mediocri l'effetto opposto di quello che si vorrebbe ottenere.

In un periodo della mia vita in cui ero anch'io concentrato ad elaborare costrutti teorici di straordinaria complessità, ho visto casualmente un film intitolato "La cena dei cretini".
Il protagonista era un tizio che aveva l'abilità di costruire strutture complesse utilizzando degli stuzzicadenti, tipo la Torre Eiffel e roba simile. Lui si vedeva come un genio, e si chiedeva perchè la gente non lo riconoscesse come tale e lo sottovalutava. Ecco, lui era il cretino invitato a cena da persone infinitamente più misere e cretine di lui, ma solo e unicamente per deriderlo e umiliarlo.
Dopo aver visto il film mi sono chiesto se per caso non stavo anche io costruendo dei monumenti con degli stuzzicadenti che non interessavano a nessuno. E ho deciso di mettere un limite ai ragionamenti, di costruire un recinto al di là del quale il percorso diventava inutile e limitante (qualcuno lo chiama ecologia della mente).

Tutto questo non ha niente a che vedere con quello che scrivi, possono essere anche degli sprazzi di luce e verità sull'universo che illuminano il creato. Ma ognuno deve decidere che tipo di vita vuole condurre, quella chiusa in biblioteca di Leopardi, nei laboratori nello scantinato di un'università inglese, scrivere su un forum come se fosse telefono-amico, oppure in spiaggia in Thailandia a fare una nuotata, prendere il sole, e sorbirsi un fruitshake tra una trombata e l'altra.con la gnocca.

Perchè l'unica cosa certa è che dopo che saremo morti saremo solo morti, che si sia stati Leopardi, Kant, Cicerone o Lucio Battisti, non importa..

Chi vuol esser lieto sia, di doman non c'è certezza.

Caro Feynman,
Scusa se me la sono presa con il tuo scritto goliardico scambiandolo per le tante prese in giro dirette nei miei confronti da compagni e colleghi dalle medie al periodo attuale. Purtroppo, la tua risposta mi è giunta in contemporanea con l'ultima uscita dell'Anvur (che rischia di mettere una pietra tombale sulla mia possibilità di rimanere in accademia) e ciò ha creato un cortocircuito nella mia mente.

Mi va anche bene che l'avere pochi amici, un "social circle" (come dice qualcuno a proposito del cuccaggio) troppo ristretto, il concentrarmi troppo in costrutti razionali ed il non dire o fare cose "alla moda" implichi l'impossibilità di ottenere gnocca free, ma che gli stessi motivi debbano precludermi la possibilità di rimanere nella ricerca scientifica mi sembra un tantino esagerato. Eppure questo è quanto mi sta preparando l'Anvur (con la firma del nuovo ministro che, alla faccia del cambiamento, ha avallato quanto già in atto dal 2011).

Merita una spiegazione (sperando di farmi perdonare). Come forse già saprai, ci sono tre indicatori soglia che bisogna superare (anzi ne bastano due su tre) per essere valutati "positivamente": il numero di pubblicazioni, il numero di citazioni e l'h-index (si ha h index h quando si hanno h pubblicazioni citate h volte).

Tralasciando il particolare "filosofico" che una valutazione di questo genere è puramente quantitativa (con tanti saluti alla sbandierata "qualità della ricerca" che si vorrebbe valutare, ma, si sa, filosofi più autorevoli di me hanno da decenni rilevato come viviamo nell'era della quantità),

Se la prima soglia può essere (con molti distinguo) in qualche modo una misura del lavoro svolto da un ricercatore (se si lavora bene, si ottengono un certo numero di pubblicazioni su riviste prestigiose, al limite lavorando da soli o come primo autore, al netto del fatto che anche chi lavora poco e mediocremente può comunque pubblicare bene se si trova all'interno di un gruppo "forte" in tal senso, magari dando, opportunamente guidato, un contributo minimo appena sufficiente ad apparire fra gli autori, ma di questo ci possiamo disinteressare come insegna in vangelo con la parabola dell'operaio che non deve lamentasi se anche chi ha lavorato di meno percepisce la stessa paga) salta subito all'occhio come le altre due siano fortemente correlate, dipendendo entrambe sostanzialmente da quanto si riesce a farsi citare.

