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Sei gradi di separazione (ovvero, dell'origine dei nick su questo forum)

@Tesista76 said:
Caro Sig. Bez,

mi chiamo Enzo, conosco il suo amico tesista il quale mi ha chiesto di parlarle della donna più bella del mondo, almeno così dicono sia mia figlia

Non ho capito perché dovrei parlare di mia figlia in un forum di puttanieri, ma l’argomento mi stimola perché ho saputo che lei è un pretendente ed un appassionato e molto competitivo quindi è mio dovere metterla in guardia perché ha un caratteraccio

La madre la incontrai da giovane tra i campi, era sporca, grassa, fredda e ignorante (anche io brillavo poco a scuola) ma giovane e sveglia, rimase subito incinta e la mia gioia fu immensa

Avevamo all’inizio solo le nostre vite e nostra figlia, che crebbe ad una velocità impressionante

All’inizio le piaceva stare insieme a me, ma già da piccola si rivelava un carattere indomabile e nel giro di pochi anni con dispiacere la vidi diventare una donna bellissima ma profondamente sola

Non che non avesse avuto pretendenti, fior fior di ingegneri, bellissimi ragazzi della provincia lombarda, persino tanti uomini che lasciavano un paese lontano per lei

Peccato li trattasse tutti come maggiordomi o peggio, li guardava dall’alto in basso e li allontana dopo poco tempo

Così ha fatto anche con il suo più grande amore, l’ha spinto fino al limite pur essendo lui sposato con bimbi, e la triste conclusione fu una immensa nostalgia, da parte mia, perché mi ero affezionato a quella faccia simpatica da scapestrato

Lei si curò la ferita sostituendo subito il suo amante

Tutti quelli che le sono vicino le danno della viziata, della snob, diciamola come vorrebbero dirla, della stronza

In realtà alla mia bambina la bellezza ha dato solo solitudine e impegni, un senso della competizione esagerato ed a me ha riempito la vita di alti e bassi

Ho avuto un maschio che morì da giovane, non mi va di parlare di lui, è stato sfortunato ed io lo amavo tanto, quasii di più della passione per la madre e dei successi della figlia, perché eravamo simili, ci piaceva lavorare e soffrire per una donna acccettandone ogni capriccio perché alla fine ci riempiono la vita è ne danno senso

Sono morto molti anni fa anche io ma so che altri cervelli da 110 e lode si fanno bistrattare dalla mia ragazza, altri si lamentano e sbattono la porta, ma a tutti poi viene il magone a ripensarla bella con quei capelli rossi in boccoli da principessa e la sua voce diretta e dirompente

Lasci che le dica, la bellezza rovina il sonno, fa vivere in solitudine le persone e bisogna valutare delle amanti meno belle ma che curano le ferite

Se le sto consigliando di non incontrare mia figlia? Ci mancherebbe, può farlo con cautela, anzi vivrà una delle stagioni migliori della sua vita, ma sappia che poi la abbandonerà senza dubbio e a lei si cicatrizzerà una ferita callosa sul cuore o le lascerà fare lo schiavo fino alla fine

In bocca al lupo Sig. Bez

Maranello, 08/03/2019

Caro Commendatore,

forse, nell’alto cielo in cui Lei vive, le notizie delle cose terrestri giungono con anni di ritardo. Mi trovo nell’imbarazzante situazione di doverLa informare che la sua adorata bambina è divenuta, agli occhi del mondo, ben altro da ciò che Lei ancora (affettuosamente) pensa.

Fino a quando era sposata al suo prediletto genero Luca, il numero dei suoi amanti restava “sempre uno di meno di chi mi la chiede”. Da quando ha scelto di accasarsi con il recentemente scomparso Sergio (e poi con il suo successore maltese), ha preso la strada della perdizione, del “tanti più, tanti meglio”, come una qualunque azienda quotata a Wall Street avente come fine il profitto, e non più l’esclusività o la poesia.

Non sa quanto mi dispiace doverglielo dire, ma, se è stata tirata in ballo in questo forum, è proprio perché ormai tutti la considerano una “escort”.
Quanto alle mie vicende personali, non so cosa Le abbiano raccontato, ma le due “Elise” della mia vita non furono affatto “stronze”. Essere belle non è una colpa ed io riservo quel termine solo e soltanto a chi usa la bellezza per ferire, irridere e umiliare. Distribuirlo a caso al genere femminile minerebbe la mia credibilità. Nei due casi in esame, semplicemente, fui io a non essere all’altezza o a non essere credibile.

Un nostro comune amico mi ha proposto una visione dell’amore parente della rassegnazione/consolazione. Secondo tale visione, ci si dovrebbe accettare di guidare solo delle Fiat Panda per poter guarire dalle ferite riportate in incidenti con auto da corsa. Io, invece, piuttosto che rassegnarmi a rinunciare per sempre alle pericolose emozioni che resero immortale il nostro Gilles, preferisco una visione dell’amore parente della vendetta e della guerra: a costo di usare il denaro per pagarmi il sedile, cercherò sempre di guidare cavalli (meglio se cavallini) di razza. Così da far schiattare d’invidia le men belle che pure mi hanno disprezzato. E da godere sempre della bellezza.

Cordialmente

Qualche giorno dopo l'8 marzo
Da qualche parte del mondo non distante dalla fabbrica della Lamborghini…

INCONTRA DONNE VOGLIOSE
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Mi consenta di chiarire che la mia bella figlia ha amato solo Gilles, Luca è sempre stato solo un buon butler, come piaceva chiamare lei tutti quanti i miei collaboratori migliori, compresi gli ultimi che ne vogliono fare un icona pop, e le dirò a me non dispiace che se la portino in giro per il mondo a qualche festa in più

Quante cavalle di razza crede ci siano in giro? La scocca non fa la razza, il motore alla lunga inquina e la solitudine del garage me la fa invecchiare. La mia ragazza ha un anima testarda, veloce e quando si veste bene non ha rivali, solo Gilles, solo quel simpatico canadese aveva le stesse cose in comune, ma l’amore assoluto brucia

Capisco bene che lei cerchi un leasing a 3 o 5 anni per sbiellare qualche sottomarca, ma le dico se trova una bella alfa con qualche chilometro già fatto, magari ci si affezioni che la porta in campagna bene e magari trova un quadrifoglio

Abbandonati al relax e al piacere, scopri i centri massaggi della tua citta'!
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QUARTO GRADO: DA MARSILIO FICINO A FRIEDRICH NIETZSCHE (10/18)

Ovvero: "LE DONNE, I CAVALLIER, L’ARME, GLI AMORI, LE CORTESIE, l’AUDACI IMPRESE"

Parte 12 di 18 : “Le donne: Maria”

Alla Gentildonna M.

Poiché il tuo nome è quello dell’Ave, nome che pare un balsamo a la bocca, io ti prego che Tu m’oda. Fin da fanciullo mi sono sempre sentito sacro a Minerva Atena, Dea della Ragione, delle Arti e delle Scienze, e per questo, nello studio, ho sempre ricercato la perfezione e l’eccellenza, anche quando questo ha comportato un distacco, oserei dire ascetico, dalle cose mondane. Mi sovvengono ora alla mente quei tramonti in cui, riposte le sudate carte. Del resto, ho sempre preferito le aepistolee di Cicerone ai discorsi volgari dei coetanei, il dialogo con i grandi personaggi effigiati da Plutarco o sognati da Virgilio al confronto con la mediocrità dei moderni, la lettura dei romanzi dannunziani, ricchi di immagini e di suoni, ammantati da una sfera lirica ed eroica ai comportamenti meschini e scevri di ogni grazia di certe donzelle popolane.

Come dice Seneca, nonostante la brevità della vita, si può vivere molto e a lungo, poiché attraverso la scrittura “nullo nobis saeculo interdictum est: Disputare cum Socrate licet, dubitare cum Carneade, cum Epicuro quiescere, hominis naturam cum Stoicis vincere, cum Cynicis excedere”, e infatti ho dibattuto con Guinizelli come “al cor gentil rempaira sempre amore”, ho inveito con Dante (“Ah, serva Italia di dolore ostello, nave sanza nocchier in gran tempesta non donna di province ma bordello”) nei pomeriggi di studio, ho esclamato con Cavalcanti “Chi è questa che ven ch’ognom la mira”, ho pianto con Petrarca “i capei d’or a l’aura sparsi”, ho vagheggiato con Poliziano la figura di Simonetta, simbolo lieve e fuggevole della primavera, ho discusso col Bembo sull’essenza dell’amor platonico, ho pensato con Machiavelli al superiore interesse dello stato nei confronti del moralismo de’ singoli e de’ preti (“poiché a ciascuno puzza questo barbaro dominio”), mi sono lasciato cullare dal languore delle rime del Tasso, ho elogiato con Marino le grazie delle dame, ho sospirato con Metastasio “dolce memoria al mio pensier sarai”, ho deriso con Parini la stolta superbia de’ nobili di sangue, mi sono sdegnato con Alfieri, le cui ossa “fremono ancora amor di patria”, ho rievocato con Foscolo “l’aurea beltà ond’ebber ristoro unico a’ mali le nate a vaneggiar menti mortali”, ho celebrato con Carducci le tradizioni romane e classiche della patria, ho auscultato con Pascoli la parola arcana della natura, ho vissuto con D’Annunzio il trapasso dell’Estate nella figura eterea e impalpabile, eppure divina, di Ermione, dal commiato lacrimoso della primavera (“la pioggia che bruiva, tepida e fuggitiva”) della “Sera Fiesolana” fino al “Novilunio di settembre” sul mare, più soave del cielo nel suo volume molle “tra il giorno senza fiamme e la notte senza ombre”.
Se percepire gli stimoli della Vita e del Sogno attraverso il filtro della Letteratura e dell’Arte classicamente intese si identifica con la pedanteria, allora io sono fiero di appartenere al Circolo de’ Pedanti.

Nell’Armonia del verso, nella pressoché infinita varietà dei registri prosastici e poetici, nell’innata musicalità delle parole (piene di vocali, ricche di allitterazioni ed onomatopee, di elegantissimi suoni “ore rotundo”, pure e lontane dalle impoetiche dissonanze delle lingue consonantiche nordiche), nella perfezione della rima, invidiata da tutto il mondo civile, la tosca favella si impone come il modello ideale di lingua artistica. Il Verso Italiano, quale è giunto a noi, a mio parere, grazie a D’Annunzio, ha una tale potenza suggestiva, un tale “divino” potere di evocare immagini e bellezze naturali e più che umane, una tale suadente melodia interna, una sì profonda musicalità di suoni e di parole, che l’anima è appagata nei suoi sensi assieme allo spirito. Il verso di D’Annunzio è in grado di evocare tutti i Maestri della Tradizione, dai classici Virgilio e Orazio ai Parnasiani e ai Simbolisti, dagli elegiaci romani Tibullo e Properzio ai al filone tardo stilnovista di Cino da Pistoia, dai trecentisti dimenticati (come Francesco di Vannozzo, dolce amico del Petrarca, di cui Marsilio Ficino scrisse “sovran maestro d’ogni melodia”) al Pascoli dalla lirica “cosale”, dai mistici medioevali come Jacopone da Todi (“il pazzo di Dio”) ai cultori della forma Cinquecenteschi. Esso spazia dai larghi modi del Poliziano alla grazia dell’Arcadia, dall’armonia perfetta dell’ottava alla compostezza del sonetto, dalla malinconica sensualità del madrigale alla struggente melodia della romanza. Nella metrica sciolta da rigidità predefinite, ma attentissima a creare, attraverso richiami continui, assonanze, ripetizioni, onomatopee, rime interne e allitterazioni, una partitura musicale, il verso Dannunziano si rivela nella sua più pura quanto inimitabile bellezza. Quando questo accade, il verso si ammanta di un alone di luce diffusa, come un manto di stelle, e brilla di una luce propria, quasi divina, incurante delle bassezze degli uomini. Esso vive di una vita simile a quella dei beati Dei, e parla solo ai più puri tra gli uomini.
“O poeta, divina è la parola, nella pura bellezza il Ciel ripose ogni nostra letizia, e il Verso è Tutto”. Il verso è tutto, poiché un verso, al contrario di altre opere d’arte, che necessitano di materiali e restauri, è perfetto in sé, nel suo potere di evocare immagini, nel suo valore allusivo e fonetico, nella melodia dei suoni interni, nella sua perfetta metrica. Un verso si richiude nella sua perfezione e non ha bisogno di spiegazioni: esso è come un lampo che squarcia i veli del tempo per giungere direttamente all’animo di quei pochi in grado di comprenderlo (nel significato etimilogico di “cum prendere”, “prendere con sé”), ovvero di riviverlo, di sentirsi risuonare per l’animo tutte le corde interne dell’armonia, di risentirne gli echi, le voci, gli aromi.
Come diceva John Keats “Beauty is Truth and Truth is Beauty”: non esistono verità o vite veramente degne al di fuori dell’Arte e della Bellezza. La forma è tutto. Nel grigio diluvio democratico odierno che molte e gentili cose ha sepolto, rari e sparuti sono rimasti gli animi in grado di comprendere come non dal barbaro gusto dei moderni sanza litterae, non dal fallace giudizio degli “intellettuali” di questo secol superbo e sciocco, non dall’occhio vile del volgo, ma soltanto dalle molli e carezzevoli mani di Venere Citerea possa la Beltà discendere ai sensi di noi mortali.

L’arte altro non è se non la Tecnica con la quale l’Idea Assoluta di Bellezza, custodita da Colei che nuda nacque dalle onde del Greco mare, può rendersi sensibile per gli uomini. La tecnica che rende gli uomini più simili agli dèi, poiché, pur investendo tutti e cinque, nasce nella sfera del pensiero, e, vincendo “di mille secoli il silenzio” si eleva all’eternità, è la poesia, la “creazione di immagini attraverso l’arte del dire”.
Per far sì che essa sia assoluta deve rimanere oggettiva ed esteriore. La Poesia è nel vago, ma perché rimanga tale, ovvero, deve rifuggire dagli eccessi di sentimentalismo, dal cattivo gusto e dall’arbitrarietà tutta interiore in cui la vorrebbero gettare certi barbari romantici. L’ispirazione e il forte sentire dell’artista, sono un unicum con la Forma che egli ha dato alla propria opera d’arte e la forma esteriore coincide con la legge interna o regola che fa sì che una cosa sia quella che è. Per un Dannunziano come me si può dire che la Forma sia tutto poiché contenuti della Vera arte sono sempre e dovunque i medesimi: la fugacità del tempo e delle speranze rivissuta tramite il fiorire e il trascolorare dei giorni e delle stagioni (“Soles occidere et redire possunt, nobis cum semel occidit brevis lux, nox est perpetua una dormienda), la brevità della vita e delle gioie della giovinezza ammantate da un velo leggerissimo di grazia e di malinconia (“Com’è bella giovinezza che ci fugge tuttavia, chi vuol esser lieto sia del doman non vè certezza” iscriveva il Magnifico), l’adorare ogni gioia caduca, ogni forma fuggente, ogni parvenza nell’ora breve come segni più sublimi e vaghi d’ogni cosa eterna (si rileggano le Stanze del Poliziano, e la tenue soavità della figura femminile di Simonetta, effigie della primavera fuggente e di tutte le gioie indefinite e caduche della vita), il contrasto tra luci ed ombre nella visione classica della vita come calore e della morte come freddo (come in “Pianto Antico” di Carducci), il desiderio di vincere la morte con l’armonia, le gesta e la Bellezza (basti pensare ai Sepolcri del Foscolo) e, soprattutto, la tensione verso la meta unica e perfetta idealizzata nelle forme della donna amata (“ Chiare fresche et dolci acque… Colei che sola a me par donna”).

Non scrivo per fomentare il cattivo gusto di esternare ai quattro venti i più sinceri e intimi moti dell’animo, col fine di apparire “intellettivi” e nominando questo malcostume “poesia”. Ho orrore nel dover notare il sentimentale “gittarsi a manate, vendersi a staia; persone e libri innumerevoli far professione aperta di sensibilità; ridondare le botteghe di lettere sentimentali e Drammi sentimentali e Romanzi sentimentali e Biblioteche sentimentali”. Il “caro fior dell’anima” dovrebbe essere custodito in luogo inaccessibile per l’occhio vile del volgo, come una reliquia sacra, e le intime pulsioni dell’animo dovrebbero sublimarsi nella ricerca della forma perfetta. Il vero artista non opera “per la gente”, ma per la gloria, che è postuma, e perciò non fruibile.

Io, che non sono certo un artista, né tanto meno un poeta, ma solo un cultore della bellezza, non concepisco poesia che non sia rivolta alla donna nella sua figura di sacerdotessa su gli altari di Venere. Ad altro di nobile non aspira il lauro se non a propiziare il mirto. Il fine ultimo di ogni Poesia deve essere la conquista materiale o spirituale della donna amata, in quanto “copula mundi” tra le bellezze inferiori, che sono terrene, e quelle superiori che sono divine. Con tutto il mio essere cerco di apprendere le tecniche dai maestri della forma per forgiare piccole liriche cesellate, a simiglianza di doni e immagini votive, da porgere, assieme alle opere degli artisti antichi, “mani delle donne che incontrammo una volta nel sogno e ne la vita”. La Donna è l’oggetto e l’essenza prima d’ogni Vera Poesia. Nel suo sorriso perennemente rivive più di una speranza, più di una promessa, più di un piacere, più di un sogno: rivive il mito della felicità edenica, dell’innocenza primigenia, il mito dell’età dell’oro, una beltà più che terrena, “quell’aurea beltà ond’ebber ristoro unico a’ mali/ le nate a vaneggiar menti mortali”.

Ora che i casi della vita mi impongono di studiare in un monastero di numeri e di calcoli (la Facoltà di Ingegneria), ove manca l’ispirazione principale dell’arte, la bellezza femminile, ho necessità di trovare la forma sensibile di ogni più elevato e nobile sentimento del “Bello”, la figura mondana di ogni più segreta brama dell’anima, la meta ideale e perfetta per ogni più puro e sublime slancio artistico.
La storia ha dimostrato che senza la figurazione terrena anche le più alte attività dello spirito non producono nulla di veramente artistico. Solo per merito delle donne boccaccesche la civiltà dei Comuni è uscita dall’antivitalismo medioevale per apprezzare le attività artistiche e riconoscersi figlia del naturalismo pagano, è solo grazie alle belle dame delle corti italiane del Quattrocento che l’Umanesimo ha avuto valenza artistica, solamente in virtù delle eleganti e dotte puelle del Cinquecento il pensiero platonico ha prodotto l’Arte che il mondo invidia. Solo la bellezza femminile, è dimostrato, può inculcare nei petti de’ gentili, oltre all’amoroso sentire che placa le maschie intemperanze, quel terreno fertile ove germoglia la Vita dell’Arte.
Ad altro non pensò Guinizelli quando, effondendo il “dolce Stilnovo ch’io odo”, incipiò la vera poesia italica; ad altro non sospirò Petrarca quando forgiò i sonetti dallo stile puro e rarefatto senza eguali nel mondo, che improntarono la tradizione italiana al culto della forma ideale e ai canoni d’armonia, equilibrio e compostezza; ad altro non guardò Boccaccio quando, narrando le storie che restituirono l’Italia alla religione delle lettere e della bellezza, riprese dalla Classicità l’eleganza di una prosa ampia e armoniosa, paragonabile soltanto all’Eloquio Latino.
La Donna è per me come un verso: non può e non deve essere apprezzata dalla Ragione, ma deve essere amata dall’anima nell’istante in cui si fa visibile. “Chi è questa che ven c’ognom la mira” deve esclamare l’animo rapito dello spettatore. Una donna potrà apprezzare un uomo dopo averlo conosciuto nel fondo dell’animo, così come si apprezza un romanziere, il suo pensiero e il suo stile, dopo aver letto le sue opere, ma per un Uomo non esiste fiamma d’amore vero che non scaturisca dalla vista, il più nobile dei sensi, come sosteneva Cavalcanti. Dall’ammirazione per la Bellezza l’uomo dotato di intelletto si eleva alla contemplazione di quel mondo Ideale dello spirito a cui ha anelato a lungo nelle sue speculazioni filosofiche o nelle sue estasi artistiche. La Donna, sacerdotessa di Citera sulla Terra, proprio come un verso perfetto, deve rispettare, nel corpo e nello spirito, nel vestire e nel guardare, nel comportamento e nelle movenze i canoni classici di armonia, di compostezza e di equilibrio, raffigurando al contempo l’elegante slancio della bellezza terrena verso quella divina con la grazia dello stelo di un giglio proteso verso la luce.

