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shapiro

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shapiro
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12/03/2013 | 07:46

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@jeff si hai ragione, ci sono un sacco di luoghi comuni anche su di noi, e sono comuni proprio xche veri...purtroppo ci considerano peggio di quello che molti italiani pensano di essere...grazie x risposta ciao!

shapiro
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12/03/2013 | 07:42

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Cap. VII

LA MISSIONE IN BRASILE

Trascorsi il Capodanno con alcuni amici nella loro splendida casa in Valle d’Aosta, bevendo champagne e ascoltando le loro lamentele su quanto fosse costoso mantenere i vari appartamenti che possedevano. Erano con l’acqua alla gola…almeno così dicevano.

La mia risposta fu:“ Vendetene uno!”. Ci fu il silenzio e cambiai argomento.

Tutti i miei amici si lamentavano di qualcosa, solitamente dei soldi e la loro distorsione della realtà, li portava a sentirsi degli indigenti, per loro io ero il ricco che viaggiava.

Pensai a tutti quei bambini a cui avevo regalato una penna o il mio cappellino da baseball, nei villaggi del Guatemala, alla loro gioia e ai sorrisi delle loro madri, stanche e con i denti d’oro.

Era inutile cercare di trasmettere ciò che provavo e che avevo compreso nel mio viaggio, se volevo fare qualcosa di buono dovevo farlo da solo e agendo, senza fare proseliti a chi vive insoddisfatto, ingrassando nel benessere estremo.

Trascorsi un mese in Italia e poi partii alla volta del Brasile, raggiunsi un parroco che era in Missione nel Bahia da oltre sette anni e che da tempo mi pregava di andare a trovare e magari ad insegnare l’inglese ai ragazzi del posto.

La Missione si trovava a sette ore dalla costa e da Salvador, in un’area semidesertica conosciuta con il nome di Sertao e comprendeva un’area indigena di etnia Kirirì , i quali vivevano in estrema povertà e degrado, nonostante non mancasse loro il cibo.

Naturalmente le ragazze erano bellissime e fui felice quando composi le classi, rendendomi conto del fascino che esercitava la mia immagine di insegnante su di loro.

Vennero in moltissimi ad iscriversi, i corsi erano gratuiti e in breve tempo ero conosciuto da tutti e sulla bocca di tutti.

Ero “lo straniero”, l’amico del parroco, vivevo nella casa parrocchiale e molti pensavano fossi un suo parente o addirittura un seminarista…ho sempre avuto la faccia del bravo ragazzo, sono nato con la camicia.

Secondo un sondaggio locale, ogni ragazza del paesino dove mi ero trasferito, sognava di baciarmi o di diventare la mia fidanzata.

Erano ragazze pulite, pure di cuore, generose, educate e molto cattoliche, venivano al corso pomeridiano o serale di inglese per curiosità, qualcuna per imparare la lingua, ma molte solo per non stare in casa, visto che i genitori non le avrebbero lasciate uscire senza un motivo valido.

La cosa che mi commosse, quando la seppi molto tempo dopo, fu che alcune di loro, venivano al corso unicamente con la speranza, che le notassi e magari le sposassi.

Il lavoro scarseggiava, così come la voglia di cercarlo: giovani e uomini in età lavorativa, sprecavano i loro anni migliori nei bar a giocare a bigliardo o a carte e a bere birra o ubriacarsi di cachaça, un liquore sgradevole ed economico.

Qualcuno andava a tagliare la canna da zucchero, dal quale si otteneva la cachaça: stavano via dei mesi e venivano sottopagati, lavorando come schiavi tutto il giorno.

Era ingiusto, criticare il loro stile di vita senza conoscere la situazione di quell’area remota del Brasile.

Ma come in ogni società, le donne cercavano i maschi con il più alto coefficiente di sopravvivenza e io rappresentavo il benessere e la ricchezza, inoltre venivo da un Paese conosciuto per qualità positive ed ero vicino al parroco.

Cominciai ad avere qualche avventura con le ragazze locali, ci baciavamo sulle panchine, fuori dalla scuola o alla feste, ma sempre di nascosto.

Ci guardavamo a messa in chiesa nei villaggi, io di fianco all’altare con don Marco, loro vestite a festa per farsi belle, con abiti corti e sottili e scarpe alte, anche in classe mentre spiegavo leggevo sorrisi maliziosi e sguardi sognanti nei loro occhi.

Erano ragazza bellissime, giovani, con un sorriso perfetto, gli occhi a mandorla e il corpo formoso e sensuale: bianche, mulatte, nere, indigene e dato il clima, molto poco vestite.

Con don Marco, avevo molta confidenza e gli raccontavo dell’eccitazione che provavo in quei momenti, mi rispondeva che succedeva anche a lui durante la messa, proprio come a me, che cercavo di controllare le erezioni, causate da sguardi maliziosi e insistenti, poco prima del momento di alzarsi in piedi e pregare. Era umano provare ciò.