Nel panorama attuale, dove ogni mese escono migliaia di pubblicazioni da parte dei milioni di ricercatori sparsi nel mondo, è assolutamente impensabile che qualcuno, cercando semplicemente per parole chiave, si trovi per caso a leggere proprio il tuo paper e decida di citarlo perchè "meritevole". Non nego che chi sappia pubblicare un lavoro da nobel (o comunque di grande ed oggettivo impatto) riceva in seguito un numero esorbitante di citazioni a prescindere da quanto elencato sotto, ma si tratta di casi isolati, appunto da nobel, non certo la norma con cui valutare la massa dei lavori di ricerca. Certo, se un lavoro ha 1000 citazioni, allora probabilmente (al netto della "fama" dell'autore che aumenta le citazioni con effetto di retroazione positiva) è davvero valido, ma si tratta, appunto di eccezioni. Fra un paper che ha zero citazioni ed uno che ne ha dieci o venti o anche trenta (e nel 99 percento dei casi si è in questa situazione), a decidere sono i successivi punti 1,2 e 3, non la differente qualità. Fuori dalle chiacchiere sul merito, infatti, sono tre i fattori a determinare il numero di citazioni:
1) il numero di persone che lavorano a topic simili: più è elevato, più è probabile essere trovati, letti e citati (ma questa è una misura di quanto l'argomento su cui si lavora è "alla moda", non di quanto sia elevata la qualità della ricerca);
2) il numero di "amici" che ci conoscono e conoscono su cosa lavoriamo: sono essi che possono citarci (o farci citare) quando si trovano a scrivere o a revisionare un paper anche solo alla lontana "correlato" (ma questa è una misura della capacità di un ricercatore di "fare amicizie" alle conferenze e di coltivarle in seguito, non di fare ricerca);
3) il numero di "amici" che sono anche editor di qualche rivista (per chi non lo sapesse, l'editor è colui che assegna le peer-review di un paper e che in ultima istanza, sulla base dei report dei revisori, decide per il sì o per il no): far assegnare con ritmo serrato e costante a se stessi o ad amici revisioni di paper affini al proprio lavoro è il modo più rapido e sicuro per essere citati (scontantare il revisore significa infatti bocciatura certa, per cui l'autore si guarderà bene da non accettare il suggerimento di inserire questa o quella citazione nella bibliografia).

Insomma, se non si lavora o si lavora male, ma si hanno molti "amici" (meglio se "potenti"), si possono passare due soglie su tre (quelle che dipendono dalle citazioni). Se si lavora bene, ma isolati o con pochi collaboratori privi di amicizie influenti, se ne può superare al massimo una (quella che dipende dalle pubblicazioni su riviste prestigiose e selettive). Nel primo caso ci si può abilitare, nel secondo no.

Cosa è cambiato l'altro giorno che mi ha fatto alterare anche con te? Ciliegina sulla torta: è stata abbassata la soglia sulle pubblicazioni (l'unica che, con tanta fatica, avevo raggiunto negli ultimi anni) ed aumentate quelle relative alle citazioni (che vedo ormai come miraggi).
Praticamente il messaggio che ricevo è: "lavora di meno dietro la tue siepe, nel silenzio del tuo ufficio, alle tue pubblicazioni su riviste anche prestigiose, che tanto restano seghe mentali e castelli di stuzzicadenti anche quando validate da revisori seri e da comitati editoriali selettivi, e spendi più tempo a conoscere gente, a far conoscere i tuoi lavori quali che siano, ad autopromuoverti, a scendere nella Recanati social".

Ecco perchè ho inconsciamente confuso te e l'Anvur. Mi sembravate dire le stesse cose.

Se posso goliardicamente accettare inviti del genere in termini di gnocca (e, comunque, nel profondo, continuo a non accettarli nemmeno lì), non posso ammetterli in ambito scientifico.

Qui la scienza di oggi sta veramente cambiando il criterio di verità dal vero/falso al piace/non piace. Un lavoro insomma non viene più valutato leggendolo, in base ai risultati che trova e al rigore con cui li persegue e li dimostra, ma a quanta gente lo conosce e ne parla. Roba che parrebbe inadeguata persino nella letteratura e nell'arte. Giudichiamo le barzellette di Totti superiori ai grandi romanzi solo perchè più citate? La validità di un film si misura davvero soltanto dal successo al botteghino? Non esistono più, nell'arte divenuta mercato, valori come l'Estetica o la Poesia? E se la cosa già è discutibile in ambito umanistico, figuriamoci in quello scientifico.
Eppure questo sta accadendo. Si sta insomma applicando alla ricerca scientifica il principio di facebook. Hai pochi amici e pochi like? Allora non sei nessuno a prescindere dai tuoi risultati che pretendi oggettivi. Poi ci si lamenta se la scienza perde autorità anche in politica? Giusto così, se la scienza si sta autodistruggendo ed autoscreditando in questo modo.

Perchè sto pagando scelte non mie?
Perchè per dieci anni (dal 2004, quando mi sono laurato, diciamo fino al 2014, quando sono finito in esilio temporaneo in Germania per mancanza di fondi italici) sono stato a vario titolo precario della ricerca e non avevo affatto il privilegio di decidere in autonomia quanto e come fare ricerca. Dovevo fare quanto mi veniva ordinato (comprese lezioni "abusive" in aula in vece di chi non ne aveva voglia, consulenze per fargli prendere soldi extra e attività di "segretariato" vario nelle quali non si fidava delle segretarie). Non solo il tempo dedicato alla ricerca era ridotto rispetto alla norma, ma anche gli argomenti della ricerca erano stabiliti "dall'alto": spesso in maniera estemporanea, a volta dettati da scenari "aziendali" con cui si aveva a che fare, mai secondo criteri "bibliometrici". Da quando le regole Anvur hanno iniziato a bocciare gente che secondo il mio "barone" avrebbe dovuto essere promossa, il vecchio si è finalmente svegliato. Da qualche anno ho in effetti l'autonomia di ricerca prevista dalla legge e difatti, in tre anni, sono riuscito in autonomia a "superare" la soglia delle pubblicazioni. Purtroppo, per le citazioni, avrei bisogno della macchina del tempo: tornare indietro e decidere di non pubblicare lavori difficilmente citabili, indirizzandomi invece sui giusti compromessi fra le mie capacità e quanto può essere realisticamente apprezzato dalla bibliometria. Questo sto facendo, ma, considerando che ci vuole un anno per fare un lavoro (se da soli o comunque come primo autore), un anno per farlo pubblicare e un paio d'anni per farlo conoscere e quindi citare, capirai che rischio di finire fuori tempo massimo (vedi legge Gelmini). Se fossi stato lasciato lavorare da solo dall'inizio, avrei, come tutti (e come ho fatto ora), individuato un argomento per cui essere negli anni, lavoro dopo lavoro, riconosciuto e su cui, quindi, ricevere la possibilità di revisionare papers simili (da cui trarre le citazioni con la bad practice di cui ai punti 2 e 3). Purtroppo lavorando "ad hopping" fra questo e quell'argomento voluti estemporaneamente dal barone, questo non è successo. E non è stata una mia scelta.
Se poi avessi avuto il privilegio di chi oggi passa per genio di essere messo a lavorare insieme ad altri già affermati su un argomento dal grande potenziale citazionale, avrei forse anch'io quelle centinaia di citazioni complessivamente richieste.