Altri uomini potranno appagarsi esclusivamente con la bestialità immediata dell’istinto, o all’opposto con la filosofia misogina che richiude l’uomo in un mondo puramente spirituale; per me la felicità può essere raggiunta soltanto attraverso l’amore Dannunziano, inteso come Arte del Piacere e Culto della Bellezza. Se desiderassi nella donna una interlocutrice per le mie speculazioni filosofiche, rimarrei un puro spirito senza appagamento, se ricercassi una femmina qualsiasi in grado di soddisfare i miei piaceri scaverei un solco incolmabile tra Natura e Spirito.
Solo quando lo slancio artistico e intellettivo ritrova nel corpo e nella naturale mondanità di una Donna il proprio prolungamento nel mondo dei sensi; solo quando la Donna, esteta della propria parvenza, sacerdotessa de’ valori mondani, che è vissuta nella assidua cura di tutti gli abbellimenti del mondo, vede nella mente artistica di un uomo la propria naturale e inimitabile continuazione nel mondo dello spirito, la sublimazione della propria Bellezza nel Mondo Delle Idee, possono veramente i due principi incontrarsi e fondersi all’insegna dell’Armonia.
Un uomo come me, cresciuto e vissuto in un mondo di idee e di pensieri, alieno da ogni interesse mondano, scevro da ogni banalità terrena, quale i futili amorini fanciulleschi, gli inganni dell’età, i divertimenti comuni, gli scherzi fra coetanei, le inutili uscite serali, quest’uomo interessato non al giudizio dei contemporanei ma al dialogo con la ideale comunità dei dotti di ogni epoca, questo individuo siffatto, avvezzo a confortare i dubbi di Petrarca, a consolare il Tasso, a discutere con l’Ariosto, a ragionare con Leopardi, a sdegnarsi con Foscolo, a esaltarsi con D’Annunzio, quest’uomo vede nella Bella Donna, unione mistica di mente e spirito, l’Unica possibilità di riconciliazione con la vita di natura.

E’ naturale per chi, dopo aver trascorso la leopardiana gioventù tra le sudate carte, appagandosi dell’infinità del tramonto, nutrendosi del piacer figlio d’affanno al termine di ogni fatica di studio, ha sempre sdegnato tutte le azioni comuni e banali, ha sempre trascurato tutte le gioie imperfette e transeunti, ha sempre rifiutato tutti gli affetti e gli amorini tanto semplici quanto passeggeri, bramare di unirsi, anima e corpo, ad una Donna dedita al culto della propria fisicità, alla cura del corpo, alla cosmesi del volto, ad una Donna che non concepisca preoccupazione a lei prossima dissimile dall’accrescimento, dal mantenimento, dal “culto” della propria Bellezza. Una donna siffatta, sacerdotessa di una religione mondana e naturale, piena di leggiadria e gioia di vivere, attenta ai piccoli particolari della vita terrena, interessata ai pettegolezzi e agli intrighi mondani, desiderosa della serenità e del conforto fornito dalle terrene ricchezze, dovrebbe a mio modesto parere, desiderare lo slancio artistico dell’uomo d’intelletto, il suo ascetismo, il suo disinteresse per le faccende mondane, il suo ideale distacco dalla quotidianità, il suo vivere nella pura dimensione del pensiero.
Per questo ricerco una Donna nella quale la naturale sensualità, diffondendosi a ogni atto del pensiero, a ogni movenza lieve, a ogni scelta dei vocaboli, dei balsami e dei vestiti si elevi alla sfera dei sentimenti, pervada l’intima essenza del suo essere, l’intera dimensione estetica e vitalistica, fino a divenire Voluttà. In Lei la ricerca del Piacere in ogni singolo atto deve affinare il gusto verso lo stile puro e rarefatto del Petrarca (“quanto piace al mondo è breve sogno”), verso quello gentile ed elegantissimo del Poliziano costellato di ninfe e di simboli viventi della primavera e della giovinezza fuggevole, verso quello armonioso e leggiadro dell’Arcadia disseminata di veneri e amorini, verso quello musicale e vario, pieno di chimere e di allusioni di D’Annunzio.
Una donna siffatta interpreta un ideale estetico: può essere bionda come le madonne petrarchesche dagli “occhi soavi e più chiari che il sole” da far giorno seren la notte oscura” e rappresentare, nella sua chioma come di angelo magnifico, tutta la bellezza delle piagge luminose della luce e delle distese marine baciate dal sole; può essere castana col viso adorno di cotanti ricci simili a chiare et aulenti ginestre, come le dèe greche, ed esprimere nel gentil riso il soffio d’eternità dell’ambiguo lume tra il giorno senza fiamme e la notte senza ombre, nella linea perfetta del naso e del viso il tocco perfetto della mano di Fidia, e nella spontaneità delle movenze quella sensualità naturale e pagana che certo ebbe Venere quando nuda uscì da le onde; può essere mora, come una bruna madonna piena di splendore dalla pelle colore dell’ambra, che nasconda negli occhi neri “promesse e misteri d’un paradiso novo di piaceri” e nei capelli medusei una ciocca fulva e misteriosa, o come una alta e sottile creatura dalle lunghe chiome, (simili alle scure acque silenziose d’un fiume segreto in una notte d’oblio) refluenti attorno al suo viso, dolce come la luna quando riluce placida sul mare notturno, e raffigurare tutta la purezza della bocca che dice “Ave” o tutto il mistero di quella che perde le anime fra onde della voluttà.

Perché gli umani si considerano signori della natura? Il toro è più forte dell’uomo, il grillo è più intonato, la gazzella è più veloce, il lupo produce da solo il suo mantello, le api producono il miele, più dolce di qualunque cosa umana, gli uccelli costruiscono nidi mirabili e sanno volare da soli: la capacità di comunicare attraverso la parola distingue la stirpe umana dalle famiglie di animali. L’uomo è come la prosa ampia, elegante ed armoniosa del Boccaccio: ha bisogno di tempo e di spazio per esplicare tutto il suo fascino e deve soprattutto comunicare un senso.
Sinceramente spero che la tua trasmissione romana, a somiglianza dei raffinati salotti frequentati dallo Sperelli mi dia la possibilità di misurare le principali doti che un uomo deve possedere: la capacità e l’ordine del dire, senza le qual cose la ragione stessa sarebbe vana. Quando queste qualità non possono essere esternate, l’uomo è un nulla indifeso dalla tempesta dei secoli. Sono per me da evitare luoghi di barbaro divertimento come le discoteche, nei quali l’uomo virtuoso è ridotto a un nulla, poiché non può esercitare e sfoggiare le sue fondamentali qualità, ossia la cultura e l’eloquenza. In questi luoghi di perdizione, dove volteggiano figure di donna impenetrabili e intangibili, come le ombre dei gironi danteschi, l’impossibilità di ottenere dannunzianamente l’amanza alimenta insani desii. Allora veramente l’umano si impossessa dell’animo dell’uomo, il quale si dimentica di essere spirito eletto, nato per vagheggiare forme perfette ed ideali artistici e si sente irrimediabilmente costretto dalle pulsioni primordiali della carne. Viene da esclamare: o Romolo, ben erano più eleganti i tuoi ludi! Almeno onesti erano gli intenti dei tuoi soldati, che come canta Ovidio dissero “perché sciupi i tuoi occhi incantevoli con le lacrime? Io quello che tuo padre è per tua madre questo sarò per te”. Vera fu la promessa che legittimò i desideri di natura e diede vita al buon popolo romano.
Se avrò trovato nel tuo nobile salotto trovare la sola capace di interpretare il mio “Sogno Estetico”, allora ella sarà l’Eccelsa, l’effigie benedetta attraverso la quale tornare a vivere nella vita reale, l’Unica per cui valga la pena di immischiarsi con l’anima nelle umane vicende. A lei dedicherò doni preziosi e versi votivi, come segni tangibili del culto della sua Bellezza. Ella sarà l’ideale continuazione della vita intellettuale nella vita reale, il prolungamento della mente nel mondo della natura, il mistico anello di ricongiungimento tra il mondo dello spirito e quello dei sensi.
Ella sarà veramente, come dice il Tasso, “vita della mia vita”: così naturalmente interessata alle cose di natura e da esse appagate, costituirà la mia “continuazione” nel campo mondano, desiderando e appagandosi di quegli aspetti della vita (quali le parvenze, gli unguenti, i particolari estetici, i piccoli doni da offerire) ch’io trascuro, mentre io sarò il prolungamento di lei nel campo spirituale, poiché, narrandone la bellezza, la porrò come meta sublime di ogni speculazione filosofica.

Solo se pura e bellissima come una sacra immagine la donna può avere questo valore “sacro”. Solo se nell’altezza della sua figura scultorea sono fatte sensibili tutte le bellezze del cielo, solo se nell’armonia delle forme slanciate e perfette si percepisce lo studio di un divino scalpello, nel suo corpo immobile di dèa si rileggono quelle bellezze più che terrene le quali sole danno nutrimento all’animo di un uom d’intelletto teso, come dice il Vate all’amico F.P.Michetti, “all’Ideale che non ha tramonti, alla bellezza che non sa dolori”.
L’ammirazione e il culto per l’alta beltà donano all’anima una brama infinita di piaceri terreni e più che umani, un desio inesausto di elevazione materiale e spirituale, uno stato divino di ebbrezza inesauribile dei sensi e delle idee. Quando l’alta bellezza sua è tanto nova, la donna rappresenta per l’uomo la figura mondana di ogni sua più elevata e nobile attività dello spirito, di ogni sua più ardita speculazione artistica.
Se crediamo al mito del Foscolo, Diana, Bellona e Citera erano mortali divenute dee per il canto de’ poeti. La prima, casta e timida, era il terrore dei cervi: che sarebbe di lei, ora, se i poeti non le avessero consacrato altari in terra e il carro della luna in cielo? La seconda, vergine amazzone, correva con le chiome sciolte per i boschi di Arcadia: chi saprebbe la sua ira guerriera se un poeta non l’avesse resa immortale? Infine anche colei che sola dà nutrimento all’arte, colei di cui ogni amata è sacerdotessa, era una donna mortale, che schiere di poeti resero dea cantandone l’immortal bellezza.

La bellezza eternatrice è un mito che si fonde con la Verità Assoluta che John Keats, unico grande poeta inglese, la cui Anima è veramente degna di risiedere tra gli spiriti magni, ha mirabilmente narrato nell’ode su un’urna greca.
Nella perfezione dell’opera d’arte, le scene di vita gioiosa, e le fanciulle leggiadre ritratte si ammantano di quell’alone di luce diffusa, di quell’aurea di idealità armoniosa e beata, che sola può rendere vaghe e sublimi le cose del mondo come mai nulla di eterno può essere. La malinconia del ricordo (dolce per sé), del vagheggiamento di un’età dell’oro, di una dimensione di felicità edenica irrimediabilmente perduta, simile a un velo leggerissimo calato sul volto dell’umanità pur atteggiato a tristezza, si dissolverebbe immediatamente al contatto con le materiali cure. Come sostiene D’Annunzio, nulla a questo mondo è più soave di un paradiso pagano narrato da un cristiano. I campi Elisi evocati da un Antico romano non hanno la stessa tenue dolcezza, il Paradiso di Dante non possiede la medesima struggente vitalità.
Solo quel velo divino di grazia che ricopre con musicale eleganza le strofe del Poliziano, le figure femminili del Rinascimento viste attraverso l’epos dei poemi ariosteschi e la composta riflessione del petrarchismo neoplatonico (ideato dal Bembo), l’Aminta del Tasso, le arie del Metastasio, le pastorellerie Arcadiche, il puro neoclassicismo delle odi Foscoliane e l’opera tutta dell’Infelice britanno è tale da render quelle scene e quelle donne non più umane, bensì divine. Così, al sicuro dalla furia degli anni, immutabili nel loro perpetuo splendore, molte Donne sono state immortalmente amate.
Se quanto piace al mondo è breve sogno, se tutte le gioie e le speranze sono destinate a dileguarsi come neve al sole (cosa rimane, disse il vate, delle nevi dell’anno prima?), se il tempo passa e non s’arresta ognora, se la stessa rosa che sboccia oggi domani appassirà, allora , “erigere un tempio, far vivere un marmo, comporre un immortale inno” immortalare la bellezza di una Donna, deificarla nell’opera eterna, sublimarla nella più perfetta delle forme sono gesta degne di una dimensione più che umana. Io non appartengo certo a quella ideal razza inimitabile di oltre-uomini in grado, come Fidia, Petrarca, Poliziano, Ariosto, Tasso, Metastasio, Canova, di fissare forme eterne nel marmo e nelle parole, ma nemmeno a quella spregevole schiera di barbari che di volta in volta esalta le dissonanze, le “rime aspre e chiocce”, gli autori non devoti al rigore estetico.
Almeno, dall’apprezzamento dei classici e dalla lettura dei romanzi dannunziani provo di trarre quell’amore, ereditato direttamente dagli Antichi, per la magnanimità e la grandezza, quella tensione, espressa nel “Trionfo della Morte”, verso l’assoluto della melodia, quel desiderio insopprimibile di lotta e di sfida, di velocità e ardimento magnificato in “Forse che sì forse che no”, e soprattutto, come Andrea Sperelli, quel senso dell’unicità e dell’eccellenza, quel gusto estetizzante per la romanza e il sonetto, quel culto della forma che ricopre ogni aspetto della vita di un’aurea di idealità artistica.

Gravis dum suavis deve essere per una donna avere come amante un Uomo circondato dall’aureola d’artista, poiché può dire: “in ogni suo gesto, in ogni suo moto d’animo, in ogni suo atteggiamento verso di me brilla la pura fiamma dell’arte alla quale mi scaldo io sola”.
Ammetto di ammirare prima di tutto in una donna la bellezza, poiché solo nella bellezza risiede il fondamento dell’Arte e della Civiltà. Non tollero i falsi sapienti, i quali parlano di “bellezza interiore” e magnificano le doti “intellettuali”: essi sono solo dei barbari che in realtà si appagano soltanto con il piacere animale, e per questo sono disinteressati a ciò che chiamano “esteriorità”. Se si appagassero davvero delle doti spirituali si contenterebbero di leggere la “vita nova” invece di illudere dolci donzelle.
Questi si permettono perfino di condannare la Donna interessata alla posizione sociale dell’amante, accusandola indegnamente. Non è basso e vile, ma alto e nobile, per una donna, esigere, nell’ambito del culto della propria bellezza, assieme ai complimenti e ai carmi, anche collane e gioielli, viaggi in auto da favola e soggiorni in alberghi di gran lusso, vestiti da regina e serate in luoghi da sogno, come segni tangibili e tributi di devozione. E’ Sacro Diritto di ogni Sacerdotessa di Venere citerea bramare con tutto il suo corpo la vita serena spettante alle dee.
Tutto è lecito se è bella.
Ella allora è la forma sensibile di ogni più alto e sublime ideale artistico, di quella bellezza ch’egli ha assiduamente ricercato negli spazi iperuranici delle idee o nella gioia innocente e serena della natura. Ella, come Ermione, deve essere il diario vivente dell’Estate. La sua figura, eterea e impalpabile, fuggevole e lieve, deve essere la parvenza, non lieta, non triste che segna il trascolorare dei sensi al passaggio dell’Estate, dal commiato lacrimoso della primavera (“la pioggia che bruiva, tepida e fuggitiva”) nella “Sera Fiesolana” fino al “Novilunio di settembre” sul mare, più soave del cielo nel suo volume molle tra il giorno senza fiamme e la notte senza ombre. Ella, nella sua indefinita bellezza, trasparente come la medusa marina, pura come la neve sull’acqua, labile come la schiuma su la sabbia, pallida come il piacere sull’origliere, oppure bronzea come la sabbia che riluce al tramonto, deve sapere evocare negli occhi la profondità di acque cristalline e purissime quanto quelle del fiume in cui Glauco “si fè consorto in mar de li altri dèi”, nel riso il soave biancheggiar dell’onde su la riva, nelle chiome quella canzone di aromi di silenzi di auree e di ombre che canta l’estate fuggendo nel novilunio di settembre.
Nella sua pelle si deve ritrovare l’intatta purezza che mantiene la molle sabbia nelle sue conche vacue quando l’onda lasciva lieve l’accarezza e subito si ritrae, e deve rilucere come il mite oro del grano in bocca all’estate matura. Tutte le essenze del suo corpo devono esalare lo spirito dell’estate, lo spirito di alghe di resine e d’alloro, nella sua forma deve rivivere la melodia de la terra, la melodia che fan i flauti dei grilli nei campi tranquilli, che fan le rane nelle pantane, che fan gli uomini solinghi tessendo le vermene in canestri con sì lunghe parole che ritornano sempre, la melodia de la terra che il mare accompagna col suo lento ploro.
Il suo volto, dev’essere fresco come il viso della creatura terrestre che ha nome Rosa, dischiusa dal sen della più divina bellezza, chiaro e dolce come il silenzioso viso esangue della creatura celeste che ha nome Luna, con una collana sotto il mento sì chiara che l’oscura, mentre brilla nell’aria lontana, ov’ebbe nome Diana, ov’ebbe nome Selene dalle bianche braccia quando amava quel pastore, giovinetto Endimione che tra le bianche braccia dormiva sempre. La sua bocca, come quella dell’ultima estate umida ancora della prima uva matura, deve emanare un suono grave e soave come il lento respiro del mare, come un anelito breve di foglie, come il segreto di un sogno silenzioso ammantato di beate immagini.
Ogni uomo che non si appaghi delle ripetitive azioni quotidiane, che non si contenti delle banalità terrene, ma che aspiri a una dimensione ideale e imperitura, che vagheggi un’effigie sublime e perfetta, ogni uomo non vile, non mediocre è anche artista, in quanto creatore di un sogno estetico, e artefice del gesto teso alla sua realizzazione. L’uomo non meschino traspone nel mondo del pensiero e dell’azione ciò che la bella donna custodisce e brama nella sfera della natura e dell’intuito. Solo la speranza di conquistare la meta ideale di ogni moto dello spirito può affinare l’arte dell’uomo, la tecnica con la quale porgere tributi alla Bellezza.
So che sarò stimato pazzo (o immaturo, accuserebbero i moderni) nel pretendere di conquistare una donna siffatta, come so anche che qualsiasi uomo non piccolo di questo mondo ha avuto questo nome. “Memento audere semper”.

L’uomo dotato di intelletto non può obbedire agli “ultimi uomini” moderni, i quali suppongono più o meno apertamente che la maturità consista nell’appagarsi della quotidianità, nel tollerare la mediocrità, nel concepirsi come “un uomo fra tenti” e rinunciare ad ogni slancio ideale, o comunque nel limitarlo secondo le imposizioni della società, della convenienza, della ragione. Si tratta di un atteggiamento da “ultimi uomini”,prigionieri della banalità, ridotti all’impotentia (distacco fra pensiero e azione) o addirittura incapaci di pensare al di là delle contingenze materiali, e condannati a vivere “nell’al di qua” (con le sue paure e i suoi complessi) perché incapaci di gettare i ponti verso l’Ubermensch. E’ invece degno dell’Uomo con la “U” maiuscola dichiarare al cospetto di costoro di voler rimanere immaturi fino ai primi ottant’anni di vita, perché solo chi è così “immaturo” da pensare di poter dare al mondo, all’azione, alla vita la forma dei propri ideali può veramente compiere “egrege cose”. Tutti coloro che, attraverso il dialogo con i “Grandi” radunati da Dante nel Castello, raffigurati da Plutarco nelle “Vite” o narrati da Virgilio e da Omero nei loro poemi, hanno appreso la fiducia nell’io, nel proprio slancio eroico, nelle proprie eccezionali capacità hanno poi compiuto azioni mirabili. Essi hanno sempre mostrato un comportamento “rigido” nei confronti delle meschinità che li circondavano. Da Alessandro il Grande a Napoleone nessuno si discosta da quell’atteggiamento (tacciato d’immaturità dalla moderna società di “massa”), comprendente il culto della personalità, dell’unicità, dell’eccellenza. Il grigio diluvio democratico odierno non comprende e disprezza chi si eleva al di sopra della massa, e per questo conia il termine “immaturo” per chi, sapendo di potere più della media, si comporta di conseguenza. Anche nell’ars amandi si verifica la medesima situazione, ma le Donne veramente degne di questo nome hanno diritto a pretendere di essere effigiate in statue, incisioni, ritratti, deificate in poesia, in modo da non vivere più nella dimensione de’ mortali, ma nell’Eliso in cui vivono Citera, Bellona e Diana (mortali divenute dee pel canto de’ poeti), se si accetta il mito del Foscolo rivelato nell’ode “All’amica Risanata”. Così, intatte nel loro perpetuo splendore, potranno ricevere il culto e i doni dei posteri ed essere immortalmente amate. Solo essendo la meta ideale per i moti dello spirito di un uomo d’intelletto la donna può aspirare ad elevare la propria bellezza al di là delle parvenze terrene, a una sfera ideale e assoluta, mitica ed eroica, propria degli dèi immortali, che né l’oblio dei secoli, né le bassezze degli uomini potranno distruggere, e che solo l’arte sa costruire. Allora sì Ella risplende di quell’alone di luce diffusa che s’irradia dalla sfera lirica e purissima alla quale la mente dell’Uomo tende attraverso un continuo confronto con la Comunità dei Dotti di ogni epoca, un assiduo labor limae nella figurazione della forma, una costante ricerca della Parola Ideale tratta dalle immortali opere de’ Gentili e degli Italiani.