Mi sentivo vicino a Dio e immerso nell’amore che quel luogo emanava, anche l’amore carnale, nonostante gli incontri si limitassero per lo più a lunghi baci passionali; nessuna ragazza avrebbe avuto un rapporto sessuale fuori dal matrimonio e la maggior parte, conservava la verginità per quel momento.

Baciare appassionatamente quelle ragazzine, mi faceva toccare il cielo con un dito, ma avrei voluto di più e siccome non potevano offrirmelo, dopo un po’ passavo a qualcun’altra.

Era il gioco inverso, anziché essere io a correre dietro alle fanciulle, erano loro. Dovevo solo scegliere!

Molte di loro però, provavano sentimenti profondi e soffrivano quando tutto finiva, piangevano e si chiudevano in casa, mentre per me, erano state solo la passione di un momento e abituato a donne insensibili, non me ne preoccupavo, ridevo e scherzavo con loro, come se nulla fosse successo. Intanto stavo con un’altra, arroccandomi ogni notte nella casa parrocchiale.

In qualche mese, insieme al mio prestigio di ottimo insegnante, divenne nota la mia fama di donnaiolo poco serio, che nella cultura machista del luogo, accresceva ancor più le mie possibilità.

Mi divertivo, scorrazzavo in moto, con l’auto del parroco o a cavallo, da una comunità all’altra ad insegnare.

Conobbi una ragazza madre indio, aveva solo 23 anni e con lei non vi furono problemi nel fare sesso, la sua reputazione era già deteriorata, cosa che a me non importava nulla.

Era dolce e affettuosa, non mi importava del suo passato e dei pettegolezzi. Non dovevamo vederci di nascosto, anzi andavo a trovarla durante l’intervallo e all’uscita da scuola, la sera.

Con la vecchia moto che affittavo da un meccanico a pochi Real la settimana, la portavo nei campi e facevamo l’amore per terra, sull’erba sotto qualche pianta, senza curarci di ragni o serpenti, sotto le stelle la luna e tra i cavalli selvaggi, come selvaggia era lei: una Indio Kirirì pura, con la pelle nocciola e i capelli nero lucido, forti e duri come la stoppa.

Ero così felice lontano dalla civiltà, che una sera guardando il tramonto da solo, scoppiai a piangere per la gioia.

Con don Marco, giocavamo a carte ogni pomeriggio dopo pranzo, leggevamo la Bibbia, lo aiutavo nei numerosi battesimi e nelle messe e andavamo a trovare le famiglie più povere, cercando di dargli qualche forma di sostegno.

Don Marco era un prete meraviglioso, la sua vita era dedicata agli umili e anziché stare in Italia a sentire le confessioni di vecchie avide multiproprietarie, che temevano di finire all’inferno, si era adattato ad uno stile di vita molto difficile e carico di disagi, a cominciare dall’acqua, che mancava varie ore al giorno e a quelle temperature, era davvero sgradevole.

Si era privato di tutto! Ma era felice, molto più di quando l’avevo incontrato nella mia città 15 anni prima.

In quel luogo, tutto era rotto: strade, porte, finestre, mobili, piatti, tazze, letti sfondati, TV con immagini deformate, biciclette bucate, vecchie auto che non partivano, adesivi staccati e sbiaditi, insegne cadenti, vestiti bucati e scuciti, sandali logori.

Tutto era riparato alla bene meglio, perché durasse al limite del possibile.

Non c’era nulla di nuovo: muri rotti, telefoni guasti, penne che non scrivono, disordine e spazzatura ovunque, cani e gatti magri per le strade, stanchi e senza vitalità, bestiame pelle ed ossa, disservizi ovunque, disorganizzazione e corruzione nelle istituzioni.

Eppure la gioia era sul volto di quasi ogni persona, gli unici sempre accigliati erano quelli che stavano meglio economicamente, come i bottegai e gli impiegati statali.

I miei corsi proseguivano, ma pochi si applicavano ed erano molto distratti; insegnavo anche nella scuola pubblica, per trasmettere metodi nuovi agli insegnanti, i quali anziché affiancarmi, ne approfittarono per restare a casa, tanto c’ero io…

L’ambiente in cui lavoravo era deprimente, quei ragazzi avevano il mio rispetto solo per i sacrifici ai quali erano sottoposti: dopo aver lavorato nelle campagne, si facevano un’ora o due a piedi sotto il sole ancor cocente per venire a scuola.

Le aule erano piccole, calde come forni e affollatissime, oltreché piene di zanzare e insetti. In corridoio c’era un baccano infernale, porte aperte per far circolare l’aria, metà degli alunni che scorrazzavano fuori dall’aula, altri a baciarsi nelle aule vuote, i professori assenti, incapaci o disinteressati a mantenere l’ordine.