Non solo, invece, non ho avuto questo aiuto dagli altri, ma ho avuto pure impedimento a lavorare solo (ho dovuto faticare all'inizio per far capire l'importanza di potermi ritagliare un argomento "individuale" spendibile anvurianamente).

E non so nemmeno se prendermela più con il vecchio barone vicino alla pensione (che credeva di fare il mio bene e non pensava di trovarsi un giorno impotente ad aiutarmi) o con le regole Anvur.
Di certo c'è che rischio di rimanere stritolato dal cambio di regime baronato-pseudomeritocrazia.
Se fossi nato prima, avrei avuto come ricompensa del decennio di gavetta un posto fisso da associato o simili (come hanno i senior che mi deridono), se fossi nato dopo, avrei comunque avuto fin dall'inizio modo di lavorare pro-anvur (come in effetti stanno facendo i più giovani, anche se più precari).
Sono nato invece proprio nel momento sbagliato: dieci anni di baronato ricompensati dalla situazione attuale (ricercatore a termine con difficoltà a raggiungere le soglie bibliometriche e dunque "deriso" come "schiappa" dal sistema anvuriano).

Ricapitolando le conseguenze del regime anvur descritto sopra (regime "meritocratico"): la posizione all'università dipende dal numero di amici e dal potere ricattatorio (editor, revisioni per ottenere citaziono ecc.) che attraverso questi posso esercitare su chi lavora nello stesso ambiente. A casa mia un sistema siffatto non si chiama meritocratico, si chiama mafioso. Per combattere il baronato, si è quindi costruito un sistema se possibile ancora peggiore. Al barone locale si è sostituita una mafia mondiale (citation clubs e simili).

Almeno nel vecchio baronato, a parte casi di familismo e di corruzione, il "maestro", di solito, sceglieva come proprio successore, l'allievo che riteneva migliore (è stato così dai tempi di Fermi). Magari poteva sbagliare, ma almeno era la persona più indicata a giudicare. Adesso invece, con la scusa della trasparenza, si pretende di poter giudicare il lavoro di ricerca unicamente in base al curriculum e ai numeri.
Purtroppo, la ricerca universitaria è più variegata complicata dello studio liceale (in cui si possono confrontare tutti alla pari sulla base di un programma ministeriale) o di uno sport agonistico (dove i risultati "non mentono" proprio perchè sono confrontabili).
Confrontare persone che lavorano in ambienti diversi a cose diverse è come valutare se sia più blu il blu o rosso il rosso.
Solo chi ha personalmente lavorato con un ricercatore (e conosce quindi l'effettivo contributo personale al lavoro) può giudicarlo. Non certo chi legge dei numeri (e non può sapere fra n autori chi ha fatto cosa).
A me è capitato di lavorare con gente dal curriculum stellare che non capiva le cose nemmeno dopo averle spiegate
e con persone senza curriculum che hanno fatto in autonomia cose magnifiche una volta ben instradate.

Peccato tu non abbia seguito la carriera accademica. Se, come me, amavi ideare da solo "costrutti teorici di straordinaria complessità", avresti avuto grande successo nella scienza di oggi, dove i lavori teorici con un forte substrato analitico vengono apprezzati più di simulazioni e sperimentazioni (semplicemente, perchè in toto controllabili, carte alla mano, dai revisori). Io non ho potuto farlo (se non parzialmente) per 10 anni (causa obbedienza agli ordini del barone) ed ora che posso farlo a piacere a volte mi sorprendo a divertirmi lavorando. Se non fosse per la minaccia che tutto finisca per colpa dell'Anvur.....

E poi, permetti, sto vivendo una vera beffa. Quando i "numeri" si riferivano all'attività individuale (dalle pagelle delle elementari fino al libretto universitario) ed io primeggiavo (ai punti, a dirla tutta, avendo visto diversi curricula di studi, pur con il piccolo anacronismo di confrontare anni diversi dello stesso vecchio ordinamento quinquennale, "vincerei", di misura, al secondo decimale dopo il 29 virgola di media, anche contro chi è oggi è già associato ed è ritenuto una stella) vigeva il "buonismo" (non si può bocciare, non si possono ridurre le persone a numeri, eccetera, tanto che di tali primati non ho avuto alcun vantaggio se non l'esenzione per merito di trentamila delle vecchie lire ai tempi del liceo). Ora che i numeri si riferiscono a lavori di gruppo e sono finito (per i motivi esposti) in fondo alle classifiche, vige il "cattivismo" del "chi non ha i numeri deve uscire dal sistema". Quando penso che per "avere i numeri" sarebbe bastato fare quello che sapevo e amavo fare (e cioè grandi trattazioni analitiche da costruire ex-novo o quasi)....