Grazie al culto che l’Uomo d’intelletto le porge, Ella è più di una forma sensibile, più di un semplice ideale, ella è la raffigurazione di quella dimensione assoluta e perfetta alla quale lo spirito anela attraverso il culto della Forma e della Bellezza, l’effigie di quell’aurea di idealità armoniosa e beata cui l’anima aspira grazie all’amore per l’arte, la Classicità, le Belle Lettere.
Non sopporto la masnada di coloro che criticano un Maestro come D’Annunzio accusandolo di superficialità. Essi non amano l’arte: ameranno la morale, la filosofia, la democrazia, ma non l’arte, perché se amassero l’arte amerebbero il Vate. Nessuno come lui ha vissuto interamente nell’arte e per l’arte, ammantandosi nella sua visione del mondo di una sfera lirica ed eroica. Nella sua parola tutto si trasfigura, assumendo i contorni dell’epica, della sfida, della leggenda oppure della magia, dell’estasi, del sogno. Chi lo critica o è una donna che sa di non vantare una bellezza degna di essere accostata alle sue opere, o è un uomo vile, meschino, invidioso che sa di non avere lo slancio artistico per conquistare una donna bella come una dama Dannunziana.
Le banalità della vita paiono in lui trascurabili o eliminabili per lasciare spazio allo slancio ideale di personaggi quali Stelio Effrena del fuoco, conquistatore della dimensione dell’arte e come l’aviarore Paolo Tarsis di “Forse che sì forse che no”, conquistatore, come un novello Icaro, del terzo regno, quello del Cielo.

Sono altresì da vituperare quanti in ogni luogo criticano la figura dell’amante dannunziano, poiché l’Uomo non può accontentarsi di una sola forma imperfetta, ma con il proprio intelletto deve ricercare nella varietà delle forma viventi “l’Ideale che non ha tramonti, la Bellezza che non sa dolori”. Il Vero amante Dannunziano, come Sperelli, non si identifica con il Don-Juan da villaggio, che con i muscoli ben in vista palpa le sode membra di ogni donzella popolana, ma con il raffinato e incontentabile Cultore della Vera forma e della Vera Bellezza, il quale, a prova, suona tutti gli strumenti alla ricerca dell’”ut gaudioso”. Ricercare in ogni Parvenza e in ogni Donna quei frammenti di perfezione appartenenti all’unica Bellezza, al fine di ricostruire nella propria mente l’Eterno e l’Imperituro, permette agli uomini di elevarsi nel modo più nobile possibile.
L’amore non è, per me, impegno o dovere, ma piacere e bellezza così come ce lo mostra nell’opera del Canova Paolina Bonaparte nelle vesti di Venere Vincitrice stringendo ne la mano il pomo. Solo la crudele e invidiosa Giunone tenta di ricondurre tutto alla sfera del matrimonio, sacrificio che solo l’amore per la più alta di tutte le donne, la patria, può pretendere.
Nella mia visione epicurea e lucreziana l’amore è la Voluptas cinetica che muove il mondo, l’inganno estremo della specie, come dice Schopenhauer.
Null’altro è se non la più spietata delle leggi della Natura Onnipossente, che solo l’Arte del Piacere e il Culto della Bellezza possono, attraverso le grazie della bella e pietosa Venere, e l’armonia del perfetto e solare Apollo, rendere degnamente umana.
Solo la cetra di quel Dio Delio che con il suo carro illumina il Cielo, la Terra, il Mare e gli Eroi, rivela ai Poeti il mistero musicale con in bocca il sapore del mondo, disvela agli artisti, la perfezione delle forme, spande per le menti de’ mortali una luce diffusa di perfezione sovra l’arti, le tecniche, le scienze, solo quella medesima cetra che dal Parnaso effonde un’aurea di idealità armoniosa e beata e una melodia che vince di mille secoli il silenzio, può far naufragare la Donna negli imperi dell’Illusione e del Sogno, perdendola in quella “favola bella che ieri t’illuse, che oggi m’illude”.
Solo l’intervento di Colei che con la sua Bellezza è copula mundi tra le cose inferiori, che sono terrene e finite, e quelle superiori, che sono divine e infinite può far rivedere specchiate nella donna le pure beltà del dolce viso della creatura celeste che ha nome Luna quand’è lucente sulle onde del mare, le infinità serene del cielo sgombro di nubi, le dolci fragranze della rosa fresca aulentissima dischiusa dal sen della Bellezza, solo Ella può far rivivere nel profumo della donna le acque odorose dormienti nel plenilunio di giugno, le chiare ginestre aulenti, gli aneliti brevi di foglie, i sospiri di fiori che dal bosco s’esalano al mare, può far riudire nelle grazie di lei il respiro dell’estate, d’alghe, di resine e d’alloro, la sua canzone d’aromi, di silenzi, di auree e di ombre, la melodia della terra, la melodia che si ode nei campi dai flauti dei grilli, dalle rane lontane dalle rauche cicale, la melodia che il mare accompagna col suo lento ploro, tanto da rendere sì dolce e gradita all’Uomo “quella favola bella che ieri m’illuse, che oggi t’illude,/ O Ermione”.

Il vago desio per il quale fremo e il dolce sogno da cui sono rapito immaginano di rivivere assieme a Colei sarà l’Eccelsa una favola antica una gioia arcana e di figurare per lei “tutte le parvenze divine” le quali “creano /questa perfetta gioia che gli uomini /conobbero sotto gli antichi/ tuoi cieli, o Ellade, e conoscemmo/ pur noi nel tempo quando in un’isola/ armoniosa de l’Arcipelago/ costei si nomava Ioessa/ ed io nomavami Dorione,/ e l’una in voto offriva a Venere/ Cipria lo specchio il cinto il pettine, /e l’altro sacrava ad Apollo/ Delio la rete l’arco la lira.
Mi scuso per la prolissità di questa mia, ma era esigenza insopprimibile dell’animo disvelare l’essenza del mio pensiero dannunziano.

Ti stringo la mano, F.

Questa era la lettera, fortunatamente mai spedita, che avevo scritto a Maria de’ Filippi, la quale già allora, Anno Domini 2001 (primo del terzo millennio) e successivi, conduceva una trasmissione con l’illusorio compito di far incontrare uomini e donne. Non sono nato diffidente, asociale e snob: all’epoca pensavo (beata ingenuità dei vent’anni) fosse possibile conciliare il mio amore per la bellezza e le lettere con il mio bisogno di trovare un’anima gemella nel mondo contemporaneo. Ero ben più stolto dei ventenni che pure irridiamo oggi per credere troppo nella Bocconi e nelle promesse di felicità neoliberiste.
Ero ancora insomma portato a ritenere che il non verificarsi di un incontro con una fanciulla tanto bella da attrarmi e tanto nobile (letterariamente parlando…) d’animo da apprezzarmi dipendesse solo e soltanto dal vivere in una “piccola Recanati”, dall’essere confinato in un ambiente universitario pressoché esclusivamente maschile, dal non poter frequentare, insomma, per dirla con l’Ovidio dell’Ars Amandi, “quelle acque dove si radunano molti pesci”. Ecco quindi che la soluzione del mezzo televisivo come occasione di notorietà rapida, o comunque come modo di far conoscere le mie qualità intellettive e sensitive ad un pubblico abbastanza vasto da contenere belle fanciulle, mi parve la più percorribile (per la verità arrossisco ancora oggi al pensiero di aver sinceramente creduto che la belle lettere, la vasta conoscenza, la ricercatezza stilistica, la proprietà lessicale, l’amore per l’eloquenza e la passione per la dialettica avrebbero potuto valere qualcosa all’interno della TV trash!).

Quando capii l’assurdità dell’idea, ripiegai su un’altra Maria. “Non è una donna, è un’apparizione” dice un personaggio di Truffault in “Baci Rubati”. Petrarca l’avrebbe detto in versi.

“Erano i capei d’oro a l’aura sparsi
che ’n mille dolci nodi gli avolgea,
e ’l vago lume oltra misura ardea
di quei begli occhi, ch’or ne son sì scarsi;

e ’l viso di pietosi color’ farsi,
non so se vero o falso, mi parea:
i’ che l’esca amorosa al petto avea,
qual meraviglia se di sùbito arsi?

Non era l’andar suo cosa mortale,
ma d’angelica forma; e le parole
sonavan altro, che pur voce humana.

Uno spirto celeste, un vivo sole
fu quel ch’i' vidi: e se non fosse or tale,
piagha per allentar d’arco non sana.”

Anche nel mio caso i capelli della fanciulla erano colore dell’oro e la loro lunghezza li rendeva mobili al vento come foglie ad ogni volgere del volto. Anche nel mio caso la capigliatura era tale da far apparire l’ovale del viso una cosa del paradiso. Anche nel mio caso la chiaritade degli occhi di lei pareva brillare di una bellezza celeste – come di stella nel cielo profondo - ed essere stata accesa nella notte dei tempi da un Dio che volesse comunicare il proprio amore ad una galassia lontana.
Ed anche nel mio caso, quindi si sarebbe propriamente dovuto parlare di apparizione: anche parlando prosaicamente, non aveva difatti nessuna spiegazione causale la comparsa improvvisa alla vista, nel nostro ambiente grigio e tetro, abitato da aspiranti ingegneri con il maglione a righe e le maniche più lunghe delle braccia, ingentilito tutt’al più da qualche coetanea magari anche guardabile, ma quasi sempre abbigliata e atteggiata come noi (ovvero incurante dello specchio, protesa essenzialmente allo studio ed immersa in calcoli astratti e pensieri matematici), di una bionda madonna di tipo petrarchesco, con capigliatura e trucco talmente perfetti (forse eccessivi) da parere destinati ad una foto in posa per la pubblicità, vestita rigorosamente di nero, con tanto di minigonna e stivali, che facevano risaltare due gambe lunghe e sottili come colonne corinzie.
Apparì una prima volta durante uno scritto di “elettrotecnica”, una prova a cui partecipai, pur avendo già svolto le prove intermedie, nel tentativo di migliorare il voto ivi ottenuto. Non l’avevo mai vista durante le lezioni e notai subito come una bellezza del genere potesse sconvolgere gli equilibri consolidati in un ambiente così pieno di giovani maschi da abituare le poche creature femminili presenti a sentirsi preziose solo per il proprio genere e le relative (spesso solo presunte) bellezze.

La professoressa, una delle poche donne della facoltà, fingendo tranquillità e noncuranza, la prese subito di mira dicendole, mentre le passava accanto: “cara la mia ragazza, se scrivi in questa maniera è difficile che io riesca a capire”. Mi venne interiormente da sorridere, pensando che, se ella era riuscita a decifrare la mia grafia, non poteva ora lamentarsi di quella di una fanciulla magari non campionessa in calligrafia, ma comunque ancora umanamente leggibile. L’invidia femminile era evidente. Mia madre me ne aveva sempre parlato (“le donne sono gelose l’una dell’altra…”), ma io non avevo mai avuto modo di riscontrarlo. Ora osservavo compiaciuto la verità delle affermazioni di mia madre. In una giornata in cui mi persi in calcoli banali (l’elettrotecnica non ha nulla di difficile, ma risolvere sistemi di equazioni basati sulle leggi di Kirkoff implica sempre la possibilità di dimenticare qualcosa: preferivo materie concettualmente più complicate ma meno soggette ad errori accidentali), l’unica soddisfazione fu proprio quella di vedere un’esponente delle solitamente privilegiate (finché, e nella misura in cui, operano in un ambiente di uomini) “belle fanciulle” messa ulteriormente in difficoltà (in difficoltà psicologiche soggettive, cioè, che si aggiungevano a quelle oggettive del compito scritto) da un’altra donna.
Per la cronaca, ebbe anche per me un esito così infausto che, dopo l’estate, scelsi di presentarmi all’orale con il voto (solo discreto) della prova intermedia, con il quale, pur con un’eccellente prestazione nel corpo-a-corpi dialettico/accademico con la prof, non potei andare oltre una valutazione finale di 28 trentesimi (per me una seconda sconfitta dopo quella, nobilissima, che racconterò fra poche righe).

A settembre rividi l’apparizione di colei, che solo in seguito avrei iniziato chiamare Maria, durante le prime lezioni dei corsi successivi al biennio (all’epoca esisteva pure il verbo “sbiennare” per indicare il completamento di tutti gli esami dei primi due anni, comuni a quasi tutta Ingegneria, che potevano, a seconda dei casi, impedire il proseguimento degli studi ad anni successivi). Evidentemente ella le frequentava per la seconda volta, essendo da più di un anno (come avevo potuto dedurre durante gli esami di elettrotecnica) alle prese con le stesse materie che per me erano novità.
Come un’icona, era immutata: lo stesso trucco perfetto (e pesante), gli stessi capelli biondissimi, la stessa aria spaesata e innocente (come, appunto, fosse un sonetto di Petrarca infilato per sbaglio in un libro di Analisi o di Fisica). Tutto ciò la rendeva veramente simile ad un sole, o ad un’altra entità siderale, che appaia eternamente uguale a sé, eternamente risplendente allo stesso modo, tutte le volte in cui ritorna visibile dalla terra. Appariva cinta della medesima bellezza angelicata, insomma, sempre con la minigonna “d’ordinanza” e gli stivali neri alti fin quasi al ginocchio (in altre parole, una forma moderna di angelo magnifico quale raramente potevamo vedere a ingegneria).
Non ebbe il tempo di infilare il proprio delizioso fondoschiena fra il piano di seduta e il banco (in quel semicerchio sopraelevato a cui, a similitudine di una piccola aula parlamentare, si conformava il luogo dato alla platea degli studenti nel vecchio edificio della mia facoltà), che il mio nuovo compagno di corso (con il quale, fino ad un attimo prima, stavo parlando di vetture Peugeot preparate e dell’opportunità di passare dalla vecchia, ma ancora bassa e ben assettata, 306 S16 alla nuova, ma più alta e modernamente imborghesita 206 GTI), come richiamato da una molla invisibile, si lanciò a sedersi vicino a lei, scavalcandomi con una mossa abile e veloce sottolineata da un sorriso a me diretto e significante “cosa vuoi? Che la lasci a te? Questa volta sono stato più veloce io, in pista o sulla strada si vedrà!”.

Non ricordo per nulla quale materia fosse, ma ricordo perfettamente la mia stizza al pensiero che, in quelle lunghe ore di lezione, avrei potuto, se accanto a lei, rispondere sottovoce a suoi eventuali dubbi, anticipare certi risultati del docente, (contando sulla mia abitudine a restare sempre al passo delle lezioni e sulla mia abilità ad intuire dove ragionamenti e dimostrazioni sarebbero andati a parare) o addirittura rivolgerle qualche battuta “fuori tema”, magari di letteratura o di storia, giusto per sfoggiare qualcosa di me che potesse valere in bellezza intellettuale quello che in ella vi era di bellezza corporale. E invece al mio posto vi era un “bruto” che, secondo quanto avevo potuto dedurre dalla nostra conversazione, non conosceva altra poesia da quella del “tuning” più “maraglio”, era a digiuno assoluto di lettere classiche e non brillava particolarmente per doti matematiche in particolare e intellettuali in generale. Proprio il raffronto fra solita grigia noia studentesca che stavo vivendo (seduto da solo o fra personaggi insignificanti) e la policroma varietà di sentimenti, parole e speranze che avrei improvvisamente potuto vivere e far vivere tramite quel dialogo solus ad solam così possibile (se seduto vicino a lei) e così inopinatamente svanito (con quel posto rubato) mi stava rendendo intollerabile una lezione altrimenti “normale”.
Non potevo non guardare, dalla fila dietro, le pelose e robuste braccia di quel “tamarro” mentre fingevano di abbracciare la sedia della ragazza, con aria di protezione (verso di lei) e di vanteria (verso gli altri maschi). Di quando in quando la sua testa si avvicinava a quella

Andai a casa adiratissimo, sfogandomi nel raccontare l’episodio a mia madre. “Per una volta che c’è una bella…” Non so neanche fino a quanto ebbi voglia di descrivere e narrare. Sicuramente, fui molto espressivo nel comunicare il mio stato d’animo, tanto che ore dopo, rincasando assieme a mio padre, lo avvertì: “oggi Flavio è arrabbiato”. Dovette avergli riassunto qualcosa, perché, salendo le scale, egli, con la sua solita gioviale spressione, mi chiese: “Ti hanno soffiato il posto?” “Vaff….” gli risposi gridano con esagerata furia e rinchiudendomi in camera.

La mia ira non teneva conto del fato che, quando decide di far incontrare due persone, se ne infischia dei bellimbusti che si mettono di mezzo con la loro vanagloria o la loro prepotenza. L’appuntamento che il fato mi aveva fissato con Maria era per il momento meno atteso, durante l’ennesimo tentativo di superare l’orale di Fisica tecnica.

Era, quello, l’ultimo esame del biennio. Per metà dei ragazzi del mio anno, così come per il 99,9 percento di tutti gli studenti passati e futuri, non chè per i miei contemporanei delle altre sedi universitarie, era anche l’esame “materasso”, ovvero il più semplice oggettivamente e il più facile da passare soggettivamente, limitato com’era spesso a un riassunto di elementi di termodinamica già affrontati in Fisica Generale II se non addirittura di esercizi già svolti ai tempi del liceo. Nel mio caso era diverso. Per coloro il cui cognome iniziava con una lettera successiva alla “L” (all’epoca, dato il gran numero di iscritti, al fine di distribuirli, vi erano spesso due corsi differenti, con due differenti docenti, per la stessa materia) il corso era tenuto da un folle genio che si chiamava come un famoso romanziere francese ma che, scientificamente parlando, aveva la severità, il rigore e le pretese di un ufficiale prussiano. Nella “sua” Fisica Tecnica, gli argomenti “tradizionali” di termodinamica costituivano, ad essere generosi, un misero 10 percento del totale. Il restante 90 si divideva in parti uguali fra:

i) un tipo di termodinamica ben più approfondita e difficile, fatta di funzioni di stato (fra le quali ricordo, ad esempio, l’entalpia, da non confondere con la “banale” entropia) che mai si erano viste a mai più si sarebbero riviste nella carriera accademica di un ingegnere (e a causa delle quali, però, passai un’intera estate a sfogliare apposite tabelle su uno specifico libro necessarie a risolvere gli esercizi richiesti);

ii) una full-immersion nella fluidodinamica, con tanto di sistemi di equazioni differenziali da risolvere in base alle condizioni al contorno, di rotori, divergenze ed altre creazioni matematiche viste nella complicatissima Analisi II ed assai difficili da calcolare, di ultimi risultati della ricerca in corso (fra i quali spiccava la “legge logaritmica del muro”) volta a descrivere analiticamente un moto di fluidi per i quali gli studiosi di aereodinamica adottano, per lo più, simulatori e calcoli numerici al supercomputer;

iii) uno spaccato di fisica nucleare da cui si intravedevano non solo la struttura dell’atomo, e la teoria dei quark, ma anche i motivi e i principi che portano alla realizzazione degli acceleratori di particelle (e questa era, significativamente, la parte meno difficile delle tre!).
Mi erano dunque serviti più di tre mesi per studiare e tre tentativi per superare il primo “troncone” di esame (che per fortuna poteva essere spezzato in due: nel mio caso, i/ii a ottobre e iii a novembre).

Le prime due parti erano le più difficili, perché di solito l’interrogazione partiva con un esercizio inventato al momento e pressoché impossibile da risolvere senza aiuti (addirittura una volta venne chiesto se in una bacinella d’acqua bollente il moto convettivo parte orario o antioriario: e la risposta si era scoperta dipendere dalle condizioni iniziali) e per questo il primo “troncone” di esame bloccava un 90 percento di studenti.