I banchi non c’erano, costavano troppo, gli alunni sedevano su sedie con scrittoio pieghevole, disposte disordinatamente per stare accanto all’amica del cuore, nessuno vicino alla cattedra, soprattutto quando c’ero io, il quale ero stato sopranominato “Hitler”, perché li feci disporre in file ordinate rivolte verso la lavagna, non li lasciavo mangiare in classe, mettere i piedi sulle sedie, dovevano chiedere il permesso prima di uscire, alzare la mano per parlare, non gridare tutti insieme e soprattutto, prestare attenzione, visto che ero lì unicamente per loro.

Ho dovuto spiegargli, l’importanza della puntualità e delle norme di educazione basilari, utili nella vita e dopo qualche rimprovero, nessuno più fiatava, tant’è che i professori delle altre classi, vennero a vedere se c’eravamo ancora.

Fu una grande soddisfazione vederli ascoltare la lezione e partecipare, inizialmente imbronciati e con atteggiamenti di sfida. La maggior parte di loro, era timida o si vergognava della propria ignoranza. Alla fine delle lezioni venni

applaudito da alcune classi, le quali sostenevano che nessuno insegnava bene come me.

Ogni pomeriggio e sera avevo lezione, passando da un’aula all’altra, la scuola era sovrappopolata e gli studenti divisi in 3 turni giornalieri, giungevano con vecchi pullman da tutti i paesi limitrofi. Le classi serali erano le più sfortunate, l’apprendimento equivaleva a zero. Avrebbero imparato di più guardando le telenovela alla TV, per chi ce l’aveva.

L’intervallo, che si svolgeva in strada, era un pretesto per non rientrare più in aula, la classe si dimezzava e nessuno se ne preoccupava, tutto ciò era inammissibile e cercai di impedirlo, rimproverando i bidelli e i professori, ma non c’era modo, era sempre stato così e con ciò, iniziai ad attirarmi le antipatie degli altri insegnanti che mi vedevano come un rompipalle. Bastava una lezione con i loro insegnanti e tornavano ad essere pigri e svogliati, nessuno dava loro compiti da fare a casa e da una lezione all’altra, si dimenticavano tutto.

A volte mi pareva tutto inutile e avevo voglia di abbandonarli nella loro miseria culturale, ma erano proprio i momenti d’amore con la fidanzatina di turno, che rendevano accettabile la mia permanenza in un posto del genere.

Una sera, andai con don Marco a celebrare una festa nell’area indigena, vedere tutti quei bambini indio, nei costumi tipici e pensare che forse avrebbero avuto un futuro migliore, mi diede la forza di continuare.

Carità significa donare qualcosa a noi caro, senza aspettarsi nulla in cambio e io stavo donando il mio tempo, ma sbagliavo a prendermela perché non volevano cambiare, chi ero io per imporre i miei valori? Erano davvero giusti e migliori dei loro? In fondo loro stavano bene anche così.

Eravamo tutti seduti sotto l’albero secolare di cajù, c’era un tramonto rosa bellissimo, una musica celestiale, guardavo la loro gioia nel vedere don Marco, anche lui era radiante di gioia. Chi non aveva ancora compreso lo spirito della Missione ero io, ero lì da troppo poco tempo e avevo peccato di presunzione. Pensai che c’era tempo per tornare alla mia solita vita, avrei continuato ad insegnare ed imparare da quelle persone.

Inoltre, avevo conosciuto una ragazza indio bellissima, di solo 18 anni con lunghe trecce nere e il viso di Poca Ontas, mi ero innamorato di lei a prima vista.

shapiro
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12/03/2013 | 07:38

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premetto che non voglio insegnare nulla a nessuno, ma ho vissuto 2 anni in Australia e mi fa piacere condividere la mia esperienza.

In Australia, trovai le cose più difficili. Nonostante vi trascorsi quasi due anni, conobbi poche ragazze disposte a fare l’amore con uno straniero.

Il razzismo infondato e giustificato solo dall’onta delle origini di ogni australiano è notorio, ma credo fosse anche una questione personale: non le trovavo attraenti e a differenza delle americane, erano meno sensuali, molto più fredde e austere, esclusi i momenti in cui bevevano fino a perdere il controllo di sé stesse e la dignità.

Ebbi qualche breve avventura, con ragazze poco interessanti, ricordo solo momenti di noia e dialoghi vuoti, come vuota è la loro cultura, ossessionati da stupide regole e da una sorta di sindrome da isolamento, che tende a farli sentire speciali, superiori, xenofobi e derisori nei confronti delle altre culture, prime fra tutte quella aborigena.

A Sydney, praticavo molto sport, lavoravo e la sera, preferivo uscire da solo, non trovavo eccitanti neppure le prostitute nei bordelli legalizzati di King’s Cross.Le australiane erano molto carine, prevalevano le bionde, di media statura e abbastanza formose, ma nonostante fossero gentile ed educate, molto più delle americane o delle italiane, avevano un atteggiamento distante: la loro cortesia si fermava alle buone maniere. Non vi era ombra di malizia nel loro sguardo. Alex ed io eravamo stranieri e questo suscitava sempre un po’ di diffidenza.