Sì, certo, magari le mie costruzioni mentali analitiche sono inutili come le cattedrali con gli stuzzicadenti del cretino che citi, ma ti assicuro che il 99,99 percento della produzione scientifica contemporanea, ivi compresa quelle delle "star internazionali" del mio settore, non contiene nulla di sostanzialmente diverso o di più utile (solo di più citato). Devo essere discriminato proprio io?

Concludendo questo sfogo, anche avendo l'AK47 non saprei in effetti a chi sparare: all'Anvur che ha creato un sistema basato su criteri più letterari che non scientifici, o al barone che mi ha fatto lavorare in direzione diametralmente opposta per dieci anni?
Magari, da un punto di vista strettamente scientifico, era giusta la direzione del barone e sbagliata quella attuale dell'Anvur. Certo che se avessi potuto fare di testa mia (pubblicando solo su quel paio di argomenti sentiti come miei, principalmente lavori teorici), senza considerare nè anvur nè Barone, forse adesso avrei comunque almeno un h-index decente (oltre alla maggiore soddisfazione di aver lavorato secondo criteri miei e non altrui).

Morale della favola: perchè tengo questo 3d letterario? Perchè se devo anche nella scienze essere valutato con criteri da letteratura, tanto vale perdere il mio tempo sulla letteratura vera!

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alfamedic_mobile

@FlautoMagico said:
"in spiaggia in Thailandia a fare una nuotata, prendere il sole, e sorbirsi un fruitshake tra una trombata e l'altra.con la gnocca."

@Feynman è evidente che sei una persona di spessore, e anche molte cose che hai scritto sarebbero da commentare. Questa semplice frase buttata lì tra un concetto e un altro però mi ha allargato il cuore, perché godere di una Gnocca come si gode di uno shake e subito dimenticarsene è forse il segreto della felicità.

Purtroppo ci sono anche le malattie, la Gnocca bisognerebbe coltivarla in una serra e poi quando è matura si toglie dal cellophane e si consuma, io invece riesco solo a complicarmi la vita con più storie di quelle che posso gestire.

Anche io, quando ho capito che, dall'ambito lavorativo anti o pseudo meritocratico, non avrei avuto soddisfazione alcuna, ho da tempo adottato la filosofia di @Feynman.

Ho anche smesso di chiedermi perchè io o le circostanze abbiamo buttato, socialmente parlando, a mare la mia vita. Ed ho iniziato a godermela comunque.

Solo che io, dopo aver inutilmente primeggiato nello studio, ho preferito continuare con la conquista dell'inutile iniziando a salire vette da solo in ogni angolo delle Alpi, rischiando a volte pure la pelle per puro divertimento. E poi, con ancora l'adrenalina addosso, gustarmi il piacere di sentirmi ancora vivo trombando selvaggiamente le belle fanciulle degli FKK. So che per te non sono granchè, ma non avendo le tue capacità di conquista free non potrei fare altro...
Saranno sempre meglio della masturbazione nella cameretta dopo ore di studio sedentario e di viaggio immaginario.

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@Feynman said:
@Beyazid_II

Aggiungo soltanto al precedente post che gli stessi ostacoli sociali che dici di incontrare tu, precarietá e preclusione di carriere accademiche, li ho incontrati anche io spesso, con obbligo di reiventarmi più volte nella mia vita e diventare imprenditore di me stesso. Il fatto che tu mi abbia associato ai senior, quelli dei ‘diritti acquisiti’ per intenderci, é una toppa colossale. Magari facessimo la rivoluzione (io sarei il primo), e mandassimo un po’ di questi vecchietti in pensione. Ma in pensione vera, non in pensione da dove continuano a lavorare con le finte consulenze.

Tutto questo, come si dice, per completezza di informazione.

Ognuno di noi a storie diverse e magari riguardo a te ho toppato. In generale, però, non credo sia una toppa parlare di ingiustizia generazionale. Le generazioni successive alla mia hanno molte meno possibilità, a partire dall'assenza di tutele sul lavoro per finire con la maggiore virulenza del femminismo che distrugge psiche e autostima, passando per la mancata possibilità di usare il differenziale di ricchezza che un tempo avevamo rispetto all'est europa per trovare gnocca di miglire qualità con minore impegno rispetto al melanzanistan.

Rispetto la tua storia, ma mi ricordo che quando io ero studentello, chi era già ingegnere aveva stipendi che poi io e i miei "successori" ci saremmo sognati. Per non dire del posto garantito all'università per chi avesse avuto la pazienza di "mettersi in fila". Oggi tutto è cambiato in peggio (con la scusa del solito "progresso"). Cerca di capire che per me (ma anche per gli altri più giovani e ancora più precari) è difficile farsi "imprenditori di se stessi" quando per decenni si è lavorato per costruirsi una carriera laddove tutto si basa su "complessi castelli con gli stuzzicadenti".

Meglio che non ci pensi. Spero di finire questo romanzo sui miei primi quarant'anni prima di diventare il primo disoccupato generato dalla Gelmini.