Una volta, addirittura, dovetti prendere l’aereo la domenica prima da Roma (ero reduce da una delle mie prime gare automobilistiche, in quel caso disputata a Vallelunga) per non rischiare di arrivare in ritardo il lunedì mattina all’appello (perderlo, avrebbe significato aspettare poi mesi).
Ricordo il terrore (mio e degli altri) al primo mattino al solo sentire chiamare il nostro nome dalla lista (all’epoca le liste di esame erano lunghe come quelle di proscrizione ai tempi di Mario e Silla) e il buco nello stomaco, a mezzogiorno, quando si era in attesa da ore: a quei tempi, se si era in troppi per essere interrogati tutti in giornata, chi poteva sceglieva di essere rimandato a data successiva (e così io feci quella volta). Ho ancora, in particolare, davanti agli occhi le aule (mi basterebbe uscire dall’ufficio e percorrere un piano di scale e un corridoio per ritrovarle!) in cui si svolgevano quelle torture: erano al secondo piano, piccole, con un tavolino al centro e tante sedie intorno. Il giovane e barbuto professore (assomigliava al personaggio di quel medico interpretato da Verdone il quale, in luna di miele, dice sempre, con inconfondibile voce: “no, non mi disturba affatto”, ma esprimeva molta più severità e cattiveria) metteva quattro “condannati” alla volta attorno al tavolo e, a turno, assegnava loro l’esercizio passando poi a correggere/discutere/stroncare quanto fatto dallo studente successivo.

“Le condizioni iniziali…” iniziai a dire “No, no, lo risolve poi mi fa vedere il risultato” mi disse seccamente mentre passò a quello dopo. “Se l’entalpia cala, in questa trasformazione adiabatica …no, il risultato non può essere questo” - disse allo sventurato che aveva ormai lo sguardo di chi sta per essere segato anche fisicamente. E a quello dopo “Non riesce neanche a ricavarmi l’equazione di Navier-Stokes?” “Ma c’è questo 2/3…” “No, non c’è nessuna frazione”.
NOTA: Da notare, di passaggio, che l’errata corrige in cui quell’equazione veniva correttamente derivata senza le complicazioni date da un banale errore presente nel libro di testo non era affatto stata pubblicizzata a lezione! E, comunque, viste col senno di poi dall’altra parte della barricata (lato docente), si tratta di argomenti tanto complicati e tanto vicini alla ricerca in corso (all’epoca) che era una follia assegnarli agli studenti. Se facessi una cosa del genere nella mia attuale materia mi darei della “carogna” (o dell’incompetente) da solo!

Al secondo tentativo, riuscii a strappare un 27 dopo un inizio difficoltoso. Considerando che i miei compagni di corso, che davano l’esame con l’altro docente, avevano quasi tutti preso 30 al primo colpo, e quasi senza studiare nulla di nuovo, avrei dovuto rifiutare. Vedendo però che tutti i compagni di sventura, che dovevano dare l’esame con lo stesso docente, venivano o bocciati con infamia o promossi stentatamente, dovetti essere contento. Mancava solo l’ultima parte, ma la fisica nucleare, in quanto argomento nuovo, poteva essere studiata con diletto e senza sforzo e, dato il taglio necessariamente, almeno in parte, “più divulgativo” e meno “esasperato” rispetto al resto, risultava anche più facile della “termodinamica estrema”. Fu così che, nel secondo “troncone” d’esame, il mese dopo, feci una splendida figura parlando di ciclotrone, sincrotrone e sincrociclotrone, tanto che il docente, commosso, mi diede addirittura trenta, come, a detta di chi lo conosceva, non gli capitava da anni (purtroppo la media pesata con la parte precedente portò “solo” ad un 28 finale). Al momento di registrare il voto (allora l’operazione era ancora cartacea) mi avvidi che fra gli spettatori c’era stata anche l’incantevole apparizione biondissima e minigonnata. “Abbiamo fatto un doppio minimo”, mi apostrofò ironicamente il geniale e severissimo docente, osservando che, dopo tanti 30 (con o senza lode), il suo voto ne seguiva uno identico (quello di elettrotecnica, che avevo deciso di accettare dopo aver preso 27 nel primo troncone di fisica tecnica e aver capito come, in caso contrario, avrei accumulato troppi ritardi sul programma: stabilii in quel tempo la regola del 10 percento di tolleranza rispetto al 30 pur di restare pienamente al passo con i cicli di esami). “Vero, purtroppo per il mio amore di perfezione, ma vero anche che ora forse sto facendo tombola sotto un altro aspetto” pensai restando in silenzio. Quel commento di un docente tanto severo aveva permesso a tutti (e soprattutto alla ragazza con cui avrei tanto voluto almeno parlare) di rendersi conto della mia media esami e aveva suggellato quasi un “bacio accademico”, dopo un esame orale tanto serrato e combattuto che doveva essere sembrato un dialogo fra pazzi einsteiniani alle orecchie di chi non aveva ancora studiato bene quell’ultima parte. Come se non bastasse, volle salutarmi con un “si faccia sentire fra qualche anno prima di laurearsi, se ci fosse una piccola università…avrei bisogno di gente come lei”.

Nonostante quello fosse uno dei voti più bassi da me conseguiti, sentii la gloria celeste piovere su di me. Forse anche un’aureola comparve sopra il mio capo, dal momento che la petrarchissima madonna bionda (fino a quel momento distaccata dal mondo circostante proprio come un’incantata parvenza) iniziò a fissarmi e, alla sospensione della sessione, mi si avvicinò chiedendomi su quali testi avessi mai studiato. Le spiegai allora, con calma, come dai tre volumi scritti dal docente stesso e dai quattro libricini di esercizi fosse possibile, con un po’ di pazienza, ricavare tutte le risposte richieste all’esame. Ci salutammo cordialmente promettendoci di rivederci a lezione.

Da quella volta, per tutte le (poche) lezioni in cui ella fece la grazia di essere presente, si venne sempre a sedere vicino a me, permettendo alla mia fantasia di rinfrescarsi fra “chiare, fresche e dolci acque” pur nel mezzo di quell’arido monastero di numeri e calcoli che allora era la facoltà di ingegneria. I nostri rapporti erano tanto cordiali quanto formali. Da un lato, io ero troppo timido per principiare un discorso che non dico si dirigesse verso l’amoroso e l’intimo, ma anche solo uscisse dagli argomenti correlati alle lezioni universitarie (già quello sarebbe stato, per la mia mentalità dell’epoca, un pericoloso segnale di cedimento alla seduzione e avrebbe dissolto quell’aurea di olimpico distacco – anche dalle donne – e di imperturbabile serenità del saggio con cui credevo si potessero conquistar dame senza farsi avanti come in modo aperto come corteggiatore, cavalier servente o duellante) e dall’altro ella, per qualche strano motivo, non dava alcun segno di voler uscire da quella “campana di vetro” (fatta di sorrisi di circostanza, gesti misurati e formalità cortese nel fare come nel dire) sotto cui pareva muoversi dalla prima volta in cui era apparsa.

Il suo atteggiamento, pur non avendo in sé alcunché di strano o di inappropriato, era surreale. Era chiaramente la creatura più bella, soave e seduttiva che mai si fosse vista in quei luoghi ad altissima densità ormonale maschile. Anche il più distratto degli osservatori non avrebbe avuto dubbi su ciò. Eppure, pareva quasi non rendersi conto (o non curarsi) di quanto accadeva attorno a lei, proprio come se si trovasse all’interno di una protezione trasparente che la separasse da rumori, odori e azioni circostanti. Aveva quella che si dice “l’innocenza della bellezza” quando camminava fra noi: nessuno poteva dire che facesse apposta a mostrare questa o quella parte del corpo o ad attrarre questo o quello sguardo. Eppure tutti notavano le sue fattezze e tutti la guardavano.

Un mio amico, un cattolico progressista (di quelli che spesso mi accusavano di essere talebano sulle donne), commentò una volta: “si veste da puttana”. “Ma no, è semplicemente elegante, non ha assolutamente nulla della volgarità delle peripatetiche”. “Una che si mette tutte le volte minigonna e stivali per andare a ingegneria è una puttana”. “Ma no, siamo noi che siamo abituati al nostro abbigliamento nerd e al casual delle compagne di corso bruttine. Nel mondo normale, fuori di qua, le belle ragazze di buona famiglia vestono così come lei. Quando una ha delle belle gambe è un peccato le debba sempre coprire”. “No, no, è una puttana”.
Per la cronaca, si tratta dello stesso amico che, qualche tempo dopo, mentre lo accompagnavo a casa in auto e notavo come, in piena torrida estate emiliana, fosse assurdo vedere ragazze indossare pesanti stivali con la zeppa solo per apparire più gnocche di quanto in realtà non fossero (intendevo criticare l’inopportunità estetico/temporale di un abbigliamento piuttosto adatto all’inverno, non già il diritto a mostrare le fattezze femminili), mi apostrofò con un misto di ironia e rimprovero: “sei un po’ talebano, eh…” (ma senti chi parla!)

Io restavo del mio parere circa la misteriosa ragazza del corso. Dava l’idea di quel tipo di bellezza che seduce proprio perché non sa di essere bella. Convinto perciò di non aver a che fare affatto con una “seduttrice professionista” e quindi a mio modo tranquillizzato, provai quindi gradualmente di scoprire qualcosa su di lei.
Il massimo a cui riuscii a giungere con i miei discorsi fu di sapere che era originaria di Aosta e che aveva seguito Analisi I con lo stesso professore di un mio ex-compagno di liceo. Trattandosi di personaggio geniale e folle (all’epoca, essi abbondavano), ebbi grazie a lui l’occasione di iniziare con la mia misteriosa compagnia femminile un discorso più filosofico del solito.

“Quindi, al contrario di Kant, egli non ritiene le idee matematiche essere sintetiche a priori?”
La mia domanda aveva il duplice scopo di sfoggiare le mie doti di conoscenza filosofica (di cui all’epoca andavo fiero giacché – dicevo - mi distinguevano dalla massa di coloro che si iscrivono a facoltà scientifiche più per mediocrità in campo umanistico che non per eccellenza in matematica o fisica, e che, più in generale, usano un’ostentata passione per la scienza come paravento per nascondere, la propria incapacità di apprezzare altre forme di sapere, la propria banalità intellettuale, la propria aridità d’animo) e di mettere alla prova la consistenza culturale della mia controparte femminile.
“No, assolutamente, egli dice che la matematica è stupida, è semplice spiegazione agli stupidi di idee già contenute nella definizione. Quando qualcuno si lamentava di non capire, diceva che non c’era nulla da capire”.
Qualunque altra donna, in un frangente simile, avrebbe risposto chiedendo cosa sono le idee sintetiche a priori o, al massimo, lamentandosi di non ricordarsi più l’esatta differenza fra analitiche e sintetiche, fra idee a priori e idee a posteriori. Alcune fanciulle che avevo conosciuto, a domande di tal fatta mi avevano mandato scherzosamente a quel paese o avevano iniziato a deridermi per il tempo che dovevo aver perso al liceo a studiare anziché ad uscire con le coetanee.
Ella, invece, non si era scomposta. Aveva risposto come se fosse del tutto normale che due studenti di ingegneria (fra l’altro, per una volta, di sesso opposto), nei cinque minuti di pausa di una lezione di “controlli automatici”, discutessero del rapporto fra matematica e filosofia. Aveva risposto, soprattutto, come se padroneggiasse perfettamente la critica della ragion pura e l’opera kantiana tutta, assieme all’epistemologia di un Kuhn o di un Feyerabend.
Mi sentii come un maestro di spada che, dopo aver provato su un avversario sconosciuto da mettere alla prova il colpo da cui di solito gli avversari “normali” vengono spiazzati, se lo veda parato tranquillamente. Da un lato ero un po’ deluso per non aver sortito l’effetto “wow”, ma dall’altro ero intrigato dal mistero di quella giovane donna all’apparenza così “leggera” ed invece, al primo assaggio dialettico, così “consistente”.
Era ella davvero una “docta puella” soltanto per caso bella e soltanto per caso indietro con gli esami ad ingegneria? O era una banale studentessa fuoricorso semplicemente abituata a fingere di sapere?
Non seppi mai la risposta, perché il docente di quel tempo concedeva pause troppo brevi fra un’ora e l’altra di lezione.

Le volte successive, la confidenza fra me e la bionda apparizione minigonnata aumentò, ma non ebbi più occasione di introdurre argomenti troppo culturalmente pesanti. Al contrario, le conversazioni divennero più leggere mano a mano che si fecero più amichevoli, fino al punto in cui, qual fossi un suo amico del cuore (o una sua amica di lunga data) si lamentò, sbuffando, di aver ancora “un sacco di roba da stirare”. Quell’esternazione, così totalmente slegata dai discorsi e dai sogni fino ad allora legati a quell’apparizione, mi parve del tutto fuori contesto: non potevo concepire come una fanciulla così bella ed eterea potesse essere alle prese con problemi di vita spiccia. “Vivo con il mio ragazzo e non è che non sporca…” Fu come se l’apparizione si fosse dissolta. Quella creatura angelicata, la cui immagine pareva volteggiare nall’aria senza che nessuno potesse palparla, non solo viveva nella comune pesantezza di vita degli altri mortali, ma era pure sentimentalmente ed esistenzialmente impegnata. Ciò distrusse istantaneamente ogni mia speranza.

Era già raro che si incontrasse, ad ingegneria, una bella fanciulla. Era già difficile che a lei ci si potesse accostare senza per questo automaticamente apparire dei banali e fastidiosi “dongiovanni da villaggio”. Era già improbabile, quindi, che con lei potesse nascere un dialogo di reciproco disvelamento e che in tali dialoghi si fosse in grado di disvelare (ammessa e non concessa la fortuna di possederle) proprio quelle doti di sentimento o intelletto eventualmente apprezzabili dalla controparte.
E per una volta che le congiunzioni astrali avevano allineato tutti questi fattori, scoprivo che tutto era inutile perché la fanciulla, praticamente, era già come “sposata”!

Quello che era (ed è) raro (anzi: miracoloso esattamente come l’apparizione di una madonna) è che il caso avesse fornito ad un ventitreenne l’occasione di apparire, agli occhi di una fanciulla un poco più grande e molto più bella (o comunque resa tale dalle disparità di numeri e desideri fra i sessi), dotato di una certa eccellenza in un ambito (in quel caso, lo studio per quell’esame “impossibile”) di rilevanza immediatamente apprezzabile (quasi al pari della bellezza di lei) ed intersoggettivamente riconosciuta (quasi come il denaro o la posizione sociale con cui nel mondo reale i più meritevoli o fortunati fra gli uomini possono stare alla pari delle belle donne).

Quando a distanza di quasi vent’anni ancora parlo di “costruire socialmente doti oggettivamente valide ed immediatamente apprezzabili al pari della bellezza”, di “eccellere in quanto rende a priori socialmente apprezzati ed amorosamente disiati come le belle donne lo sono per natura”, o di “dotarsi, prima di approcciarsi alla donna, di ciò di cui ella senta bisogno o brama di intensità pari o superiore a quanto da noi provato innanzi alle sue grazie” ho proprio in mente (oltre ovviamente alle situazioni più “scontate” e diffuse dell’indi-pay attuale e del puttanesimo mascherato di stampo berlusconiano) la condizione (difficile da ottenere, ma impagabile una volta ottenuta) in cui mi sentii vivere nel primo quarto d’ora del primo dialogo fra me e Maria.
Non so, per la verità, se la ragazza avesse davvero il nome della madonna (parrà strano, ma, da vecchio lettore del “Nome della Rosa” e novello Adso, mi dimenticai sempre di chiederle il nome). So però che era bionda e di gentile aspetto come una madonna petrarchesca-stilnovista. Ricordo poi perfettamente di averla vista (senza però ancora poterle parlare) la prima volta a quell’esame scritto del corso di Elettrotecnica tenuto da una professoressa di nome Maria. Tanto basta per ricordarla con questo nome.

Assieme al ricordo dolce-per-sé sottentra anche (Leopardi non mi abbandona mai) un’amara considerazione (ed un dolore). Non sarà mai, in assoluto, vantaggiosa per noi alcuna forma di “scambio” con le donne (la prostituzione ci appare vantaggiosa in termini relativi se comparata al corteggiamento, ma, in assoluto, se ci pensiamo, è comunque uno svantaggioso dar soldi veri in cambio di amore finto). Nel mio caso ho scambiato cinque mesi di studio per cinque minuti di “flirt”. E già mi devo ritenere fortunato ad averli vissuti! Figuriamoci cosa avrei dovuto fare, dare e soffrire per andare oltre (ammesso fosse stato possibile). Potrei chiudere il capitolo con un’imprecazione circa tale bassa e infelice condizione maschile. E aggiungervi lo scoramento personale per l'impossibilità di incontrare ancora, nella realtà, una tale creatura di sogno.
Eppure sono felice quando ricordo. Eppure sono lieto quando ripenso. Eppure il mio sentimento continua, con il senno di poi, a rimembrare quei momenti come il punto più alto della mia vita "terrena". Mai mi sarebbe più capito, in seguito, di sentirmi così in alto, così apprezzato socialmente e potenzialmente desiderato da una donna desiderabile. Almeno non nella vita reale.

Per potermi sentire, per cinque benedetti (anzi, paradisiaci) minuti, sollevato all’altitudine a cui le donne svettano stando semplicemente ferme sul piedistallo della loro bellezza (e degno quindi di parlare con loro senza timore reverenziale), ho dovuto studiare durante tutto il corso, durante tutta l’estate (ricordo, di quell’anno, le caterve di esercizi termodinamici che svolgevo fra la passeggiata mattutina e il pranzo durante l’intero mio soggiorno in montagna) e per tutto l’inizio dell’autunno (con tanto di tensione pre-esame implicante nausea e insonnia). E ho dovuto scomodare l’entropia dell’universo, la struttura dell’atomo ed il destino del cosmo. Dal punto di vista della ragione, tutto ciò appare effettivamente eccessivo, se intrapreso solo per poter parlare con una ragazza!

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QUARTO GRADO: DA MARSILIO FICINO A FRIEDRICH NIETZSCHE (13/18)

Ovvero: "LE DONNE, I CAVALLIER, L’ARME, GLI AMORI, LE CORTESIE, l’AUDACI IMPRESE"

Parte 13 di 18 : “Le donne: la escort americana”

Era buio sebbene fosse già mattino. Come da anni non si sentiva, il telefono meccanico strillò dalla camera dei miei genitori in un silenzio irreale. Pareva quello della scena centrale di “C’era una volta in America” (quando De Niro chiama l’ufficio di polizia nell’intento di salvare la vita all’amico). Mia madre emise un gemito fra la paura e la sorpresa. Io venni gettato dal dormiveglia in un mondo che mi parve tornato indietro di una quindicina d’anni, all’infanzia, al suono di quel pesante telefono di marmo su cui i numeri si componevano girando la corona forata.
Ebbi persino l’impressione di trovarmi con il letto orientato al modo in cui lo era quella della mia cameretta nella casa precedente (nella quale non abitavo più da quasi dieci anni, ma sulla quale si fermavano spesso i sogni). “E’ il telefono?” chiese con voce calma e serena, ma parimenti sorpresa, mio padre testé svegliatosi.

Era una domenica della prima decade di settembre, alla fine di una delle estati più calde che si ricordino nel continente europeo: quella del 2003.
“Sì, rispondi lì perché manca la luce” – dissi con una lucidità che soprese persino me stesso. Era la nostra cara vecchia zia che, dal suo appartamento all’interno del nostro stesso centro storico (in cui si era trasferita da quattro anni), voleva chiederci preoccupata come ci si sarebbe dovuti organizzare senza elettricità. “Ah, ecco” si spiegò mio padre mentre mia madre ripeteva quanto ci riferiva la zia.
Un forte temporale aveva fatto cadere alcuni alberi sull’elettrodotto al confine con la Francia, per cui praticamente tutta la nostra penisola (ahimè dipendente allora come ora anche da cugini da un punto di vista energetico) era in condizioni di black-out.
Io spiegai che, evidentemente, mancando l’alimentazione, i due nuovi telefoni cordless installati nella sala e nella mia camera non potevano funzionare e così quel vecchio telefono, residuato del secolo precedente e fino a quel momento evidentemente bypassato nel collegamento dai suoi successori, aveva potuto una tantum tornare ad avere la sua linea e il suo suono. “Una volta potevano funzionare anche senza alimentazione. L’energia per la trasmissione è già nel doppino che trasmette e tutte le operazioni necessarie alla commutazione avvengono con i meccanismi a cui si dà inizio girando la rotella” – provai ulteriormente a esplicare cercando di convincere prima di tutto me stesso.