A differenza di Miami Beach, vedevo moltissime coppie mano nella mano, o baciarsi la sera sul lungomare, sembravano davvero innamorati e leggevo nello sguardo delle australiane fierezza e dignità. Erano ragazze serie, alle quali non sarei riuscito a fare una proposta di matrimonio fittizio in cambio di denaro, come avrei fatto con disinvoltura negli Stati Uniti, trovando anche riscontro.

Le informazioni ottenute erano fondate: non c’era per noi altra possibilità che trovare una fidanzata e sposarla entro la scadenza del visto, cioè 90 giorni dall’entrata nel Paese. Un mese era già trascorso. Per tirarci un po’ su il morale uscimmo qualche sera, il nostro amico ci presentò a tutti i buttafuori, era un pezzo grosso nella Gold Coast e così ci facevano entrincontroverso collettivoare senza pagare ogni sera in tutti i locali. Ci presentò molte ragazze, ma non erano il genere che avrei sposato.

Quando c’era lui in sala o alla porta, ci offriva da bere in continuazione, diceva sempre che prima o poi avremmo trovato lavoro, ma lui non ce lo offrì mai e forse, visto l’ambiente, fu meglio così. Alcuni mesi dopo leggemmo sul giornale locale che lui e un suo socio erano indagati per droga e stupro di una minorenne, avvenuto nell’ufficio di una delle sue discoteche. Come tutti i posti di turismo di massa, la Gold Coast non faceva eccezioni: la droga era ovunque ed erano pochi a non farne uso.

L’alcool invece era parte della cultura australiana e veniva largamente consumato senza eccezioni. La sera le strade erano piene di gente di ogni età, tutti ubriachi, che cantavano, gridavano e ridevano divertiti. Si potevano vedere figli reggere i genitori ubriachi o viceversa, ragazzine che inciampavano e cadevano a terra, altre che vomitavano lungo le strade. Nessuno era aggressivo, si divertivano, e la polizia aveva apposite camionette dove caricava chi aveva alzato troppo il gomito e lo teneva in cella una notte.

C’era una sorta di collaborazione tra agenti e ubriachi, nessuno opponeva resistenza, faceva parte della serata. La mattina seguente sarebbero stati rilasciati. Con i guidatori in stato di ebbrezza era un’altra storia: la legge era molto severa, sia nella pubblicità attraverso i media che lungo le strade, nei fatti. Regolarmente nelle vie del centro veniva fatto ai guidatori il test con il palloncino, se venivi trovato positivo per te era finita! Come diceva lo slogan!

La multa arrivava fino a 2.500$ oltre a perdere la patente e a lavorare gratis due settimane per la comunità. In aggiunta a tutto ciò dovevi frequentare un corso teorico per alcoolisti e pagartelo. Chiunque fosse dotato di un minimo d’intelligenza, la sera se voleva ubriacarsi usciva in taxi. Le sbronze avvenivano solo nel weekend, almeno per le persone regolari e presto imparai che il miglior giorno per richiedere le carte di credito alle banche era il venerdì pomeriggio, quando le impiegate erano già con la testa al pub. Mai il lunedì, perché tutti erano di pessimo umore e con il mal di testa, bastava il mio accento per irritarli e negarmi la richiesta.

Un signore italiano ci disse «L’Australia è troppo bella» diceva, nessuno andava di fretta, le tasse che pagavi al governo erano eque, l’IVA era solo al 10% ed era stata immessa solo di recente, ma la pagavano tutti. Non vi era corruzione, tanto meno criminalità, i servizi pubblici e la sanità erano i tra i migliori del mondo e completamente gratuiti. Tecnologicamente, erano più avanti di noi almeno di vent’anni e il paese era provvisto di ogni ricchezza. Il paesaggio era incantevole così come lo erano le donne, l’importante era trovare quella giusta. Lui era stato fortunato, in un paese dove i divorzi superano il 50% e nel quale le leggi prevedono tu dia la metà dei tuoi averi dopo solo sei mesi che convivi con una ragazza, e viincontroverso collettivoceversa. Sposarsi un’australiana è come giocare alla roulette russa, ci disse un giorno. Conobbi diverse ragazze, ma non ebbi mai rapporti intimi con loro. Nonostante fossero molto belle, le trovavo banali, sciocche e non mi piaceva che bevessero così tanto.