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@Beyazid_II

Guarda, come si dice, sfondi una porta aperta. Comprendo quello che dici e, sebbene mi sia scelto il nickname di uno scienziato illustre, adesso vivo ben al di fuori della vita accademica, e ho passato qualche anno prima di te tutto il percorso che hai passato tu, finché alla fine avevo due possibilitá: vivere di speranze in un futuro migliore, riadattare tutto quello che avevo imparato fino a quel giorno in qualcosa di utile e redditizio. Ho scelto la seconda. Adesso non sono al corrente delle modifiche dei criteri di valutazione dei ricercatori nei concorsi, ma una cosa posso dirla: il sistema é truccato, é sempre stato truccato e sempre lo sará.
Se giochi ad un gioco in cui tutto é truccato, sei in balia degli eventi, e perdi il controllo del tuo destino. La soluzione ? Estero, ma per quanto se ne parli bene anche lì ci sono delle dinamiche complesse, e a certi livelli anche i trucchi (un mio collega tedesco, originario di un paese arabo islamico, pubblica bandi di selezione di ricercatore fasulli, lui sa giá che deve assumere i suoi amici della chiesa islamica cittadina di cui é anche imam, me l’ha detto lui, bella cosa, vero ?). Altra soluzione ? Valorizzare le competenze acquisite per fare qualcosa di concreto. Ti piace la letteratura ? Pubblica un libro. Hai competenze tecniche-informatiche ? Fai il programmatore. Hai studiato un processo chimico-fisico che realizza qualcosa di nuovo ? Fai un prototipo e mettilo sul mercato. Ti piace la gnocca ? Fai un gnoccatravel.
Se pensi che questo é proprio il periodo storico in cui il merito é un demerito, e il demerito un merito (giusto per restare negli ossimori dell’obbligo flessibile), che i bimbiminkia sono al potere e dopo la fase destruens manca una politica vera della fase costruens, e quindi vai di vaffa chiudiamo tutto, aboliamo tutto, revochiamo tutto e annulliamo tutto (sì così avete risorse, ma poi chi lavora se chiudete tutto ?), che il valore delle persone é basato sui like e i trend topic (almeno Totti l barzellette le ha pubblicate, ma qui abbiamo ministri che pensano che per aumentare il PIL basta accendere i condizionatori). E allora, che fare ?
Io proprio l’altro giorno stavo vedendo un bando per un insegnamento a contratto alla Sapienza, un quadrimestre a 825 euro lordi omnicomprensivi con una sfilza infinita di doveri sugli esami, studenti, sito internet, dispense e cazzi vari. Davvero scherziamo ?
Era un’attivitá che avrei fatto volentieri a margine del mio lavoro autonomo. Ma a quei livelli, mi sembra addirittura dequalificante. Pensiamoci. Non é che abbiamo idealizzato il lavoro nell’universitá e nella ricerca, che non é più nemmeno l’ombra del lavoro serio, rigoroso e prestigioso di un tempo ? Anche gli stipendi degli associati e dei ricercatori sono ormai ridicoli.

Qualcuno dice che non tutto il male viene per nuocere. Io non mi sarei mai potuto permettere la massima autonomia, e i viaggi della gnocca, se avessi continuato a sottostare a dei giochi truccati. Ma che vuoi fare ? Combattere contro i mulini a vento ? Pensa che se Einstein avesse sottoposto il suo lavoro a una rivista scientifica con i criteri di oggi nemmeno l’avrebbero accettato. Forse invece lo scritto di una qualche opinionista da talk show l’avrebbero accettato ? Forse sì. Le donne che hanno capito da tempi immemorabili che anche la gnocca é merce di scambio mettono anche quella sul piatto per guadagnarsi carriere accedemiche, posti di potere e prestigio. Bill Gates ha scritto su Scientific American, qual é il citation index scientifico di Bill Gates ? E potrei farti altri esempi. Cambia idea, contesto, paradigma. Fortuna audaces iuvat.

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@Feynman said:
@Beyazid_II

Guarda, come si dice, sfondi una porta aperta. Comprendo quello che dici e, sebbene mi sia scelto il nickname di uno scienziato illustre, adesso vivo ben al di fuori della vita accademica, e ho passato qualche anno prima di te tutto il percorso che hai passato tu, finché alla fine avevo due possibilitá: vivere di speranze in un futuro migliore, riadattare tutto quello che avevo imparato fino a quel giorno in qualcosa di utile e redditizio. Ho scelto la seconda.

Allora abbiamo fatto percorsi inversi. Io ho iniziato pensando, appunto, che il lavoro all'università fosse solo una perdita di tempo poco pagata. Ho cercato innanzitutto di sondare il terreno presso società di consulenza, aziende manifatturiere e quant'altro, per scoprire poi come, almeno in Italia, vi siano gli stessi svantaggi dell'università senza i vantaggi.
Vedo infatti da chi se ne è andato in azienda che l'irrazionalità è la medesima (ore e ore su documenti e scartoffie inutili, tanto tempo speso in attività di "ricerca" che poi vengono troncate, abbandonate, neglette, a capriccio dei capi), l'ingiustizia anche superiore (chi comanda e guadagna non sa fare nulla - ed in più è pure ignorante vantandosene, al contrario che da noi - mentre chi davvero opera è sottopagato) e le paghe quasi uguali (ma con vincoli ed obblighi infinitamnte maggiori, sconosciuti per fortuna all'ambiente accademico).