Ad un laureando di ingegneria delle telecomunicazioni appariva ormai inverosimile che uno strumento qualsiasi del settore potesse funzionare così “rozzamente”, con contatti meccanici, molle e senza alcun controllo elettronico. Informandomi per la tesi, sentivo ovunque parlare di passaggio dal GSM all’UMTS e invece dovevo vivere in casa mia il ritorno alla linea fissa pre E-Tacs! In pratica, per i miei standard, quasi al telegrafo!
Le mie principali preoccupazioni di quella domenica non riguardavano però le telecomunicazioni in sé, ma la mia vita.
In primis, per la serata era in programma l’attesissimo Gran Premio degli Stati Uniti da Indianapolis, penultima prova del mondiale di F1, la cui classifica vedeva racchiusi in due punti distacco l’allora cinque volte iridato Michael Schumacher su Ferrari, sfidante (ed era tale da due anni, da quando, in Brasile, osò passare il Kaiser con una staccata a ruote fumanti come fino ad allora si erano viste solo in Indycar e si pensavano impossibili nella più compassata e “britannica” massima formula) Juan-Pablo Montoya su Williams-BMW ed il giovanissimo (era, poco più che vent’enne, soltanto al suo terzo anno di massima formula) Kimi Raikkonen su McLaren-Mercedes. Da quando seguivo la formula 1 (e quindi dalla seconda metà degli anni ottanta) non avevo mai vissuto un duello finale a tre per il mondiale: roba da “Il Buono, il Brutto e il Cattivo” in versione a quattro ruote! Ed ora un maledetto albero sopra un dannato elettrodotto con la dannatissima Francia rischiava di impedirmi la visione in diretta del gran premio più atteso ed emozionante da anni!
In secundis, il giorno successivo, lunedì, avrei dovuto svegliarmi all’alba e partire per Milano alla volta dell’Ambasciata Americana, dove avevo appuntamento (all’epoca non tutte le procedure burocratiche potevano effettuarsi per via telematica) per completare la pratica per il rilascio del visto di ingresso negli Usa. Avevo bisogno di quel documento perché il periodo all’estero, per una tesi di maggiore impegno come la mia, superava abbondantemente il lasso di permanenza possibile con il visto turistico. Avevo calcolato tutto proprio per poter partire dopo il GP degli USA (pensando che, come negli anni precedenti, il titolo si sarebbe assegnato prima dell’ultima gara in Giappone). Ed ora non solo rischiavo, colmo dei colmi, di perdere il gran premio da casa, ma pure la possibilità di partire entro le date stabilite: se i treni fossero rimasti fermi in ritardo, mi sarebbe stato impossibile raggiungere la città meneghina con l’Eurostar che avevo fiduciosamente prenotato!
“Come facciamo? Chiamiamo un taxi?” Chiedeva mia madre. “Aspetta almeno che si chiarisca la situazione” replicava mio padre “vuoi che fra oggi e domani non ripartano?” “Ma io voglio vedere il gran premio oggi!” brontolavo infine io stesso.

[PAUSA]

Nel tragitto che percorsi a piedi dalla stazione centrale all’edificio dell’Ambasciata statunitense pensavo continuamente all’impatto così decisivo che il meteo aveva avuto sull’esito della gara vista la sera prima e, probabilmente, del mondiale. Williams e Mclaren, così competitive sull’asciutto grazie alle gomme Michelin più larghe e più “slick” (perché spesso, forse per via di un modo programmato si usurarsi, durante la gara le scanalatura obbligatorie svanivano e il battistrada diventava liscio come quello pre-98), erano improvvisamente divenute impotenti a fronteggiare la Ferrari gommata Bridgestone sotto il diluvio di Indianapolis. Il solo Raikkonen, il meno atteso dei tre, era riuscito, eroicamente, a contenere il distacco da Schumy. Montoya l’arrembante (idolatrato da me) era naufragato nelle retrovie, matematicamente già fuori dalla lotta per il titolo. Mancava una sola gara e Schumacher aveva il distacco di una vittoria su Raikkonen. Per vincere, gli era sufficiente un solo punto (ottavo posto) anche con il finlandese vincitore a Suzuka. Mi dispiaceva solo che il mio idolo della Williams fosse fuori dai giochi. A questo punto, tanto valeva tornare a tifare per la Ferrari (e contro la Mercedes che motorizzava la argentea monoposto del finnico). Non mi dispiaceva neanche troppo il rischio di perdere l’occasione di vedere l’ultima gara (non avevo idea di come oltreoceano fosse organizzata la visione dei gran premi). L’incertezza “una e trina” del giorno precedente si era quasi del tutto dissolta. Pareva impossibile per Schumacher perdere quel mondiale (dopo che a tratti, in quella lunga estate, era apparso quasi impossibile vincerlo!).
Potevo concentrarmi sulla mia missione. Appena girato l’angolo, vidi i poliziotti italiani di guardia, armati ed all’erta. Era il periodo in cui le ambasciate americane erano sotto il tiro dei contestatori per via della guerra in Iraq.

[PAUSA]

Non sono nato anti-americano. Anzi, il patetico anti-comunismo di mia madre (del genere: “c’è lo sciopero? I treni sono in ritardo? Piove? E’ colpa dei comunisti!) mi aveva mostrato sin dall’infanzia gli Yankees come un popolo amico simile ad un buon vecchio zio in grado di intervenire con la forza per salvarmi dai “rossi”. Forse uno zio un po’ troppo lontano, distratto, giocherellone e ingenuo. Ma sempre dalla nostra parte.

Questa visione, in verità, aveva iniziato a scricchiolare sul finire del secolo, quando l’intervento Nato in Kossovo aveva contrariato le mie simpatie filo-serbe figlie del mio attaccamento tardo-risorgimentale alla Prima Guerra Mondiale (dai tempi della “Ode alla nazione serba” di D’Annunzio). Era stato un periodo nel quale avevo iniziato a declinare verso “sinistra” (anche se sempre da una prospettiva decisamente patriottica ed anti-internazionalista) dopo la lettura delle “Confessioni di un Italiano” di Ippolito Nievo e la conseguente ricomprensione del sentimento unitario all’interno dell’epopea napoleonica figlia della rivoluzione francese. Era stato il periodo della riscoperta del valore “nazionale” della giustizia sociale (“del resto”, pensavo, “solo presso i barbari vi sono re nababbi e plebi alla fame, a Roma vi deve essere un minimo dignitoso garantito a tutti”), del bonapartismo come sinonimo di meritocrazia e progresso scientifico (vedevo che nell’atrio della facoltà di fisica, dove mi recavo per le relative lezioni incluse nel programma dell’allora biennio formativo di ingegneria, ancora campeggiavano le lapidi in ricordo di Giacchino Murat, “re d’Italia” e fondatore delle facoltà scientifiche da contrapporre al buio della superstizione religiosa e dell’immobilismo feudale), delle istanze socialiste o comunque socialisteggianti di un certo “fascismo immenso e rosso” (quello delle origini diciannoviste e delle intenzioni proclamate nell’epilogo di Salò, che chiudono come parentesi un ventennio di conformismo, clericalismo e destrismo). Era stato il primo periodo in cui avevo identificato gli Americani non più con il vecchio e giocoso Zio Sam, ma con il grande capitale senza volto che opprime i popoli, distrugge i valori, cancella le identità.

Poi vennero i fatti di Genova e la guerra in Iraq. Allora non sperimentavo ancora sulla mia pelle i danni della globalizzazione, per cui i “no global” mi apparivano (con il senno di poi, a torto) soltanto come i soliti contestatori sessantottardi a cui non andava bene neppure il benessere, come i mai morti “comunisti” che avrebbero voluto limitare le mie libertà economiche ed esistenziali (come, insomma, ai tempi del liceo, quando l’anticapitalismo era una scusa per non studiare e per dare del fascista a chiunque non fosse aprioristicamente concorde con le infinite contestazioni). Soprattutto, mi pensavo ancora come in quel film in cui Nicolas Cage, andando avanti e indietro nel tempo della sua vita, dice, per giustificare la propria scelta di voler essere ad ogni costo (anche a costo di non avere una famiglia) un supermanager: “se vivessi ai tempi dell’Impero Romano vorrei andare a Roma e poiché vivo nel secolo americano, voglio stare dove c’è il suo centro: qui, dove ci sono le sedi delle multinazionali, dove si decidono le cose, dove girano i soldi”.

Il percorso di studi universitari quasi compiuto non mi faceva più vedere come uno studente post-liceale imbevuto di letteratura (e quindi pronto a contestare un sistema basato sulla subordinazione della cultura al profitto), ma come un ingegnere-pronto-all’uso non dimentico della formazione umanista, ma innanzitutto desideroso di iniziare a guadagnare nel mercato globale del lavoro ben retribuito.

E magari non credevo a Powell quando si presentava all’Onu con le finte provette delle presunte armi di distruzioni di massa di Saddam, ma da giovane testa calda e vecchio interventista, tutte le scuse mi parevano buone per partecipare ad una guerra (all’epoca avrei voluto un’Italia schierata anche militarmente al fianco di Bush jr, perché il nemico principale non mi pareva ancora l’oligarchia finanziaria e mondialista Usa, pronta ad “esportare la democrazia” a suon di bombe - e di fanfare mediatiche “crociate” - per interessi bassamente “umani, troppo umani”, ma lo “spirito prudente, pacifista, diplomatico, e neutralista” contro il quale si era sempre scagliato Filippo Tommaso Marinetti).

[NOTA: Vedendo le cose a distanza di quindici anni, dico ora che al tempo non avevo semplicemente la maturità (d’altronde, avevo vissuto solo sui libri, esattamente come l’attuale classe intellettuale filoyankee di oggi, e non ancora nella vita vera) per capire quanto fossero in quel caso profonde, veritiere e profetiche le parole di Papa Wojtyla (“Ho vissuto la seconda guerra mondiale e sono sopravvissuto alla seconda guerra mondiale, per questo ho il dovere di ricordare a tutti i più giovani, a tutti quelli che non hanno avuto questa esperienza, ho il dovere di dire, mai più la guerra [..] Sappiamo tutti che non è possibile dire pace a ogni costo, ma sappiamo tutti quanto è grande, grandissima la nostra responsabilità […] Ecco perché di fronte alle tremende conseguenze che un'operazione militare internazionale avrebbe per le popolazioni dell'Iraq, per l'equilibrio intera regione del Medio Oriente, nonché per gli ulteriori estremismi che ne potrebbero derivare, dico a tutti: c'è ancora tempo per negoziare, c'è ancora tempo per la pace. Non è mai troppo tardi per comprendersi e per continuare a trattare") e quanto divergente fosse il mio sano spirito guerriero di origine greco-romana e di natura etico-spirituale (mirante cioè a costruire interiormente il tipo umano superiore del guerriero attraverso la guerra esteriore) dal banale tentativo piratesco delle varie oligarchie yankee di impadronirsi delle risorse mondiali d’energia (non per costruire qualcosa di spirituale, ma solo e soltanto per protrarre il proprio potere, il potere del tipo umano inferiore, del “mercante”)].

[PAUSA]

La mia atavica ostilità verso i contestatori studenteschi ed i pacifisti in genere mi aveva insomma reso, nuovamente, filoamericano. Orgoglioso e sorridente, quindi, salutai con modi urbani i due militari, miei coetanei, e mi lasciai perquisire. Lo feci con il compiacimento di chi volesse, con ciò, distinguersi dai “no-global” e dagli “anarchici” sempre pronti a lamentarsi delle perquisizioni e a scrivere “ACAB” sui muri delle città. Quasi come se quei due ragazzi in divisa fossero emissari, non del governo italiano, ma di quello statunitense, mi sentii subito accolto dalle braccia dello zio Sam.

All’interno, venni fatto attendere in una sala che avrebbe potuto essere quella d’aspetto di un dottore o di un avvocato. Eravamo in un piano superiore e ricordo perfettamente la luce entrare senza ostacoli dai vetri inondando la stanza di quella sensazione di estate e di leggiadria che è propria dei luoghi aperti. Era una mattina fresca, limpida e luminosissima, sotto un cielo privo di nubi. Pareva quasi una mattina su una bianca spiaggia dei Caraibi.

E questa sensazione aveva un motivo femminile: c’era, nella stanza, una bella morettina che avrebbe potuto essere la classica modella caraibica degna del più lieto finale di un film d’avventura o di spionaggio (quando il protagonista è riuscito a scappare dai cattivi o dalla polizia e si gode il meritato riposo e i meritati quattrini bevendo tequila in dolce compagnia).
Troppo riccia e troppo mora per essere “soltanto” americana, troppo perfetta nella figura statuaria del corpo e nelle linee modellate delle gambe per non essere anche un po’ mulatta, aveva quell’espressione “non lieta, non triste” che D’Annunzio avrebbe associato al novilunio di settembre. Aspettava anch’ella un documento. Era sola e pareva sorridermi. La compostezza dei suoi modi e la semplicità del suo atteggiamento la rendevano distante anni luce da quell’aria di irraggiungibilità (e, implicitamente, anche di ostilità) che una bellezza di quel genere avrebbe irradiato se italiana. Feci dunque quello che non avrei mai altrimenti fatto. Le rivolsi la parola cercando di intavolare una discussione a partire dalla comune noia per l’attesa. Appresi che si trovava nella mia stessa situazione (previsione di soggiorno superiore ai 3 mesi e quindi necessità di visto non turistico). La gentilezza e la felicità che trasparivano dai suoi occhi e dalla sua voce quasi mi fecero sperare di averle fatto cosa gradita. Parlava quasi più di me e mi lanciava occhiate timide eppure suadenti. Sembrava davvero essere interessata a conoscermi e a farsi conoscere. Pareva addirittura esprimere gioia per poter parlare con me e per un’eventuale relazione almeno amichevole. Era colombiana proprio come il mio idolo del momento Juan Pablo Montoya. Purtroppo, era però fidanzata con un militare americano. Capii allora che, al massimo, la sua disposizione nei miei confronti era dovuta, oltre che all’educazione, ad una mia probabile somiglianza all’epoca con il prototipo del giovane “marine” con i capelli biondi rasati, gli occhi azzurri e la faccia sbarbata.

Cercavo di consolarmi pensando: se il genere piace, allora troverò altre fanciulle come lei. Vado pure in California, delle bagnine di Bay Watch e dei telefilm dove gli amori estivi del sole e del mare durano tutto l’anno!

[PAUSA]

Era notte fonda quando atterrai a San Diego. Mia madre mi accompagnava nel primo viaggio per aiutarmi a trovare casa e ad avviarla (senza che dovessi togliere tempo allo studio). Il viaggio senza dormire, con scalo ad Atlanta, era stato interminabile. Eppure, era parso ancora più lungo il tempo perso ai controlli aereoportuali. La psicosi successiva all’11 settembre di due anni prima rendeva usuali domande come “avete preparato voi i bagagli? Sono rimasti sempre sotto il vostro controllo?” alle quali si rispondeva “sì” dopo diversi tentennamenti mentali (quasi come se si venisse alla lontana accusati di importare più o meno involontariamente bombe).
Alloggiammo in un albergo non distante dall’università, che avevo trovato scontatissimo su internet grazie all’affiliazione universitaria. Era un hotel con giardino e piscina, dove si incrociavano continuamente uomini d’affari incravattati e donne manager in grigio scuro con la gonna appena sopra il ginocchio, così come pure giovani vacanzieri di ambo i sessi. Da italiani, mia madre ed io sembravamo eleganti anche vestiti casual.

Il problema dell’housing venne risolto da un’agenzia immobiliare specializzata in affitti per soggiorni di lavoro inferiori all’anno. La responsabile dell’ufficio era una donna sulla quarantina che pareva uscita da “Sex and the City” per la sua compulsiva abitudine a mescolare discorsi seri inerenti soldi e leggi con riferimenti alla moda, ai divertimenti serali e alle avventure sentimentali. La sua aiutante, una trentenne forse meno carina ma sicuramente ancora più “in tiro”, mentre ci accompagnava a visitare gli appartamenti continuava a complimentarsi con mia madre per le scarpe, la borsa ed altri particolari comuni per noi che però ad un occhio statunitense parevano inconfondibilmente “italiani”.
Con un notevole dispendio di denaro ed un’altrettanto fastidiosa perdita di tempo, si trovò dunque l’appartamento per me: in zona residenziale non distante dal campus universitario, era ai piani alti di un palazzo situato fra un ristorante italiano e un supermercato. Ero dunque letteralmente a due passi dalle mie esigenze primarie di sopravvivenza. Le donne dell’agenzia, ormai “amiche” di mia madre, ci trovarono pure la donna (messicana) di servizio per due giorni la settimana (indispensabile se si voleva che, alla mai prima esperienza in solitaria, non “naufragassi” totalmente).

Chissà se fu perché sentivo inconsciamente, in un ambiente così frivolmente effemminato, la mancanza della figura paterna (anzi, diciamo pure di una figura “seria” tout court) rimasta a casa, ma il primo film che vidi dalla televisione di quell’appartamento fu “Era mio Padre”, storia di un ragazzo che ricorda come il padre, un killer della mafia irlandese degli Anni Trenta, abbia fatto di tutto (fino al sacrificio della propria vita) non solo per proteggerlo dalla persecuzione del suo ex-boss, ma anche per non farlo diventare a sua volta un killer. Fu l’ultimo film di Paul Newman (nelle parti dell’anziano boss che cerca di sterminare la famiglia del protagonista, fino a quel momento da lui cresciuto come un figlio, solo per proteggere il figlio naturale - e “scalmanato” – il quale ha deciso di eliminare gli unici testimoni del suo stesso tradimento al padre). Forse, con il senno di poi, fu anche l’ultimo film hollywoodiano in favore della figura paterna, mostrata come più forte di ogni bene e di ogni male. Il protagonista (interpretato da Tom Hanks), nonostante sia un gangster senza scrupoli, ha per la propria famiglia un affetto ed una dedizione degni del buon padre di famiglia di romana memoria. E anche il vecchio boss, nel suo proteggere il figlio (criminale e pure senza principi d’onore “mafioso”) contro tutto e contro tutti, pur sapendo che lo stava derubando e tradendo (e pur a costo di lasciarlo perseguitare e uccidere la famiglia del protagonista cui aveva sempre voluto bene) dimostra di essere, a suo modo, prima di tutto un padre. Vedere quel film proprio nella nazione famosa già da allora per promuovere un ritorno del facto al matriarcato in salsa “progressista” (con il “diritto” delle donne a decidere, con le leggi su aborto, divorzio e violenza sessuale, della vita e della morte del marito e dei figli, a far finire a capriccio in qualunque momento e per qualunque motivo – il cosiddetto divorzio “no fault” - l’esistenza dell’ex in quella di un esule ottocentesco privato di famiglia, casa, roba con il cosiddetto “assegno di mantenimento” o della libertà con le accuse false, a far nascere e a far crescere bambini “senza il maschio” in ogni senso sociale e pure biologico) mi scaldò il cuore.

Affittammo (e pagammo) l’appartamento ammobiliato, ma alcuni mobili, oltre che pesanti e poco funzionali, emanavano un odore terrificante (chissà dove erano stati tenuti fra un trasloco e l’altro). Feci dunque la mia prima visita all’Ikea per sostituirli con qualcosa di funzionale (avevo bisogno di una libreria/scrivania su cui appoggiare il computer portatile e i libri di studio). Era, per fortuna, il giorno in cui negli Usa lo stato rinuncia all’equivalente dell’Iva pur di promuovere gli acquisti di massa. Assieme ad un lato positivo, ne vidi anche uno negativo. Quando seppero che avevo spostato i mobili da rimuovere nel corridoio, dall’agenzia mi avvisarono che si trattava di un atto pericoloso: “se c’è un incendio e qualcuno rimane bloccato da quei mobili, tu vieni perseguito, se qualcuno si fa male prendendoci contro per caso, tu vieni perseguito, ….se un asino casca dal cielo sulla testa di qualcuno, tu vieni perseguito”). Con la cara giustizia italiana, ognuno riderebbe di simili minacce, ma con la solerte macchina giudiziaria mangiasoldi statunitense, le minacce erano credibili. Le narici, però, hanno sempre ragione, per cui scelsi di correre il rischio per qualche giorno.