Gli australiani sono un popolo relativamente nuovo, con una cultura pressoché inesistente. Geneticamente discendono quasi tutti dai peggiori criminali d’Inghilterra, essendo stata l’Australia nell’ottocento una colonia penale. Di questo sicuramente si vergognano, a livello di inconscio collettivo, e come reazione cercano spesso di sminuire le qualità degli altri paesi, ma il loro razzismo è infondato, mancando dello spessore storico e culturale per poter discriminare. Nonostante tutto, non perdono occasione per farlo, chiamando Wog (western oriental gentleman) tutti quelli con la pelle olivastra. Per gli australiani, l’immagine dell’emigrato era rimasta quella di chi arrivò nel dopoguerra con il biglietto della nave pagato dal loro governo, per andare a tagliare la canna da zucchero o la foresta tropicale, dove ora corrono le autostrade che portano al Nord. Come tutti gli abitanti delle isole, più ancora degli inglesi, sembravano affetti daincontroverso collettivolla “sindrome da isolamento”, la quale per conseguenza, li faceva sentire meglio di tutti gli altri popoli.

Una volta accettato questo, non mi irritavano neanche più: ascoltavo i loro monologhi sui loro vini, che decantavano quali migliori del mondo, e sugli innumerevoli vantaggi dell’essere un cittadino australiano. Praticamente gli australiani vivono per ubriacarsi...

Ovviamente questa era la Gold Coast, nelle città come Melbourne o Sydney c’erano anche persone normali, con dei valori e un’etica morale. Iniziai a capire che nel Queensland, come in tutti i posti di mare, la gente è più superficiale, legge meno libri, culturalmente è più povera e spesso vive di espedienti o di parassitismo. Investe molto sul proprio aspetto fisico, è più viziosa e sviluppa tecniche di seduzione per far presa sui turisti di passaggio. Gli abitanti dei luoghi di villeggiatura, finiscono con il diventare loro stessi parte delle attrazioni turistiche. Anche i truffatori non mancavano nell’elenco di soggetti che vivevano sulla Gold Coast, proprio come

sulle coste della Florida.

shapiro
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12/03/2013 | 07:22

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Terminate le scuole superiori, guadagnai un po’ di soldi ed emigrai in America, nello stato della Florida.

Lì trovai lavoro quasi subito e cominciai ad uscire con molte ragazze di diverse nazionalità; purtroppo ero timido e senza molti soldi, non ci misi molto a capire, che quelle che davvero mi piacevano, in un posto come Miami Beach, erano per me irraggiungibili.

Nonostante mi divertissi spensieratamente, senza un regolare permesso di lavoro, ero come un lupo nella foresta a cui manca una zampa: potevo sopravvivere, ma ero escluso dalla “caccia grossa”.

Compresi che il mondo non era poi così diverso laggiù: senza soldi e potere, nessuna ragazza davvero interessante, si sarebbe messa con me in una relazione seria.

Esaminando le mie conquiste, ci trovavo sempre qualcosa che non andava: se erano ricche non erano attraenti, se erano molto belle erano stupide e aride, se erano disposte a sposarmi, erano solitamente più vecchie di me e disperate, quindi finivo con lo scartarle: non volevo un rottame alla deriva al mio fianco.

Quando tornavo a casa, una volta l’anno, le ragazze italiane, mi parevano più ingenue e sentimentali delle americane e accadeva che si affezionassero a me, il quale inevitabilmente le avrei lasciate per ripartire qualche mese dopo.

Era facile farle innamorare del mio personaggio di avventuriero.

Partire sempre, in fondo mi garantiva di non soffrire per amore e istintivamente, avevo trovato una soluzione: stendevo con tutte un patto implicito, nel quale il nostro amore aveva una “scadenza” e tacitamente loro lo accettavano, forse convinte che qualcosa in loro, mi avrebbe fatto cambiare idea.

Il meccanismo della “perdita anticipata” che scattava in loro, faceva sì che mi amassero ardentemente, tanto più quanto

sottolineavo con semplici commenti la mia prossima ipotetica partenza.

Inconsapevolmente, ciò aumentava il mio valore ai loro occhi, lasciandomi immune dalla paura di essere abbandonato, perché qualsiasi fosse la loro scelta finale, chi prendeva un aereo e andava nel “Sunshine State” ero io, mentre loro sarebbero rimaste tra le nebbie autunnali, a consolarsi raccontando alle amiche o al prossimo malcapitato, d’avermi lasciato.

La scuola di Miami Beach, era stata notevole in quanto a falsità e superficialità, amare mi sembrava un sentimento da deboli, usare le donne era molto meglio.

Senza che me ne rendessi conto, nel mio gioco di relazioni, c’era una forte componente di potere.

Qualora mi fermassi, solitamente per mancanza di opzioni e scegliessi una relazione paritaria, dove ero costretto ad investire molto, quello che si affezionava e soffriva tra i due, ero sempre io, sentendomi prigioniero, provando gelosia e bisogno di stare con loro, forse per colmare un vuoto interiore che non comprendevo.

Perdevo la mia vitalità, rimpiangendo il mio status di single e in alcuni casi, finivo anche per essere lasciato a causa della mia mancanza di obiettivi.

Non offrivo garanzie, si capiva che non avrei retto molto in Italia, non si poteva fare un progetto stabile contando su di me, questo era ciò che mi sentivo dire dalle ragazze alla fine della nostra relazione.