Insomma, all'università siamo precari e sottopagati, ma almeno siamo liberi sia nel lavoro (entro certi limiti) sia negli orari, mentre in azienda si è sempre poco tutelati e pagati, pur avendo doveri e soprattutto vincoli da dipendente classico.

Ripeto: nessuno degli ex-universitari che conosco (parlo di gente coetanea o più giovane) ha trovato condizioni socioeconomiche migliori (di cui insomma essere almeno un po' invidioso), a meno che non sia emigrato all'estero.

Adesso non sono al corrente delle modifiche dei criteri di valutazione dei ricercatori nei concorsi, ma una cosa posso dirla: il sistema é truccato, é sempre stato truccato e sempre lo sará.

Ti aggiorno subito. Per diventare professori, si deve passare un doppio ostacolo (abilitazione scientifica nazionale + concorso locale), conseguenza diretta della lotta per il potere fra due opposti poli. Sto parlando del "vecchio" feudalesimo locale (volgarmente detto "baronato" perchè, appunto, avrebbe la pretesa di trattare l'attività di ricerca, tanto in termini di argomenti quanto di persone, come un vero e proprio "feudo", di fare e disfare "investiture" senza dover rendere conto ad alcun potere centrale) e della nuova "monarchia assoluta" su base nazionale (avente come braccio armato l'Anvur responsabile dei criteri cosiddetti "oggettivi" di valutazione validi per tutti gli atenei "del regno").

Il primo polo di potere indice materialmente i concorsi e li decide localmente, il secondo polo di potere stabilisce delle "soglie minime" (universalmente valide!) necessarie per potersi presentare (abilitazione).

Ecco dunque che bisogna sia sottostare al baronato perchè il concorso ci sia, sia ottemperare agli obblighi nazionali perchè ci si possa presentare (se non si è abilitati si è esclusi a priori). E servire due padroni non è facile (specie se hanno interessi opposti, se non si parlano, se veramente vivono in mondi diversi). Fra parentesi, personalmente sto pagando il fatto che nel mio caso molto particolare il primo potere (locale) ha "patologicamente" ignorato e nascosto l'esistenza dell'altro (centrale) fino a pochi anni fa (per cui ora devo recuperare i 5 anni quanto normalmente ha potuto essere fatto in 10!).

Sembra la lotta fra antica nobiltà cavalleresca (quella per cui parteggia Dumas) e moderno stato-nazione (rappresentato dal cardinal Richelieu) ai tempi dei "Tre Moschettieri". Come in tutte le lotte di potere, è il "popolo minuto" (ovveri noi ricercatori precari) a pagare il prezzo più alto.
Il "popolo grasso" dei professori associati e ordinari (e dei vecchi ricercatori a tempo indeterminato) ha già il posto assicurato e non corre alcun rischio personale nella "lotta al vecchio sistema baronale" (che, per come è stata scritta la Gelmini, colpisce non i baroni, ma i baronizzati: se io sono stato fatto lavorare per dieci anni su cose bibliometricamente irrilevanti, sono io che rimango a spasso, non il barone che mi ha comandato!).

Anche qui, come nella storia, la retorica "progressista" ti fa credere che tale "cambio di regime" (da "sistema baronale" a "sistema valutato oggettivamente") sia sinonimo di evoluzione sociale e meritocrazia. Quello che ho cercato di dire nel post precedente ha invece cercato di dimostrare
come si tratti semplicemente del passaggio da un tipo di trucco ad un altro, da una mafia su scala locale ad una su scala globale. Perchè? Semplicemente perchè i cosiddetti "criteri oggettivi" non sono in grado di valutare nè il merito del lavoro scientifico in sè (che non viene neanche letto, ma solo associato a due numeri entrambi dipendenti dalle citazioni), nè il contributo personale del ricercatore oggetto della valutazione (nessun esterno può sapere "chi ha fatto cosa" nelle pubblicazioni a più nomi e l'ordine dei nomi non viene neppure considerato).

Ecco quindi che, senza entrare ancora nel merito dei tecnicismi, ti posso dire: se hai il giusto numero di amici ai giusti posti di potere (comitati editoriali di riviste, gruppi numerosi e conosciuti, ruoli "in vista" su scala internazionale ecc.), i tuoi "numeri" saranno "oggettivamente alti".

Ti faccio un esempio per confermare quanto il nuovo sistema sia truccato come e più del precedente. Nel mio settore siamo in tre ad attendere un posto stabile. La prima è stata l'amante di un ordinario. Il secondo è il nipote di un emerito. Il terzo sono io (che prima di iscrivermi all'università non conoscevo veramente nessuno). Indovina chi ha il curriculum "oggettivamente migliore"? Ovviamente i primi due, perchè in un caso ci sono decine di pubblicazioni (citatissime) a cui la donzella non ha dato contributo maggiore della firma, nell'altro caso ci sono centinaia di citazioni provenienti da gente beneficiata a suo tempo dal capo di quel gruppo che ora usa il proprio ruolo di editor per "sdebitarsi". Cosa può fare il merito personale contro macchine bibliometriche come queste?