[PAUSA]

Quando, dopo i primi giorni di “avviamento”, la mamma mi lasciò solo per tornare in Italia, mi sentii, forse per la prima volta nella mia vita, “libero”. Avevo una bella casa tutta per me, nel quartiere più “in” di San Diego, avevo un lavoro (quello di tesi) che, per quanto impegnativo, mi lasciava ampia libertà di orari, mi trovavo nello stato-simbolo del sogno americano e dell’immaginario vacanziero mondiale: la California.

Avevo tutto: l’atmosfera da città centro del mondo data dai grattacieli e dalle mille luci notturne se prima di cena guardavo fuori dalla finestra, così come quella di città-da-vacanza se, nel tardo pomeriggio, prendevo un taxi ed andavo a fare un giro in riva all’oceano, fra foche al sole sulla spiaggia e porta-aerei sullo sfondo.

Non mi pesava neppure dover fare la spesa, dover per lo meno organizzare i lavaggi degli indumenti, dover cucinare. Non mi ero mai sentito tanto realizzato e indipendente. Ero lì per meriti di studio e per prospettive di carriera (così allora pensavo). Rimiravo quella mia situazione come una perfetta opera d’arte nella perfezione del nuovo arredamento che il personaggio di Fight Club avrebbe volentieri mandato a fuoco. Persino il nuovo materasso “King size” era divenuto un simbolo del mio “star bene” nel mondo. Per completare l’opera, avevo pure acquistato uno stereo (immancabilmente con orologio) da comodino da cui ascoltare la lirica mentre cucinavo o sistemavo i vestiti. Nel negozio hi-tech in cui mi ero recato, il giovane responsabile del settore (con cui mi ero intrattenuto parlando sia di tecnologia sia di musica) si era complimentato con me per il mio inglese (pensandoci ora, mi sembra impossibile) e, forse, provava ad intrecciare un legame vagamente omosessuale (ma sempre molto educato), quasi degno di un romanzo di Oscar Wilde.

Avevo, con l’occasione, acquistato anche nuovi CD con la musica di “Madama Butterfly” (ne trasmettevano l’aria “un bel dì vedremo” all’inizio di una trasmissione radiofonica del pomeriggio che avevo imparato a riconoscere dalla radio accese dei negozi) e dell’Elisir d’Amore. L’opera pucciniana era motivata dalla presenza del militare americano Benjamin Franklin Pinkerton mentre quella di Donizetti dall’importanza del denaro (cruciale negli States più che altrove). Avevo la musica. Mancava solo il coronamento all’opera: la “prima donna”.

Sapevo che ivi la prostituzione era illegale, ma pensavo fosse soltanto una copertura ipocrita per un’attività fiorente e tollerata, come in tutto l’occidente civilizzato. La responsabile dell’agenzia mi aveva avvertito che il contratto non prevedeva di ospitare altre persone oltre a me, sia per motivi di assicurazione, sia per motivi di eventuale disturbo ai vicini (“no parties, no girls…”). Era stata però ella stessa ad esclamare, dopo aver visto come ero riuscito a rendere l’appartamento, prima spoglio o mal arredato, una perfetta alcova, con tanto di tappeto e tavolino di vetro davanti al televisore e al divano (nell’angolo opposto rispetto a quello “di studio”), “Oh, ma qui ci manca solo una bella ragazza da invitare!”

Il mio modo di invitare fanciulle, però, era ed è esclusivamente professionale. Appena il ritmo delle cose da fare per imbastire la tesi rallentò (mi era bastata mezza giornata per capire il problema, qualche giorno per arrivare al nocciolo della soluzione, ed un mesetto o due per scrivere i capitoli principali), iniziai a dedicare maggiore tempo nella ricerca di una escort. Quando seppi che il mio advisor, vincitore di un premio ad una conferenza, doveva assentarsi per quasi una settimana, lasciandomi praticamente “incustodito” (avevo sì dei compiti, ma la mia superiore velocità, appunto di computazione mi garantiva almeno 2-3 giorni di margine), mi dissi “è il momento di agire”. Incidentalmente, quella settimana doveva arrivare anche un bonifico di supporto da casa. Avevo infatti avvertito mio padre delle ingenti spese di sopravvivenza nella San Diego altolocata, ma avevo esagerato nell’allarmismo. Frattanto, ero infatti riuscito, con qualche risparmio sulla spesa e sui locali (praticamente, non mangiavo quasi nulla a pranzo e mi rifacevo cucinando alla sera con ingredienti “italiani”) a farmi bastare i denari affidatimi. I nuovi potevano dunque essere totalmente investiti nell’affare-gnocca. Si trattava di oltre un migliaio di dollari, che andai felice a ritirare una meteorologicamente grigia mattina di sabato. Senza perdere tempo, iniziai a contattare i siti specializzati, dove tutte le fanciulle parevano modelle.

[PAUSA]

Purtroppo, alcuni siti fornivano numeri inesistenti, altri raccoglievano messaggi in segreterie telefoniche e non richiamavano, altri ancora parevano evidenti fregature. Arrivai dopo vari tentativi ad un sito all’apparenza serio (lo si capiva dalla mancanza di promesse esplicite, come ovvio per un paese proibizionista, e dalla presenza di rimandi ad “accordi privati non generalizzabili” miranti evidentemente ad eludere qualsiasi accusa di pubblicità alla prostituzione).
Mi sentivo eccitato ed ingenuo come quel liceale del film visto anni ed anni prima, che cerca l’avventura sul catalogo delle escort ma trova la fregatura con la tipa la quale, temendo di non essere pagata, si prende da sola il controvalore in mobilio mentre lui è ritirare i soldi in banca. Per questo ero andato per tempo in banca ed avevo raccolto il necessario in una busta messa in cassaforte.

Ammetto però che, proprio nel tragitto dalla banca alla casa, avevo per un attimo provato comica pietà di me stesso costretto dal bisogno dei sensi a sacrificare il budget di un mese di sopravvivenza per una sola notte d’amore terreno. Sentivo zie e amiche materne dirmi “poverino…”
Povero, ma poeta! Come nella “Boheme”. Ecco perché, davanti alle foto delle potenziali candidate, avevo iniziato a scrivere sonetti tentando pure di tradurli in Inglese.
La prima bellezza da cui fui colpito fu una bellezza bionda, in bikini, che si raffigurava al sole di una classica spiaggia californiana, la quale, ai miei occhi sognanti, si trasfigurava ovviamente nel greco mar “da cui vergine nacque Venere”:

“You are so beautiful in your golden hair
As a magnificent angel, oh Sapphire,
Perfect, in the statue’s figure
Of your body and in the modelled line

Of your limb, as a dreamed form,
High as the appearances of the air,
So that from them the look of each admirer
does not diverge watching your blessed face,

And you are so beautiful as the Goddess who was born,
In her bare body, from the Greek Sea’s waves;
You seem her divine image,

Pure and gleaming as on an altar:
You shine as her first evening star
Rising over the water expanses.”

Si chiamava proprio come la personificazione di quel vento (Zefiro) che, secondo il Petrarca, “il bel tempo rimena”. Chiamai dunque il sito, ma trovai la segreteria telefonica. Già sul web si avvertiva di lasciare il proprio numero in chiaro e di aspettarsi di essere richiamati per rispondere a “few delicate questions”.

Attesi quindi fiducioso, ma frattanto era venuta l’ora di cenare. Proprio mentre ero alle prese con la delicata fase di valutazione del grado di cottura degli spaghetti, suonò il telefono. “Hello! Bla bla bla”. Era una pubblicità registrata che nulla aveva a che fare con l’escorting.
Decisi, dopo cena, di ritentare. Frattanto composi un altro sonetto (molto simile al precedente) sempre davanti a quel corpo scolpito di dea, che sotto “spiagge luminose della luce” degne del poema di Lucrezio, pareva più dorato della famosa ragazza di James Bond:

“You are beautiful in your blond hair
As the beach kissed by the sun,
Smooth, in your delicate and golden skin,
O Sapphire, as the shore, which is soft

For the caresses of the wave,
Tall, as the more desired star,
And perfect, in your slender sculpt body,
As the Goddess who was born from

The white foam of the Greek sacred Sea;
In the length of your divine figure
And in the two rounded forms of the breast

You are as the Venus’ shining planet,
And in your perfect waist line
The thrill lies of the dream I like.”

Quanto avrei voluto baciare quella pelle che al mio gusto immaginario sapeva di “pesca intatta” come avrebbe detto D’Annunzio! Mille e passa dollari mi parevano anche pochi per poter percorrere con le labbra le lunghezze infinite di quelle gambe da modella e scorrere fra le dita l’oro fluente di quei capelli da copertina. E difatti lo erano. Mandai una mail per spiegare tutto e chiedere di essere contattato, ma non ebbi risposta alcuna.

"*Hello, marvellous Sapphire. My name is F.

I am an Italian visiting Scholar and I stay in La Jolla to do the researcher for ….
In spite of being and engineer, I don't live only in a platonic world of calculations and numbers, but I love Poetry, Literature, History (expecially Renaissance), Philosphy and Opera. I'm a lover of the Beauty, in all its forms and expressions, above all in female figure, which in all centuries, from Ancient Greeks till Keats, has inspired the True Art and the most sublime Poetry.
Since I come from Dante's Country, I would like to meet even in California my Beatrix (she who donates bliss) who conduces me along Heaven's ways.

*Sorry if my English is not perfect, but this is the first time I stay in United States.
I know your service is a high level service (and for this reason it satisfies my refined aesthetic taste), but if you reply me what exactly are your rates, it will be easy for me to provide the "financial funds" for your compensation. Please contact me for an appointment within this week."

My full name is ……, 3550 Lebon Drive #6413, La Jolla (CA) (XXX)YYY ZZZZ e-mail …..
It's better for me if you reply by e-mail, because, since I don't understand spoken English perfectly, by telephone could happen unpleasant misunderstandings.
If reply me, I will be able to give you also a literary gift.

*Even if the translation from Italian to English destroyes rhimes, sounds and often changes words' meaning and feelings, I would like to dedicate you a Sonnet. It will be the right tribute in adoration of your Beauty.
For now, I am sorry for the disturb, I hold out homages to your Beauty and I'm waiting your reply."

Greetings"

[PAUSA]

Sapphire non esisteva ed evidentemente il sito era un fake che utilizzava immagini di altre modelle per rubare dati dalla carta di credito di utenti ingenui.
Fortunatamente, anche aiutato dai vari “gnoccatravels” dell’epoca (la rete è sempre servita soprattutto a quello, per me), individuai un sito affidabile. Faceva riferimento alle parole “escort”, “San Diego” e “deluxe”: un trinomio perfetto per i miei gusti raffinati e rampanti. Chiamando, rispondeva sempre una delle ragazze, che faceva l’elenco delle colleghe disponibili per la sera.

Quella che avrei voluto da me era la prima della lista, una certa Jen, altissima, mora ed assai aggressiva sia nello sguardo sia nel vestimento (nero, forse in lattice, e vagamente allusivo a pratiche fetish). Era così come una rosa che sbocciasse nella sua bellezza intatta proprio perché irraggiungibile e comunque difesa dalle spine:

"To Jen

You are beautiful in your dark hair,
You appear as a fleeing dream,
As a sweet laugh of Nature,
As the reflection, over shining

Silver waves, of the heavenly
Creature who we call Moon,
Trembling in the water for the breath
Spreaded by the purest breeze,

When it’s warm and silent, in the spell
Of an Heaven night. I admire you
As an untouchable thing, from whose

Highness I’m waiting a smile;
You are for me as the earthly face
Of the Creature which we call Rose”

Aveva la soavità e la purità di un plenilunio ma anche il mistero pericoloso del buio e la severità di un ambiente freddo, aspro, selvaggio e spietato. Purtroppo, alla mia chiamata, risultà “unavailable”: irraggiungibile non solo per altezza!

Dovetti quindi ripiegare su una terza scelta che aveva il proprio programma nel nome: Caprice. “Caprice is available” mi dissero. Era la seconda più alta (stando ai dati del sito) dopo Jen ed era castana (come, del resto, lo era stata Venere prima di immergersi nello Scamandro). Ecco che quindi anch’ella divenne bersaglio della mia poetica foscoliana in una prima coppia di sonetti:

I.
Tall, kind and with brown hair,
You appear divine at my adoring look,
As if you were the bare Venus, wrapped
By the trembling waves of the Sacred Sea:

For your heavenly sky blue eyes
For your elegant body’s length,
Covered of more than human graces,
You rise the look at the holiest beauties

Of the sky full of blessed stars,
There my soul recognize you
In the planet sacred to Aphrodite

And all my thoughts are captured by you
You are beautiful as the most beautiful Goddess
But you are earthly and your name is Caprice.

[QUI IN NOTA l’originale italiano in metrica ABAB ABAB CDC DCD

Alta, gentile e di chiome castane
Divina appari al mio sguardo adorante
Qual tu fossi, tra le dive pagane,
Venere avvolta dal mare tremante

Sull’onde azzurre dell’acque lontane;
Per la lunghezza del corpo elegante
Ricoperto di grazie più che umane
Elevi gl’occhi alle beltà più sante

Di cui il cielo stellato si bea,
Là suso l’alma mia ti ravvisa
Nel pianeta sacrato a Citerea

Ed ogni sua visione è da te prisa:
Bella tu sei come la greca dea
E sei terrestre ed hai nome Caprisa]

II.
“Beautiful you are for the modelled form
Of your body and for the pretty aspect,
Pure as the moon reflected there
On the waters in the deep night;

Perfect, in the heavenly line
Of your breast, as the warm shore,
In the morning in the untouched
Sand, smooth for the wave’s caresses;

Tall, as every more than human grace
Which makes the air trembling of light;
In the lengths of your goddess body,

Till the curls of your brown hair,
The myth in your slender limbs
Relives of Venus sourcing from the sea.”

[QUI IN NOTA l’originale italiano in metrica ABAB ABAB CDE CDE

Bella sei per la forma modellata
Del corpo tuo e per l’aria gioconda,
Pura come la luna rispecchiata
là sull’acque nella notte profonda;

Perfetta, ne la linea angelicata
Dei seni, come la tepida sponda,
Al mattino ne la sabbia inviolata
Che è liscia per le carezze dell’onda;

Alta come ogni grazia più ch’umana
Che l’aere fa tremar di chiaritate;
Nelle lunghezze del corpo di dea

Fino ai ricci della chioma castana
Il mito nelle Tue membra slanciate
Rivive di Venere Citerea

]

[PAUSA]

Gli occhi erano blu oltremare come quelli di Saphire, ma almeno lei esisteva. Suonò al campanello all’ora convenuta ed io scesi ad aprire (il palazzo era grande e non mi fidavo a lasciarla vagare fra i corridoi in cerca di me). Appena la vidi capii di avere di fronte più una ragazzina che una dea. Aveva più o meno la mia età, mentre nel mio immaginario di allora la escort per eccellenza era una donna più matura (magari sulla trentina, come Elena Muti nel “Piacere”) nella quale la bellezza pienamente sbocciata diveniva anche simbolo di intelligenti esperienze di vita (e di cultura) a cui attingere, oltre che di innumerevoli ed indicibili esperienze di letto da cui imparare.

Già al citofono, aveva detto semplicemente “Am I”, come la più impacciata delle bambine sotto casa del compagno di classe. “Io, chi?” avevo pensato ricordando come, in quei casi, la maestra ci irrideva quando davamo risposte prive di contenuto informativo. Mi venne però quasi immediatamente naturale risentire in quella risposta anche la diciottenne sotto casa del primo fidanzatino da salutare con l’usata, abitudinaria, confidenza. E ciò contribuì a non far cadere del tutto l’eccitazione pre-amorosa. Era vestita come una caramella: una giacca di panno (non troppo pesante, ma adatta al tiepido inverno californiano) la avvolgeva, stretta alla vita da una cintura, mentre sotto di esse sbucavano le nude gambe, essendo probabilmente la sua gonna più corta del soprabito. Pareva che, slacciandole la cintura, fosse possibile denudarla istantaneamente come un confetto.

Nei primi convenevoli, non mi era parsa particolarmente intelligente né brillante. Aveva il viso ancora leggermente segnato dall’acne giovanile, così come da quell’espressione pensosa, tormentata e silente degli adolescenti (quando sono appunto ancora troppo giovani per prendere le piccole-grandi cose della vita con la dovuta “ironia ariostesca”).
Terminati i soliti dialoghi del “cosa fai? Da dove vieni? Ti trovi bene negli States? Eccetera”, volli farla entrare nel vivo chiedendo, con il dito semialzato quasi in gesto di domanda che interrompe: “…and for your compensation? Before or after?”. “Befoooore” mi disse con tono dolce ma deciso prolungando la “o” quasi a dare foneticamente un senso di ovvietà. Aprii dunque la cassaforte ed estrassi la busta. Prima di consegnargliela, le fece un’ultima domanda che avrebbe voluto e dovuto essere decisiva: “are you full service?”. Era la domanda con la quale i puttanieri yankee dell’epoca si raccomandavano di sincerarsi sull’effettiva disponibilità del servizio sessuale in cambio di denaro in un paese dove legalmente ciò è vietato e dove quindi fioriscono truffe più o meno apertamente fondate sull’ambiguità.

“You will have good time…” fu la sua risposta, accompagnata da un ammiccamento e da un accavallamento di gambe. Con il senno di poi avrei dovuto ritrarre la busta e richiuderla nella cassaforte congedando la fanciulla troppo vaga. Ma all’epoca la vaghezza era per me sinonimo di poesia e mi accontentai di quell’assicurazione verbale così debole e persistentemente ambigua.
“Sei il primo che parla di compenso, di solito gli altri chiedono solo: how much do you want?”. “Che bruti questi americani” pensai “è forse il modo di rivolgersi ad una fanciulla?” Supposi essere una volgarità nascente dall’ignoranza delle buone maniere ed invece di lì a poco avrei appreso trattarsi di brutalità forse non giustificabile ma certamente comprensibile e dovuta alla “saturazione della pazienza” per truffe e ipocrisie politicamente (o legalmente) corrette.
Tranquillizzata per l’aver potuto infilare la sospirata busta nella propria borsetta, Caprice si rilassò visibilmente, come se avesse appena smesso di recitare una parte (quando, semmai, in quanto escort, la sua recita avrebbe dovuto cominciare proprio a partire da quel momento). Si abbandonò sul divano di fronte al tappeto con il tavolino ed iniziò a raccontarsi sorseggiando il drink che le avevo offerto.

Era di origine svedese: i suoi genitori si erano trasferiti negli Stati Uniti nel dopoguerra. “Come mai?” chiesi “Così” rispose alzando le spalle “dopo la guerra l’Europa era povera e così i miei nonni, sia i genitori di mia madre sia quelli di mio padre, hanno pensato ci fosse più futuro per i loro figli negli Stati Uniti. Poi a vent’anni si sono incontrati qui e si sono sposati”.
Mentre era sprofondata nei ricordi, le suonò il telefono che aveva lasciato nell’altra stanza dentro la borsetta. Corse furiosa come se si trattasse di un incendio. “All OK” disse e chiuse subito. “Era il mio amico che si era preoccupato”. Capii subito che, come tutte le escort americane di cui avevo sentito parlare alla tv, aveva qualcosa di simile ad un boyfriend o ad un autista con l’incarico di chiamarla entro un certo numero di minuti dopo l’orario fissato per l’incontro, per assicurarsi almeno della sua incolumità fisica. In un paese in cui il commercio sessuale è illegale, una ragazza sola potrebbe essere facilmente preda di un serial killer, di un violento, o semplicemente di un cliente che preferisca di colpo la violenza al pagamento.

Per farla dimenticare di qualcosa di così importante, l’inizio del nostro incontro doveva avere quindi avuto su di lei la stessa funzione del fumo di oppiacei per il personaggio interpretato da De Niro nella scena iniziale e finale di “C’era una volta in America”.
Vedendola richiamata così ai doveri della sua professione, approfittai per condurla in camera da letto. Chiese se non avessi per caso la possibilità di diffondere musica con la quale accompagnare il suo spogliarello. Ovviamente, l’unica musica a disposizione in casa mia, allora come ora, era ed è la lirica. Non ebbi dunque altra scelta (Puccini mi perdonerà) che inserire nel lettore CD la Tosca, accompagnando ciò con una veloce quanto doverosa spiegazione della trama e del contesto storico.