Negli USA, era tutta un’altra storia: lì erano le donne a detenere il potere, molte di loro mi avrebbero sposato senza pensarci due volte, trovandomi loro un lavoro, pur di avere un marito Europeo, che le dominasse nell’unico luogo dove ancora esisteva una differenza tra i due sessi: il letto.

L’uomo americano, tratta e si rivolge alla donna come farebbe con una madre e nonostante la loro emancipazione, le donne ricevono attenzioni eccessive: gli uomini pagano tutto, le riveriscono, aprono loro la porta, solo per rivolgergli la parola in un bar, ordinano tre drink, usano ciò che viene definita “chevalerie”, ma è un concetto inutile e superato, poiché le americane, non sono affatto “damigelle” indifese.

Più che altro, sono gli uomini a volerlo credere e a ritrovarsi totalmente sottomessi a loro, incapaci di dominarle come in realtà avrebbero bisogno per ragioni ataviche.

L’uomo americano investe la propria libido negli affari e nella guerra, ma non sa domare una femmina e quando arriva a farlo, lo fa nel modo sbagliato, esplodendo in episodi di violenza estrema, definita “domestic violence”.

In nessun Paese, quanto negli USA, le donne sono tanto protette dalla legge; un uomo non dovrebbe aver bisogno di picchiare la propria donna per farsi ubbidire e nessuna vera donna, ricorrerebbe alla legge per fa si che il partner non lo faccia. Ma spesso si tratta di bisbetiche isteriche indomabili.

Ho avuto molte donne in quattro anni trascorsi in America, era molto semplice, loro stesse facevano le avances, mi capitava d’essere fermato per strada o nei bar, non mi davano il loro numero, chiedevano il mio e chiamavano quando ritenevano comodo od opportuno. Forse perché ero straniero e ciò le intrigava, amavano credere di esser loro a dominare la relazione.

In realtà facevo quello che mi pareva e ne avevo almeno due alla volta, non stavo certo ad aspettare in casa la loro telefonata come forse immaginavano. A letto le maltrattavo, trattandole come avrei trattato una prostituta e a loro piaceva molto. Ricevetti diverse proposte di matrimonio, ma non ero interessato, era solo un gioco e doveva durare poco.

shapiro
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11/03/2013 | 14:49

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@dude sono solo un po' nazionalista e non condivido che un popolo che vende le figlie giudichi i farang...ciao!

shapiro
Newbie
11/03/2013 | 14:42

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ragazzi, non mi sono iscritto x litigare, solo un umile opinione e nenache ce l'ho con le donne, qui non disdegno nulla, nemmeno i ladyboy e mi diverto senza pagare..solo non cerco l'amore nel posto sbagliato... :)

shapiro
Newbie
11/03/2013 | 07:02

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sono uno che viaggia, non mi interessa solo scopare...e poi era un avviso per quei cretini che vengono qui a farsi abbindolare da semi analfabete...tipo <isan per intenderci...se sei cosi sagio da non necessitare di consigli, vivi nel paese sbagliato..ciao!!!

shapiro
Newbie
11/03/2013 | 06:56

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non eà scopiazzato ma solo oggetto di osservazione...non bisogna essere dei geni x capirlo...forse sei uno di quelli che compra le case alle thailandesi<<<<<<<<' <fai pure..io la penso cosi...ciao!

shapiro
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10/03/2013 | 16:48

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Welcome to the land of smiles...

benvenuti nella terra dei sorrisi...falsi, aggiunse un olandese rientrando in Thailandia dal confine Birmano 2 anni fa. Io rimasi un po' perplesso, i Thai mi parevano cosi gentili,.

Ricordai la mia partenza l'anno prima, l'enorme scritta:"Speriamo di rivederti presto nel paese dei sorrisi" che lessi dal taxi, mentre mi accompagnava all'aeroporto Suwarnabhumi di Bangkok, la sensazione che provai, come se tutta la Thailandia mi stesse accompagnado e abbracciando, gli occhi lucidi e la pelle d'oca, ripensando a tutti i momenti felici...

Effettivamente i Thai sorridono sempre, in ogni situaziione. A. Sordi diceva;"E' curioso che i polopli che meno dovrebbero sorridere, lo facciano invece sempre".

In tutta l'Asia e se vogliamo in Sud America e Africa, le persone sono propense a sorridere, anche quando non hanno nulla nello stomaco...in certe situazioni, e' un mezzo semplice e diretto x commuovre e ricevere qualcosa, talvolta l'unico dono che possono farci, se si pensa che i popoli piu duramnete colonizzati, lo utilizzano da sempre come forma di difesa e sopravvivenza.

Non mi reputo una persona colta e diffido di quelli che lo fanno per mestiere, amo leggere e viaggiare e se posso condividere le mie esperienze, lo faccio umilmente e volentieri.