Ma io non mi lamento per essere "superato" da gente meno meritevole. Sapevo anche prima che il sistema era, come dici, truccato. Mi sarei accontentato, come insegna il vangelo nella parabola della vigna, di avere ciò per cui ho lavorato. Ed è il "nuovo sistema meritocratico" che rischia di privarmente, non il vecchio baronato a cui ho chinato il capo quindici anni fa (subito dopo aver visto che, senza "supporti", il miglior libretto del corso nulla valeva all'interno di un esame di ammissione in cui la prova scritta era.... un tema). Anzichè premiare l'effettivo merito personale (che potrebbe essere valutato guardando al contributo personale nei lavori), l'attuale sistema Anvur premia il numero di amici (che ti conoscono e ti citano a prescindere dal merito) e per questo ripropone le stesse ingiustizie del vecchio baronato, amplificate su scala internazionale.

L'Anvur crede, bocciando me, di bocciare un "raccomandato", ma i "raccomandati" hanno oggi i "numeri oggettivi" in ordine (un po' come il ponte di Genova, che aveva tutte le carte della manutenzione in regola ma nella realtà è crollato).
E' chi non ha avuto altro mezzo per emergere se non farsi notare per meriti di studio e per lavoro (per quanto discutibile) di ricerca nel gruppo
(e questi sono stati i motivi per cui il barone ha preferito me a tutti gli altri, motivi discutibili certo, ma certamente non "mafiosi") ad essere in difficoltà: lavorando bene posso anche produrre un certo numero di pubblicazioni su riviste prestigiose, ma sono impotente a farle conoscere tanto da aumentare l'h-index! Almeno con il sistema precedente bastava accontentare prima il barone locale da un lato e poi lavorare in autonomia dall'altro a un certo numero di pubblicazioni serie! Ora invece non basta più, ma serve la dote "social" del farsi conoscere e dell'autopromuovere i propri lavori quali che siano.

Se giochi ad un gioco in cui tutto é truccato, sei in balia degli eventi, e perdi il controllo del tuo destino. La soluzione ? Estero, ma per quanto se ne parli bene anche lì ci sono delle dinamiche complesse, e a certi livelli anche i trucchi (un mio collega tedesco, originario di un paese arabo islamico, pubblica bandi di selezione di ricercatore fasulli, lui sa giá che deve assumere i suoi amici della chiesa islamica cittadina di cui é anche imam, me l’ha detto lui, bella cosa, vero ?).

Suvvia, tutti i sistemi che gestiscono denaro e potere sono "truccati". Perchè, le assunzioni nelle società di consulenza prestigiose presso cui, assieme ad altri, ho fatto "i colloqui" da neolaureati non erano "truccate"? Mi è davvero mancato "il merito" per accedervi? Ho avuto cioè le stesse possibilità del figlio della Fornero o del nipote di Monti?
Fra tutti, ho scelto il gioco nei cui trucchi meglio potevo inserirmi con le mie sole capacità (perchè di conoscenze importanti non ne avevo e non ne ho).

Bisogna poi intendersi sul significato di "trucco". "Decidere autonomamente chi debba vincere" e "far vincere chi non ha il merito" non sono sinonimi.
Se il capo del settore di un'azienda può assumere in autonomia chi ritiene più indicato all'incarico, non si capisce perchè invece il capo di un gruppo di ricerca all'università debba scegliere in base a presunti "criteri oggettivi" dettati dall'esterno (e di cui i "concorsi (formalmente) aperti" sono il simbolo).
Certo, si può dubitare delle capacità di un ordinario di valutare le persone e pure della sua onestà nella scelta. Ma in tal caso lo si dovrebbe licenziare! Se viceversa lo si considera degno di ricoprire quell'incarico, ci si dovrebbe pure fidare della competenza e della lealtà
nello scegliere il meglio per l'attività di ricerca.
Pensa se Fermi avesso dovuto bandire un concorso con criteri Anvur per poter assumere Maiorana!

Certo, io non sono Maiorana e il mio barone non è certamente Fermi, ma anche nel piccolo la dinamica deve essere quella: il maestro sceglie fra gli allievi quello che, sulla base del lavoro svolto a tu per tu (e non semplicemente raccontato da numeri e da curricula), gli sembra più capace.
In nome della volontà di "abolire i trucchi" si è invece abolito questo principio irrinunciabile dell'attività scientifica, la quale, ripeto, non è paragonabile all'insegnamento liceale in cui c'è un programma di riferimento e dunque una base comune sulla quale dire "questo è migliore di quello". Chi propone di trasformare l'università in un grande liceo in termini di reclutamente, o è uno sprovveduto (che non sa cosa sia la ricerca) o parla in malafede (a proposito di malafede: perchè il sistema attuale non viene modificato? Perchè viene fatto passare per oggettivo e meritocratico? Perchè chi decide, ovvero i grandi professori dei grandi politecnici, ha l'h-index alto e quindi mai ammetterà l'esistenza di criteri di valutazione diversi!).

Altra soluzione ? Valorizzare le competenze acquisite per fare qualcosa di concreto. Ti piace la letteratura ? Pubblica un libro. Hai competenze tecniche-informatiche ? Fai il programmatore. Hai studiato un processo chimico-fisico che realizza qualcosa di nuovo ? Fai un prototipo e mettilo sul mercato. Ti piace la gnocca ? Fai un gnoccatravel.