Per costruire il ponte con il suo mestiere di escort e quindi a suo modo di attrice, dissi innanzitutto che già la protagonista, una cantante, era per l’epoca in cui è ambientata, la vicenda, uno scandalo: ancora all’inizio dell’ottocento non era del tutto socialmente accettabile, per una donna, cantare o recitare su un palcoscenico. Del resto, in precedenza, era successo pure che agli attori in genere venisse negato il diritto alla sepoltura nei cimiteri: interpretando per mestiere tante anime diverse, si supponeva addirittura non ne possedessero una propria e dovessero essere quindi messi in fosse comuni, lontano dai defunti “per bene”.
Forse, al di là del pregiudizio paolino sul “sacrilegio” del “fare mercato” con il corpo “vaso dello spirito santo” e dell’ideologia femminista vittimizzatrice (“nessuna donna che si vende è mai totalmente libera”: come se chi vende prestazioni diverse da quelle sessuali avesse invece libertà assoluta e potere contrattuale infinito…) e mistificatrice (“una prostituta vende se stessa”, come se chi vende qualcosa di non sessuale non mettesse comunque a frutto una parte di sé non meno preziosa e personale: il fisico, l’intelletto ecc.), una parte della stigma sociale contro le escort autodeterminate deriva ancora dalla stigma contro gli attori. La escort, in quanto tali, devono il loro guadagno proprio alla capacità di recitare il sogno estetico completo dell’anima contemporanea, all’abilità di farsi vedere, dagli occhi del desiderio, come personificazioni della bellezza inarrivabile, del fascino misterioso, dell’esperienza indicibile, della cultura viva, alla magia di essere percepite, da ogni diverso cliente, come la donna che, nel dialogo come nell’amplesso gli “corrisponda” individualmente. A parità di bellezza e prestazioni offerte, il segreto è tutto lì, come quello delle grandi attrici.

Attrice molto scarsa era invece Caprice, la quale, non sapendo dire altro che “yes, I understand” al mio commento alla Tosca (chissà cosa avrà capito della trama dell’opera e della campagna d’Italia di Napoleone…), inizio a denudarsi ballando senza immedesimarsi né nella Tosca né nella protagonista di “Showgirl”.
Quando le note di “Vissi d’arte, vissi d’amore” terminarono, ella si trovava di fronte a me con soltanto un tanga indosso e le poppe a poche centimetri dal mio viso. Attesi, prima di toccarla, che foss’ella a prendere l’iniziativa per l’accoppiamento (ero alle prime armi). Vedendola ferma, mi insospettii e chiesi “in che posizione lo facciamo?” “Facciamo cosa, sex?” – la sua bocca e il suo tono si deformarono a quella "x" come schifati per la richiesta - “Obviously”. “I don’t have sex with people that I meet for the first time.” “What?” “If you are kind and gentle, maybe one of the next times” - “Ma scusa, questo avviene quando si cerca una fidanzata, non quando si paga” pensai! “Allora c’è la storia della fanciulla con la reputazione da conservare che non si deve concedere la prima volta” “But I have paid!” protestai quindi. “You have paid for the companionship”. Disse con la burocratica tranquillità di un sito di annunci escortistici che voglia mettersi al riparo da possibili accuse di favorire la prostituzione. “Questo è quello che si dice all’esterno per schivare la legge, ma in tutti i paesi civili si sa che si paga anche per la prestazione sessuale. Sono stato in tutta Europa, in Francia, in Austria ed ovunque è così!” “But these are United States” mi replicò con tono definitivo “Fuck United States!” mi dissi da quella volta e per sempre.

[PAUSA]

“What can you do?” le chiesi allora per avere un menu dei servizi consentiti. “Posso fare lo spogliarello come ho fatto, posso farti un massaggio e se vuoi posso farti una sega. Mi hai pagata per 3 ore, devi scegliere tu”. “vabbè, allora fammi una sega”.Inizò quindi a massaggiarmi il membro con una tale lentezza che sarebbe stato impossibile giungere al piacere entro la fine del mondo. “Ma così non riesco a godere, cerca di essere più incisiva”. “Ah, non so come fare, perché io… non ce l’ho” “E con quello che ti ho pagata ci mancherebbe pure che avessi l’uccello!” pensai in risposta. “Ti ho dato 1000 dollari per scoprire che non sei una escort nel senso completo (europeo) del termine. Se scoprissi che non sei manco una donna l’uccello te lo taglierei!”
Dovetti quindi fare da solo anche in quel frangente.

Una volta svuotata la mente (e non solo) dall’angustia del disio, tornai a prestare ascolto ad un altro tipo di fame. Si era fatta ormai sera ed era quindi tempo di andare a cena. Invitai quindi la mia “dolce” accompagnatrice nel ristorante italiano sotto casa. Si rivestì con allegria e velocemente si agghindò con la cintura e i sandali.
Il nostro rapporto era pervertito anche da quel punto di vista. Anziché conoscerci a cena e poi passare nella camera da letto spogliandoci come i personaggi maschili e femminili dei tanti filmetti americani, stavamo facendo l’esatto contrario. Ci eravamo conosciuti nudi sul letto e ci stavamo rivestendo per andare a cena fuori.

Durante il pasto (a base principalmente di spaghetti scotti in salsa rossa di presunto pomodoro, come capita sistematicamente ai non-italiani) Caprice era tornata affabile e disposta a raccontare sinceramente di sé. Mi chiedeva anche informazioni su come funzionava l’escorting in Europa. Su tale tema, ci facevamo vicendevolmente segno di abbassare la voca ogni volta che il cameriere si avvicinava, quasi come potesse essere un informatore della polizia.
Mangiava con grande voracità, come se non lo facesse da tempo, come se il mantenersi magra fosse stato uno sforzo estenuante fino a quel tempo. Quando avemmo finito era già completamente notte e restava ormai soltanto una manciata di minuti allo scadere del tempo pagato. Non le feci quindi nemmeno risalire le scale e l’accompagnai al taxi salutandola.
L’estrema solitudine esistenziale della società nordamericana favorisce il consolidarsi di un senso di umanità anche nei confronti di persone estranee o conosciute da poco e con le quali, in Europa e soprattutto in Italia, magari saremmo portati a litigare. Una plastica evidenza di questo fatto mi fu ribadita dal biglietto di invito che trovai nella buchetta della posta: era il comitato del condominio che invitava tutti coloro i quali non avessero con chi passare il Natale a ritrovarsi parlando del senso delle religioni e dell’uomo.

[PAUSA]

Mancavano pochi giorni a Natale e, come stabilito, evitai di ritornare a casa come gli altri italiani: dato il mio soggiorno di neanche mezzo anno mi pareva inutile spendere soldi, tempo e fatica solo per tornare a casa qualche giorno). Ammetto però che, verso il 21-22 di dicembre, quando il mio advisor mi salutò dicendo che l’indomani aveva il volo per l’Italia, ebbi per qualche ora gli occhi lucidi. Percorrevo in discesa il viale che mi riportava verso casa e immaginavo lui in procinto di rivedere la patria. “Rivedrai le foreste imbalsamate, le fresche valli, i nostri templi d’or”. Le arie dell’Aida sulla nostalgia per la terra natale mi risuonavano dapprima scherzose (giacché l’Italia non è l’Etiopia di Aida e di Amonasro e non ha né le sorgenti del Nilo né la foresta equatoriale), ma poi via via più commoventi a mano a mano che il significato letterale si trasmutava in quello sentimentale (la lontananza).

Mia madre aveva organizzato un surrogato della festa in famiglia grazia alla sua cugina di Seattle. Era la moglie del dentista Julius, quello sulle cui ginocchia avevo per la prima volta preso il volante di un’auto quando ci erano venuti a trovare ai tempi delle elementari! Ora si erano separati senza rancore (ma anche senza rimpianti: e pareva incredibile per una coppia durata più di trent’anni e passata dai sacrifici iniziali – con lei che faceva la donna di servizio o la segretaria per pagare a lui gli studi – al successo economico e sociale con tanto di ville e figlie laureate) dopo che, da pensionato, lui aveva voluto a tutti i costi tornare in Europa e, piuttosto che perdere la possibilità di vivere serenamente gli ultimi anni fuori dagli Usa, si era adattato a sposare la vedova di un collega svizzero. Julitta, così si chiamava ella, era in tal modo rimasta sola, con la casa troppo grande, la Mercedes nuova di fabbrica che guidava quasi con imbarazzo, e metà del ricco patrimonio comune (del resto, Julius non poteva piangere miseria, essendosi risposato con una donna ancora più ricca di quanto non fosse lui). A Natale, il tradizionale ritrovo in famiglia proseguiva a casa della figlia maggiore (sposata con due figli) e assieme all’altra figlia single (l’altra che da piccolo mi batteva sempre poco cavallerescamente a ping-pong quando ci vedevamo nella residenza estiva del nonno in Polonia). Quella volta ero quindi invitato anch’io. Presi, da solo (per me era la prima volta che salivo in aereo da solo) l’aereo per Seattle, con una felpa sotto braccio da indossare al volo per mitigare lo sbalzo termico fra il sole della California e il gelo dello stato di Washington al confine col Canada. La ragazza che mi era seduta di fianco in aereo mi chiese se ero dell’università del… “No, sono italiano e mi trovo negli Usa per la tesi presso l’università della California” - “no, perché quello è lo stemma dell’università del… e se lo porti in giro la gente pensa che sei dei loro…e non scorre buon sangue con altre università”. Insomma, scoprii all’improvviso che le patacche americane che con indifferenza portiamo sulle felpe hanno a casa loro un significato simile alle maglie delle squadre di calcio!

Arrivato comunque sano e salvo, trovai Julitta a prendermi all’aereoporto e a condurmi prima a casa sua, poi presso quella della figlia. Devono essere ben lunghe e complicate le percorrenze automobilistiche nello stato di Washington, dato che per un paio di volte ci smarrimmo su contorte strade di montagna (quelle fitte foreste di alto fusto a quelle latitudini appagavano la mia fantasia e il mio senso di avventura) e solo il gentile intervento di un’auto con la scritta “to protect and serve” (quando l’auto della polizia ci affiancò con la sirena lampeggiante e rumoreggiante, ebbi per un attimo paura stessimo per essere multati e arrestati, tanto era stata forte, per via della tv, la demonizzazione delle forze dell’ordine statunitensi) ci poté riportare alla retta via. Julitta ringraziò, tranquilla e (al contrario di me) per nulla sorpresa, il ragazzo in divisa (forse lì la cavalleria è di casa) e ripartì. Nel tragitto, ci fermammo poi a comperare il regalo senza cui a Natale non si può entrare in alcuna casa onorata. Ella diceva che sarebbe bastato un “Pinot grigio” (non volendo infierire sulle mie finanze di studente), mentre io insistetti per portare anche una bottiglia di Champagne (temendo di non fare altrimenti una figura da gentiluomo).
Una villa davvero enorme (e simile a quella in cui giocavo da bambino con la mia amica cretese) era la dimora della famiglia di Jackie. Due piccoli vichinghi già forti e combattivi la animavano. E il marito, un grande vichingo di origine norvegese che lavorava come ingegnere alla Boeing, fu molto gentile con me.

“Scusa, ma serviranno almeno tre donne di servizio per una casa così!” sussurrai a Julitta “no, fa tutto Jackie” mi rispose sorpresa. Ed io pensai: “meglio che stia zitto, io che ho bisogno della donna delle pulizie tuttofare messicana per sopravvivere in un bilocale, e già mi sento impegnato al limite!”

“My background is Norway” mi spiegò il padrone di casa, sintetizzando involontariamente in due parole il procedimento sincretico con cui l’identità americana si costituisce nutrendosi di tutti quei piccoli e grandi patrimoni cultuali, etnici, linguistici e persino etici che si possono immaginare compresi nella parola “retroterra” (la quale, per contrasto, rende quindi, quasi nietzscheanamente, mi si consenta il termine “terra davanti”, ovvero “terra dei figli”, il nuovo continente).
Frattanto, i due bambini giocavano lottando gagliardamente per il possesso dei nuovi giochi, mentre gli adulti discutevano di politica, con Julitta scatenata nel sostenere le tesi del partito repubblicano e la figura, all’epoca odiatissima dai media, di Bush Jr. Molto prima di Trump, la tesi del “muro anti-immigrati” doveva avere forti sostenitori nell’America “profonda” già da allora: appena saputo che venivo da San Diego, il “vichingo” esclamò “benvenuto negli States”, con ciò intendendo la città californiana essere ancora “Messico”. “Io costruirei un muro di separazione con quella gente!” E intanto, dopo l’ennesimo rotolarsi a terra dei due pargoli-combattenti, la mamma li aveva invitati a recarsi nella “stanza dei giochi” a proseguire il loro scontro fratricida senza disturbare il resto della famiglia. “E’ come se fosse già così” risposi io “sull’autostrada la polizia ha istituito tanti di quei posti di blocco che è come passare la dogana”. “Sì, hanno molti problemi con l’immigrazione da quelle parti”.

Per introdurre argomenti più leggeri, qualcuno chiese a Julitta se l’altra figlia si fosse fidanzata. “Possibility of a boyfriend” risposte facendo con le dite il noto segno delle virgolette o dell’asterisco per evidenziare la “possibilità lampeggiante”. Seguirono elogi a questo potenziale fidanzato, di umili origini ma di profonda intelligenza, tanto ricco di qualità sentimentali da aver preferito lavorare come insegnante di sostegno per bambini in difficoltà piuttosto che seguire il “cursus honorum” degli uomini in carriera. E nonostante questa rinuncia alla promozione sociale e alla glorificazione economica aveva (cosa che mi parve mirabolante, se comparata alla situazione italiana) aveva attirato l’attenzione (e, a quanto capivo, anche conquistato il cuore) di una giovane, bella e ricca donna in carriera come era la figlia single di Julitta. “But he is very, very clever” continuava a ripetere la cugina di mia madre per concludere le sue risposte altrimenti “deludenti” alle domande tipicamente “americane” sulle persone (del genere “che macchina ha”, “quanto guadagna”, “dove lavora” ecc.).

Quella cena così lontana da casa ebbe però il potere di farmi sentire esistenzialmente apprezzato. In prospettiva, avevo un roseo orizzonte con un ben remunerato mestiere di ingegnere sullo sfondo, di cui la figura del padrone di casa rappresentava il teorema di esistenza, con il relativo corollario di bella casa, bella moglie, bella macchina e bei bambini. Nel presente, sentivo che, comunque mi sarebbe andata la vita lavorativa, esisteva un paese in cui un giovane maschio poteva, solo e soltanto per le sue doti personali (non già per la posizione sociale, per il potere, per la fama, per i denari conquistati), solo e soltanto per quello che è (non già per quello che rappresenta), proprio come capita ad una donna per la sua bellezza, essere apprezzato dall’altro sesso al punto da divenire argomento di conversazione alla vigilia di Natale. Fu un bel modo di dirci “Merry Christmas” (non lo sapevo, ma sarebbe stato l’ultimo Natale felice, l’ultimo natale con quelle illusioni).

Il giorno successivo conobbi il nuovo compagno di Julitta, un piccolo e burbero irlandese che non amava i giri di parole. “Cosa fai dopo la laurea?” “Non, so, dipende” risposi io che ancora non avevo scelto se restare all’università a fare ricerca o cercare fortuna in azienda “Depends on what?” mi rispose come se volesse sapere la verità da un politico ciarlatano. “Dipende dalle occasioni che troverò all’università e nelle aziende…” cercai di glissare, sorpreso dal fatto che, per una volta, il verbo “dipende” non fosse sufficiente a fermare una domanda scomoda. Mentre attraversavamo in auto la città, vedevo ragazzi di colore con la testa nella felpa come nei film sui rappers bighellonare ascoltando musica o radunandosi in bande metropolitane. Era un freddo pazzesco e dai finestrini dell’auto potevo vedere non solo le chiazze di neve sui marciapiedi, ma anche il vapore acqueo che si formava quando quelle persone gridavano o cantavano. Qualcuno aveva la cuffia ed altri battevano le mani inguantate: tutti parevano a disagio in quel clima (forse non solo meteorologico). Contemporaneamente, dalla vista e dall’udito, facevano capolino tutti i luoghi comuni sull’America multietnica: il carattere rude degli irlandesi e la segregazione metropolitana (con elementi di potenziale guerriglia urbana) dei neri.

Eravamo a pranzo da altri amici di Julitta. Essi dovevano tradizionalmente situarsi su un versante politico più “democratico”, data la fatica che la cugina di mia madre faceva per trattenersi da dire tutto quanto pensava. Nelle lunghe pause fra una portata e l’altra venivo invitato ad uscire per accompagnare due donzelle che, come ci si fosse trovati in un film western o in un romanzo ottocentesco, si sedevano sull’uscio di casa per lavorare a maglia. “Tranquillo che non ti mangiano” mi diceva la loro madre notando la mia congenita timidezza nei confronti dell’altro sesso. Magari, al contrario della stronza-media occidentale, sempre pronta ad attirare (e illudere o lasciar illudere) per respingere, ferire, irridere, umiliare per sadico diletto o calcolo sentimentale, o addirittura denunciare falsamente per capriccio o guadagno, esse non erano pericolose. Non erano però nemmeno tanto interessanti quanto a compagnia, simili com’erano proprio a quelle figure ancillari ed insipide a cui la menzogna femminista lamenta falsamente esser state ridotte le donne prima del femminismo. Possibile che fra le arpie femministe e le ancelle che filano non ci fosse una umana via di mezzo? Contraddizioni della società americana…

Quando fui sull’aereo che mi avrebbe riportato a San Diego, mi accorsi di essere seduto vicino ad una signora anziana e mi venne in mente quella scena di Fight Club in cui il protagonista spiega alla propria vicina di posto il modo di ragionare delle compagnia di assicurazioni (“probabilità di incidente per probabilità di perder la causa per entità media del risarcimento uguale a X. Se X è inferiore al costo della sostituzione o della modifica, noi quel pezzo non lo ritiriamo dal mercato.”). Per fortuna non vi fu alcuno scontro in volo con altri aerei i potei tornare senza incidenti al mio bilocale di La Jolla, che, dopo quel paio di giorni tanto a nord in zone tanto ignote, mi apparve cinta da un’aria piacevolmente meridionale e familiare.

[PAUSA]

La sera del capodanno fu da me passata alla scrivania a migliorare e rielaborare lo scritto della tesi. Fatica sprecata, col senno di poi (nel senso che anche quanto era scritto prima sarebbe ampiamente bastato e che comunque non avevo bisogno di alcun punteggio aggiuntivo). Meglio avrei fatto a scendere in strada e ad unirmi alla festa cittadina. Potevo sentire e vedere, proprio sotto di me, la gente radunarsi dapprima, verso l’ora di cena, lentamente, poi freneticamente, cantare e ballare. Verso mezzanotte si raggiunse l’apoteosi, con tanto di brindisi, spumante e fuochi d’artificio. In quella piazzetta così “in” pareva essersi dato appuntamento il fior fiore dei discendenti dei “coloni”. Erano quasi tutti di aspetto europeo e di portamento elegante. Magari avrei vissuto qualche avventura da filmetto americano del sabato sera.

I giorni successivi tornò la solita routine americana. Alternavo orari folli (a volte mi veniva in mente una modifica da apportare alle simulazioni e, quando non riuscivo a dormire, mi recavo come un ladro nel cuore della notte in laboratorio – era sempre aperto per chi aveva il badge - per lanciarla) fra calcoli e scrittura della tesi a momenti distensivi come la spesa al supermercato, aperto tutti i giorni 24 ore su 24. Ricordo in particolare i ritorni a casa con il pulmino dell’università guidato da studenti in procinti di prender la patente: un susseguirsi di frenate improvvise e sbagli seguite dal “sorry” del o della conducente-adolescente. Una volta, con il mio advisor che abitava poco lontano, discutevamo del modo per sfuggire agli yankee “eh, ma allora devi davvero non farti più trovare da loro” rispose alla mia ipotesi sullo scappare per non pagare un debito (tipo quelli terribili che si contraggono per cause civili montate ad arte) “devi andare in un paese del medio oriente e sperare che non lo invadano come l’Iraq!”. Mi fece l’occhiolino e scese alla sua fermata.

Era sempre sereno in California e i tramonti parevano davvero tutti i giorni quelli dei film western, quelli così struggenti che da noi, quando capitano, si imprimono nella memoria. In America, invece, anche quello era diventato routine e la gente andava e veniva per le strade indifferente allo spettacolo della natura.