Durante i miei viaggi, mi capita spesso di vedere turisti, che si muovono nel mondo come ignari ostaggi delle angherie locali: rapinati, spennati da giovani ragazze, ingannati da taxisti, operatori turistici, ristoratori e quant'altro....finire anche nelle stazioni di Polizia a pagare per il disagio arrecato.

Prima di mettersi in viaggio, bisognerebbe informarsi minimamente,sulla storia, cultura e situazione politica del paese ospitante, si evitano problemi,

In linea di massima essere educati aiuta, inoltre c'e' una regola comune: ogni popolo e' convinto di essere il piu' intelligente e spesso pensa che non conoscere la lingua equivalga ad essere stupidi. Il mondo e' pieno di ignoranti che credono gli altri stupidi, la Thailandia e' senza dubbi uno di questi posti.

Prathet Thai significa "popolo libero": i Thai vantano di non essere mai stati conquistati, la storia e i compromessi ai quali sono sempre scesi non e' menzionata...in ogni caso ogni thai impara gia' a scuola, che loro sono i migliori del mondo e il loro paese non ha eguali. E' vero che dignitá e orgoglio non sono la stessa cosa (l'ultimo assume una connotazione di maggiore intensita' spesso per compensare la vergogna...per un paese che trae notevoli benefici economici dal meretricio).

Sono molto nazionalisti e non e' una brutta cosa, quando suona l'inno nazionale, alle 8 del mattino e alle 6 di sera, ovunque ci si trovi ci si mette sull'attenti o per lo meno in posizione eretta. idem quando si rivolge la parola a un poliziotto o un militare, e' bene togliersi il cappello o il caschetto se si e' in moto.

E' un paese molto bello, chiamato Siam ha preso il nome in Inglese Thai land, con una discreta storia, 1200anni, 3 dinastie importanti, attualmente con una buona economia, nonostante i Thai guadagnino non pu' di 200E al mese, lavorando 12 ore 7gg su 7, ma i vicini Cambogiani, Laotiani e Vietnamiti ne guadagnano 40-60...sono ricchi! Alcuni lo sono.

E' un paese realmente libero: le tasse non superano il 20% e le pagano tutti, qualsiasi reato che non sia la Lesa Maesta' e il Traffico di Droga (se internazionale), puo' essere facilmente negoziato, senza neppure finire in giudicato..inltre non e' concessa l'estradizione e nessuno fa domande sul flusso di capitali. L'omosessualita' il travestitismo e lka bisessualita', oltre ad essere capillarmente diffusi, sono condizioni tollerate o per lo meno accettate, mentre prostituzione e pornagrafia, sono vietate ..inoltre il Buddhismo non condanna i peccati, consiglia l'astensione da almeno una parte di essi.

E bello camminare per le strade e ricevere sorrisi da chiunque, essere salutati, riempie il cuore di gioia, i sorrisi, a parte quelli di alcune donne, non sono falsi, e' parte della loro cultura, far star bene il turista, il quale fara' star bene loro, si spera.

E poi c'e' sempre il sole, la vita costa 4 volte meno che in Europa e nelle zone rurali, oltre a cieli tersi, costa fino a 10 volte meno....la cicina e' ottima e varia, le ragazze bellissime, fuori dalle zone turistiche, sono timide e inavvicinabili, il fatto e' che c'e' una quantita' tale di donne disponibili, da far confondere la thailandia x un paese di prostitute.

In realta' per una thai e' un disonore andare con un "farang"(straniero), le donne sposano l'uomo che decide la famiglia, per colore della pelle e grado sociale, sono molto razzisti, soprattutto con i Cambogiani e i Birmani, ma anche tra loro; le "bianche", con il naso stretto e una tonalita' piu' chiara, (particolari che noterebbe Himmler), sono le piu' ambite. Un uomo, se ricco, puo avere oltre alla moglie, varie amanti, una ragazza povera e non bianca, sposera' un uomo come lei, se vuole sfuggire al suo Karma, puo fare l'amante, come avviene da noi, con la differenza che qui, l'uomo non le promette per anni, un futuro divorzio dalla moglie, la mantiene e basta. L'altra opzione e' mettersi con un turista, essendo invidiate dalle simili, ma non ripettate dai Thai dell'alta societa'.

Molti uomini, spesso persone insopportabili nei loro paesi, vengono in Thailandia a cercare moglie, ma non sanno molto della loro culture, rimangono colpiti perche' per la prima volta, qualcuno sembra amarli cosi' profondamente.

In un posto dove si puo' avere una ragazza diversa ogni sera, spendendo poco piu' di 10E, molti si lasciano abbindolare da semi-anlfabete, che nella migliore delle ipotesi sono ex prostitute, ritrovandosi in breve tempo a mantenere intere famiglie, talvolta anche il loro fidanzato attuale, compiacente della situazione.