Non credo che pubblicare romanzi come quello in divenire su questo 3d possa costituire attività lucrosa. Ho evitato di lavorare in azienda quindici anni fa proprio per non rischiare di finire a fare programmini. Purtroppo la ricerca attuale (anche in conseguenza delle regole bibliometriche) sta diventando sempre più autoreferenziale con poca possibilità di rivendersi all'esterno (l'unica attività con risvolti pratico-industriale è, guarda caso, proprio quella che mi sta dando più problemi in termini di citazioni!) La gnocca che mi piace fa spendere denari, non guadagnarne.

Purtroppo non ho ormai alternative al lavoro attuale. Se verrò estromesso mio malgrado dal sistema italiano, emigrerò all'estero, ma non ho intenzione di cambiare lavoro. Il denaro non è l'unica moneta. Bisogna considerare anche la possibilità di lavorare tutti i giorni ad argomenti inediti, stimolanti e comunque personalmente scelti e non imposti dall'esterno.

Se pensi che questo é proprio il periodo storico in cui il merito é un demerito, e il demerito un merito (giusto per restare negli ossimori dell’obbligo flessibile), che i bimbiminkia sono al potere e dopo la fase destruens manca una politica vera della fase costruens, e quindi vai di vaffa chiudiamo tutto, aboliamo tutto, revochiamo tutto e annulliamo tutto (sì così avete risorse, ma poi chi lavora se chiudete tutto ?), che il valore delle persone é basato sui like e i trend topic (almeno Totti l barzellette le ha pubblicate, ma qui abbiamo ministri che pensano che per aumentare il PIL basta accendere i condizionatori). E allora, che fare ?

Per chi ha portato l'Italia da 5a potenza mondiale a quinta colonna dell'euroschiavitù i "vaffa" sono meritati. Mi aspettavo solo più coraggio da parte di un ministro dell'istruzione che appartiene ad un governo autoproclamatosi "di cambiamento". Invece ha semplicemente preso, come i predecessori, il decreto precedente aggiungendo un delta di peggioramento. Era capace anche la Fedeli di questo!

Io proprio l’altro giorno stavo vedendo un bando per un insegnamento a contratto alla Sapienza, un quadrimestre a 825 euro lordi omnicomprensivi con una sfilza infinita di doveri sugli esami, studenti, sito internet, dispense e cazzi vari. Davvero scherziamo ?
Era un’attivitá che avrei fatto volentieri a margine del mio lavoro autonomo. Ma a quei livelli, mi sembra addirittura dequalificante.

Se e quando diventerò prof, ci penserò io a farti avere un insegnamento a contratto a condizioni eque, promesso.

Pensiamoci. Non é che abbiamo idealizzato il lavoro nell’universitá e nella ricerca, che non é più nemmeno l’ombra del lavoro serio, rigoroso e prestigioso di un tempo ? Anche gli stipendi degli associati e dei ricercatori sono ormai ridicoli.

Sono ridicoli tutti gli stipendi in Italia (se comparati, ad esempio, a Germania o Francia), per quanto riguarda l'ingegneria.
E la possibilità di gestire il proprio tempo a piacimento (che non significa lavorare sistematicamente solo 2-3 giorni a settimana come fanno in altre facoltà, ma semplicemente essere flessibili nei giorni e negli orari in un senso o nell'altro, a seconda di impegni personali, di necessità contingenti di lavoro e anche di momenti di maggiore o minore "ispirazione"), così come quella di scegliere a cosa lavorare con la mente, non ha prezzo.
Non è idealizzazione. Ora che finalmente da qualche anno riesco davvero a lavorare da ricercatore (e non più da vassallo di un barone) non posso più farne a meno.

Qualcuno dice che non tutto il male viene per nuocere. Io non mi sarei mai potuto permettere la massima autonomia, e i viaggi della gnocca, se avessi continuato a sottostare a dei giochi truccati. Ma che vuoi fare ? Combattere contro i mulini a vento ? Pensa che se Einstein avesse sottoposto il suo lavoro a una rivista scientifica con i criteri di oggi nemmeno l’avrebbero accettato. Forse invece lo scritto di una qualche opinionista da talk show l’avrebbero accettato ? Forse sì. Le donne che hanno capito da tempi immemorabili che anche la gnocca é merce di scambio mettono anche quella sul piatto per guadagnarsi carriere accedemiche, posti di potere e prestigio. Bill Gates ha scritto su Scientific American, qual é il citation index scientifico di Bill Gates ? E potrei farti altri esempi. Cambia idea, contesto, paradigma. Fortuna audaces iuvat.

Il paradigma Anvur è fallace, come tu sottolinei (Einstein, che come tutti i grandi lavorare spesso ad solo, avrebbe troppi pochi amici da cui farsi citare in tempi brevi, ovvero prima che il merito dei suoi lavori potesse emergere motu proprio). Non per questo mi sento spinto a cambiare lavoro. Non c'è fortuna che mi possa aiutare nel contesto attuale. L'unico lavoro socialmente accettato che io possa trovare soddisfazione a svolgere è quello di ricerca.
Non riuscirei più a costringere la mia mente ad elaborare questa o quella soluzione solo perchè
un capo dice che "è richiesto dal mercato".

E per cambiare idee e contesti, mi accontento di viaggiare con i miei ricordi fanciulleschi da romanzo che sto provando di scrivere qui.

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