Lo ripeto, le Thai per bene non vanno con i turisti, hanno molti pregiudizi su di noi, quando una vi avvicina, vuole soldi e piu' starete con lei e piu' ne vorra'. Qui la moglie si compra alla famiglia, seun amico ha la "fidanzata", potrete dirgli:"Bella! Quanto l'hai pagata?"

La loro la convinzione, che i "farang" siano tutti stupidi, nasce dal fatto che coprire di denaro, persone che non ne hanno mai avuto, non le migliora, anzi...comperare loro una macchina, spesso una casa, seguendo i loro ricatti affettivi, e' diseducativo e tanto non durera' molto nelle loro mani. Non sono cristiani, il concetto di aiutare chi ha bisogno, la compassione o anche solo lasciare una mancia per loro e' inconcepibile, senza un ritorno. e' convinzione comine credere che i Buddhisti siano piu' elevati spiritualemnte di noi, e' errata! Sono estremamente materialisti, al templio ci vanno e fanno offerte, perche sono superstiziosi e secondo loro portera' fortuna e soldi.

La carita' andrebbe fatta con le persone che ne hanno davvero bisogno, spesso sono quelle che non chiedono...dovrebbe essere mirata e strutturata e solo suore e preti ne sono capaci, questi uomini sono degli inetti, che non danno un cent ai bambini che vendono rose di notte per le strade, ma poi cedono acifre ben piu' alte per il sesso.

Per molte Thai prostituirsi non e' disdicevole, secondo il Buddhismo, il corpo e' un vettore, cio' che conta e' lo spirito, quindi venderlo o affittarlo(c'e' anche l'opzione moglie in affitto, 500E al mese prezzo standard) non ha lo stesso significato che ha per noi. Spesso sono i genitori stessi ad avviarle nei ber e per i figli maschi a dargli ormoni e vestirli da bambine sin dai primi anni, il risultato sara' un bellissimo ladyboy , che portera' tanti soldi!!!

La testa degli uomini e' sacra, mai toccarla o passare qualcosa al di sopra, x le donne e' diverso, tanto non raggiungeranno mai l'Illuminazione in questa vita. I piedi sono la parte piu'infima e bisogna comportarsi di conseguenza, mai toccarli o sfiorare qualcuno.se si passa o riceve un oggetto, e' bene farlo con 2 mani e l'elemosina si fa inginocchiandosi innanzi al povero, il quale non vale meno di noi, non si "lancia" la monetina...

Il motivo, puo' sembrare banale, ma e' semplice: gli asiatici hanno un pene che varia tra i 2 e 6cm, e l'organo femminile e' in proporzione, le nostre misure sono un difetto qui (c'e' speranza per tutti...cosi come avere il seno grande), dunque una Thai che va con noi stranieri e' vista un po' come una bianca che in occidente, va con un nero. Esiste un'altra convinzione errata e comune: che nei paesini si trovino le brave ragazze da sposare...spesso sono le stagionali che vanno a Pukhet, Samui e BKk a battere ed e' facile capirlo perche' sono le uniche che parlano inglese (non l'hanno imparato a scuola...), inoltre essendo zone molto povere, tipo l'Isan, la culla di ogni prostituta, l'ignoranza unita alla bramosia di denaro facile, le spinge tra le braccia del "farang" ignaro...

I Thai, sono estremamente educati, se telefonano in pubblico, parlano sottovoce, se appena ti sfiorano involutamente, chiedono scusa con un ossequioso inchino, se passano davanti ad una persona, si abbassano per farsi "piu' piccoli", un gesto dolcissimo che di solito appartiene agli ex abitanti delle campagne o montagne.

In Thailandia e' sconveniente mostrare rabbia o anche solo esprimere opinioni contrarie(da noi si dice falsita'), chi litiga lo fa sottovoce, quasi sussurrando, se non si tratta di soldi ovviamnete...ed e' sconsigliabile aggredirli verbalmente, per loro equivale ad una minaccia e reagiscono in massa, con conseguenze disastrose. In un alite o un incidente stradale, il "farang" straniero, ha sempre torto, non importa la dinamica, soprattutto nelle aree turistiche e deve risarcire sul posto...o va in carcere. Un turista si e' sentito dire dalla Polizia:"Se tu non eri qui, l'incidente non sarebbe avvenuto" semplice no?

Nonostante cio' e' un luogo sereno e basta essere educati, un po' come nel nostro Meridione e si e' accolti bene. La loro ospitalita' e' tra le piu' signorili del mondo e la meno invadente, non vogliono nulla in cambio (parlo per i Thai che hanno ricevuto un'educazione, non quelli che stanno con i turisti) e la loro delicatezza e' inequiparabile.

Nel disordine regnano la calma, la pace, la serenita', se non si cercano sentimenti profondi o cose che qui non esistono, si puo' essere felici o forse dovrei dire soddisfatti, non vi sono attriti religiosi di alcun tipo, si e' ignorati e a volte non spiace affatto...non si hanno vere amicizie, ma non le hanno neppure loro

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