I pranzi dei giorni festivi erano allietati dalle gare Nascar, che avevo iniziato a seguire come ogni buon appassionato americano. Fra i piloti, conoscevo Tony Stewart, perché aveva iniziato la sua carriera nelle monoposto dell’IRL che seguivo su Autosprint (dopo la scissione dalla Cart). Lo avevo sempre identificato con le monoposto sgargianti del team Menard e con quelle corse in cui, a fine carriera, aveva iniziato a cimentarsi (senza sfigurare) anche il nostro Michele Alboreto. Quindi decisi di tifare per lui. Quell’anno, però, in testa al campionato era Dale Earnardt Jr, figlio del grande “The Intimidator” (un pilota così famoso e vincente che persino io lo avevo conosciuto tramite i trafiletti di Autosprint fino al giorno della sua tragica morte in corsa). Il loro duello infiammò l’edizione 2004 di Daytona, che seguii dall’inizio alla fine, gustandomi anche la comparsata dell’allora contestatissimo presidente Bush Jr.

Lo spot della Porsche Cayenne Turbo (era al tempo un’assoluta novità, per non dire uno scandalo, un SUV di marca Porsche, dopo che per decenni, dai tempi della mai compiante 944 e 928, qualunque tentativo di produrre e vendere qualcosa di diverso dalla classica 911 era fallito miseramente) era memorabile. La versione “Turbo” di una Porsche, del resto, ha sempre meritato qualcosa di particolare. Padre, madre e bambino sono seduti a tavola per la cena. All’improvviso, il figlioletto afferra il piatto come fosse un volante e inizia girarlo facendo “brum brum, meeeh” con la voce. I genitori depongono le posate e lo guardano con severità. “How many times I told you…” inizia il padre con voce severa. Lo spettatore si aspetta che dica qualcosa come “non si gioca a tavola”. Ed invece, sempre, con imperturbabile severità, continua con “you accelerate only after passing the apex of the corner”. L’insegnamento paterno non riguardava quindi la banalità delle “buone maniere” a tavola, ma il modo corretto di affrontare una curva, con la frenata regressiva, l’ingresso in rilascio, il ritardo del punto di corda in funzione della velocità e del raggio, e l’accelerazione finale una volta superato il centro curva. Ovviamente se si accelera troppo presto o si deve poi mollare, con conseguente perdita di tempo, o si finisce in sotto o sovra sterzo e si rischia l’uscita o comunque si compromette la prestazione.

Erano quelle le pubblicità che andavano per la maggiore su “Speedy Channel”, un canale a pagamento che avevo acquistato con il pacchetto della TV via cavo. Purtroppo, il tecnico venne ad installare il tutto a GP del Giappone 2003 già disputato, cosicché dovetti aspettare quasi cinque mesi per poter vedere la gara registrata da mio padre (il quale, quella sera, in diretta, mi aveva fatto la radiocronaca per telefono).

[PAUSA]

Una cosa però imparai dagli Americani che mi è rimasta tutt’oggi. Il concetto di ricorrenza decennale applicato all’automobilismo: “F1 Decade”. Era una trasmissione che mandava in onda, in rigoroso ordine cronologico, i gran premi di dieci anni prima, in corrispondenza dell’anniversario corrente. L’avevo scoperta, per la prima volta, infatti mentre faceva rivivere il GP d’Australia 1993, corso a novembre del 1993 e trasmesso da “Speedy channel” una domenica di novembre del 2003. Andai a dormire commosso: avevo visto l’ultima vittoria di Senna (su McLaren-Ford) e la sua stretta di mano (sincera, forse, per la prima volta) ad Alain Prost (secondo su Williams-Renault, ma già matematicamente campione da diverse gare), su un podio che, con il senno di poi, avrebbe simboleggiato la fine di un’era. L’anno dopo il francese si sarebbe ritirato, il brasiliano si sarebbe immolato in mondovisione al Tamburello e la formula 1 non sarebbe stata più la stessa. Rivendendoli a distanza di dieci anni, avevo potuto capire come entrambi, non dico presagissero la fine del “decennio senniano” (1984-1994), ma almeno comprendessero quanto dal gran premio dopo, dall’anno dopo, nulla sarebbe più rimasto come prima (sarebbe iniziata “l’era Schumy”, meno maledetta e più salutista, più calcolata, più vincente, più politically correct, almeno nelle dichiarazioni, più computerizzata, più, insomma “moderna” nel bene e nel male).

Si dice che Augusto, in punto di morte, si sia lasciato sfuggire “la commedia è finita”, per significare come nella vita anche i grandi uomini della storia altro non siano che attori. Ebbene, nello sguardo dei due eterni nemici della F1 moderna io vidi (potendolo rivedere con calma a distanza di 10 anni) lo sguardo disincantato, se non commosso, di due attori che, nel prendere gli applausi sul palco al termine recita, ri-conoscano tutti gli odi, le maledizioni ed i furori a cui hanno prestato voce e vita fino ad un minuto prima essere stati soltanto, appunto, “rappresentazione” e si conoscano, per la prima volta, “ugualmente uomini”, sotto la prospettiva del “mondo come volontà”. “La stessa voglia di vincere, gli stessi rischi, la stessa passione per la velocità, la stessa dedizione assoluta, lo stesso talento” devono aver visto l’uno nell’altro. E aver riconosciuto, per la prima volta, che quel “personaggio cattivo da romanzo” (che ciascuno di loro rappresentava per l’altro) tanto temuto ed odiato mentre scrivevano le pagine della loro vita (che erano anche le più belle pagine della storia della F1) era qualcuno da rimpiangere ora che si apprestavano a rileggerle.

Era la prima volta mi sorprendevo capace di un’introspezione temporale in quello sport che fino ad allora avevo vissuto solamente in un continuo presente.

[PAUSA]

E allora da dove il mio anti-americanismo? Semplice, dall’esito del secondo incontro con la escort. Avevo preparato un’altra coppia di sonetti per Caprice.

III.
“High, between the Heaven’s spheres you appear,
Wonderful in your golden hair
Of heavenly angel creature;
In the splendour of your sky blue eyes

No star can be equal to you:
You rise in your tall slender figure
As a Dawn of blessed light
Who lays the hair over the sea waves;

And you are beautiful as the Goddess
Who was born, bare, from the Greek Sea:
You seem her divine image,

At whom stare sighing and adoring:
You shine as the morning star
Rising over the water expanses.

[In NOTA l’originale italiano in metrica ABBA BAAB CDE DEC:

“Alta tra le sfere del Ciel m’appari,
Bellissima nella chioma dorata
Di celeste creatura angelicata;
Nello splendor dei tuoi begl’ occhi chiari

Nessuna stella a Te può star di pari:
Sorgi nell’alta figura slanciata
Come un’aurora di luce beata
Che i crini distenda all’onde dei mari;

E sei bella quanto la dea che nacque
Nuda fra l’onde del Greco Mare;
Tu pari la sua effigie divina

A cui volger gl’occhi e sospirare:
Splendi come la luce mattutina
Sorgente sulle distese dell’acque.”

]

IV.
“Beautiful you appear in your blonde hair
As a star from marine cavities,
In the depth of your blue eyes
It seems that the light diffuses of Venus,

And sweet spreads as a wave
In the spell of morning dreams
The brown reflection of your hair
Given to the Caprice of the playing air;

Beautiful you are as the warm Dawn,
When raising in its mild splendour
Large mirror it makes of the light waters:

You are for me the Woman who enchants,
And kissing you it seems to adore
In your graces the Aphrodite’s body.”

[Qui in NOTA l’originale italiano in metrica ABBA ABBA CDE CED

“Bella appari nella tua chioma bionda,
Come una stella fra gl’antri marini;
Nel profondo dei tuoi occhi azzurrini,
Par che di Venere il lume s’effonda,

E soave s’estende come un’onda
Nell’incanto dei sogni mattutini
il riflesso castano dei tuoi crini
Dati al capriccio dell’aura gioconda:

Bella sei tu come la calda aurora
Quando sorgendo allo splendore mite
Ampio specchio si fa dell’acque chiare:

Tu sei per me la Donna ch’innamora
E baciandoti parmi d’adorare
Nelle tue grazie il corpo d' Afrodite”

]

Ingenuamente sicuro che questa volta, non essendo più la prima, quella “brava ragazza” di Caprice mi si sarebbe concessa completamente, l’avevo ri-prenotata per 3-4 ore e re-invitata a cena. Si presentò vestita al medesimo modo (si preoccupava tanto di cosa pensassero i vicini, ma se fosse vestiva tutte le volte allo stesso modo per andare agli incontri sarebbe stata riconoscibile in fine come se avesse indossato una ipotetica “divisa da escort”!). Giunti allo stesso punto della volta precedente, mi disse, con voce dispiaciuta: “vedi questo taglio? Il chirurgo ha tagliato proprio lì. E’ estremamente doloroso se faccio su e giù. Ti prego, per questa volta lasciamo stare”.
Anche questa volta bevvi l’amaro calice del rifiuto, ma credendoci la metà della volta prima. La controprova venne di lì a poco. La terza volta che la prenotai, non avendo più scuse a disposizione, si inventò che non le avessi aperto la porta. Quando richiamai l’agenzia, mi risposero infatti “sì, è arrivata da te ma poi è tornata indietro”. Riuscii a convincerla a ritornare, ma dovetti pagare io il taxi. Arrivò e, come prima cosa, raccontò che aveva rotto il cambio (automatico) dell’auto. Disse quindi che, se avessi voluto continuare a rivederla, avrei dovuto provvedere io al pagamento della riparazione (a tre zeri). Risposti che doveva fare come noi europei e prediligere il cambio manuale “che non si rompe mai se lo usi bene”. Poi iniziò il suo spettacolino (non completamente sessuale), interrotto soltanto dalla paura. Avevamo sentito dei rumori ed ella, per nulla tranquilla, aveva guardato dallo spioncino della porta. “No police!” disse tirando il fiato.

[PAUSA]

“Sì, ma comunque anche no sex” pensai di rimando. E non erano i primi mille dollari che venivano così bruciati a vuoto! Quando, al telefono, me ne lamentai con i miei, mio padre disse che, forse, per poter andare a segno avrei dovuto essere introdotto in giri ristretti fra ragazzi abbienti del luogo. “E vabbè, allora se uno ha i suoi giri non ha bisogno di pagare! Un mondo civile è un mondo che fornisce servizi a pagamento a tutti!” - “Ma se tu mi dici che ci sono tanti indiani, tanti neri, tanti messicani, è ovvio che una ragazza non voglia andare con tutti” - “Ma un’escort deve avere un’etica professionale! E poi nemmeno il bianco biondo come me le andava bene! Il razzismo è una scusa per la stronzaggine! Approfittano di queste leggi di merda per spennare senza neanche darla!” - “Se tu avessi un amico americano, bianco e ricco, sicuramente ti indicherebbe i posti giusti, sia a pagamento che free” - "Mi sa che non ce ne sono di posti giusti qui” - “Ci sono, ma tu da straniero non vi puoi accedere” - “Va beh, allora se ci sono barriere d’accesso alla gnocca anche in questa cosiddetta società aperta, vuol dire che, in quello che conta, ci sono cittadini di serie A con accesso allo jus chiavandi e cittadini di serie B senza diritti, che si fanno le seghe sui porno e che se ci provano vengono spennati o arrestati, e allora tanto vale istituzionalizzare la discriminazione e ripristinare le caste. Però gli ingegneri li mettiamo nella casta superiore!” - “Eh, ma cosa pretendi dai discendenti dei cow-boys? L’India brahamitica?”

Ecco che da quella volta gli Stati Uniti, con il loro proibizionismo sulla prostituzione (non a torto Caprice temeva di poter essere arrestata se colta in fragrante), con il loro puritanesimo di facciata (“non scopo con il primo venuto”, “oddio se i vicini scoprono cosa faccio”), con la loro falsa emancipazione (“free speech, free sex, free women”, ma se dici qualcosa di politicamente scorretto o semplicemente antifemminista perdi il lavoro e la posizione sociale, se scegli di pagare piuttosto che corteggiare –e quindi vai a puttane - vieni arrestato e messo alla gogna, se fai la puttana –esplicitamente e senza inganni - viene parimenti arrestata e messa alla gogna puritana) iniziarono a divenire per me il “Grande Satana”.
Qualunque stato apertamente tirannico e notoriamente illiberale mi sarebbe parso più gradito di quel finto mondo di “libertà” e “diritti”.

Non vi può essere alcuna effettiva libertà se in una sfera tanto intima, profonda e simbolica come quella sessuale non sono libero di ricercare l’appagamento dei bisogni naturali nel modo voluto con un’altra persona adulta e consenziente (sia pur consenziente per interesse e non per amore: ma cos’è, giuridicamente, l’amore? E da quando l’interesse economico è un reato dal lato di chi lo concede o di chi lo persegue? Da quando una scelta “interessata” non è una scelta libera e consapevole?). Non è terra della libertà un posto in cui, per appagare il mio naturale bisogno di bellezza e piacere (dei sensi come delle idee) non ho la libertà di pagare l’attrice del mio sogno estetico ma ho, di fatto, l’obbligo di passare sotto le forche caudine del corteggiamento (con i relativi, insostenibili, costi psicologici e alla fine pure economici e i relativi rischi di essere trattato come “punching ball” sessuale dalla stronza di turno interessata solo a sfruttare la propria avvenenza per ridurmi ad un pupazzo da sollevare e far cadere, per farmi sentire “uno di troppo”, per pormi in ridicolo davanti a me stesso o agli altri, per ferirmi, per illudermi, per sentirsi “valorizzata” sulla base di quanto offro e soffro per causa sua, o addirittura sbranarmi in senso economico-sentimentale).

E, a pensarci bene, nonostante (o, forse, proprio per) le mille e mille opere cinematografiche e le mille e mille puntate televisive basate tutte su indagini e processi, non erano (e non sono) neppure la terra del “diritto” (ma, piuttosto, quella del “rovescio”).

D’improvviso mi ricordai del mio advisor che mi aveva avvertito, per il futuro, di tenere sempre i meeeting a porte aperte, per impedire che qualche studente (e soprattutto qualche studentessa) si inventasse accuse di molestie (“ma sarà poi chi accusa a dover provare la veridicità della propria parola” “certamente, ma per non avere problemi legali qui negli Usa mi ha detto M. dalla prima volta che è meglio non dare nemmeno la possibilità di fare causa”). E questa sarebbe la terra del diritto? D’improvviso trovai fra le varie notizie sui giornali, sulle tv e sul web mille indizi sull’effettivo rovesciamento dell’onere della prova nei processi per violenza, molestia o altro di simbolicamente femminista. D’improvviso mi ricordai che Tyson era stato messo in galera sulla sola parola (peraltro dubbia anche solo “in abstracto”: perché appartarsi, di notti in camera di albergo, con un pugile con fama tanto violenta se non per concedersi del tutto consenziente e forse in cambio di qualcosa, alla sua “violenta brama”?) dell’accusatrice. D’improvviso capii quale reale finalità vi fosse (e ovviamente vi sia) dietro la pretesa femminista di “essere credute senza troppe domande per non subire una seconda violenza”: la brama di poter (almeno in linea di principio) mandare in galera qualunque uomo per qualunque motivo in qualunque momento. Difatti, a Tyson non venne concesso di difendersi citando il fatto che la sua accusatrice avesse più volte accusato falsamente altri uomini.

Ecco perché i nemici “degli stati uniti e della libertà” divennero anche i miei potenziali amici e alleati. Nel gioco di strategia militare sulla seconda guerra mondiale, presi le parti della Germania. Nel suo “mod” sulla guerra fredda presi l’Unione Sovietica. E nella guerra di civiltà presi, da allora e poi per sempre, le parti dell’Islam.

[PAUSA]

Tutto può essere perdonato a chi mi può aiutare a distruggere l’elemento demoniaco e tirannico che si nasconde dietro vesti di umanità e di apparente libertà.
Ciò che, nei nemici dell’America, vi è di ingiusto, illiberale, tirannico, è sotto gli occhi di tutti. E quindi può essere combattuto o almeno modificato se non neutralizzato. Tutto ciò che invece negli Usa è ingiusto, illiberale, “medievale” e tirannico (come, appunto, il femminismo, il proibizionismo, il puritanesimo, il turbo-capitalismo) si presenta sotto vesti di giustizia, di libertà, di “progresso”, di emancipazione (basti pensare all’evoluzione estrema del capitalismo che riduce i ceti popolari – socialmente parlando - al rango di servi della gleba – privi di diritti, di rappresentanza politica efficace, nonché di voce in capitolo nel definire i termini “bene e male” - e racconta di essere “la stessa cosa” che ha prodotto la rivoluzione industriale ed emancipato le masse dall’ignoranza e dalla povertà). E’ veramente un grande demonio che si finge nostro amico per impedirci di combatterlo.

Il saggio bramino d’India con cui condividevo la scrivania del laboratorio mi aveva messo in guardia: “in Italia non avete mai avuto il capitalismo puro. Avete un mix di socialismo e capitalismo, con cui siete riusciti nel dopoguerra a costruire un mondo comunque moderno, ma in cui una buona parte della popolazione (a differenza di quanto accade negli stati puramente capitalisti) ha potuto per decenni avere istruzione, libertà e benessere garantiti grazie anche all’intervento dello stato nell’economia e ad un certo concetto di giustizia sociale nella ripartizione delle ricchezze”.
Sarebbero passati ancora anni prima che potessi capire la profondità di quel giudizio. Eppure proprio la mia disavventura con la escort che non aveva aperto le gambe avrebbe dovuto farmi aprire gli occhi.

Cos’è, in effetti, la prostituzione come noi la intendiamo, se non un modo per permettere anche all’uomo di livello economico medio (o addirittura medio-basso) di accedere (tramite il pagamento di un prezzo in fin dei conti, per forza di cose, “calmierato”) alla bellezza e al piacere come, nel mondo “puramente capitalista”, potrebbero soltanto i pochi privilegiati “vincitori” della spietata lotta economica (quelli che, insomma, potrebbero spendere decine di migliaia di euro al mese senza che ciò appaia loro un sacrificio)?

Il “capitalismo” è la giungla in cui le escort-leonesse (anche e soprattutto quando queste non si sentono prostitute) sbranano i clienti-gazzelle (anche e soprattutto quando questi si muovono per desiderio amoroso prima che per “do ut des”). E in cui solo qualche cacciatore con il fucile (ovvero con capacità di spesa “fuori catalogo”, garantita da entrate economiche sconosciute ai ceti popolari e ottenute grazie a posizioni sociali inaccessibili alla “massa”, al di là della retorica del merito individuale e all’illusione dello studio) sopravvive (ovvero chi, per nascita, età o fortuna, è riuscito ad entrare per tempo dalla parte “giusta” di un meccanismo di ingiustizia sociale in cui, a prescindere da studio e intelligenza, per dirla col vecchio – e male interpretato - Marx, “chi lavora non guadagna davvero e chi guadagna davvero non lavora” – ma al massimo, aggiungo io, specula finanziariamente).

Il “comunismo” è il mondo utopico (o distopico) in cui la realtà (come del resto la natura) è negata (“non esiste la prostituzione”, “non esistono le disuguaglianze”, “non esistono le contraddizioni sociali” hanno sempre detto ad est del muro davanti all’esatto opposto delle loro affermazioni) e in cui è quindi impossibile vivere.

La “civiltà” è ciò che permette agli uomini di appagare i propri bisogni naturali (negati dall’utopia progressista in genere) senza dover sottoporsi totalmente ai rischi e alle brutalità dello “stato di natura” (quello che il capitalismo crede l’unico stato possibile). Ecco perché, come iniziai a capire quindici anni fa, la civiltà deve contemplare a livello sessuale la prostituzione (per salvare dalla frustrazione o dalla potenziale schiavitù chiunque non sia un casanova o un miliardario) e a livello politico la socialdemocrazia (per dare libertà effettiva e benessere a una larga parte della popolazione, la quale non può essere totalmente costituita soltanto da “lottatori”, da “vincitori”, da “eccellenze”, come il darwinismo sociale - pessima corruzione del pensiero nietzscheano e della natura - e un malinteso senso del termine “meritocrazia” vorrebbero farci credere).

[PAUSA]

Negli Stati uniti, constatavo, a dispetto dell’hard tuning di cui tante muscle car e non solo facevano vanto estetico-esibizionistico, non si poteva andare forte in macchina (e, proprio per questo, avevo scelto di non prendere neanche, come avevano fatto miei colleghi in precedenza, la patente Usa e un’auto: sarei finito in galera alla prima accelerata), non si poteva andare con le escort, non vi era lo stato sociale. Paese barbaro! Dove, invece, si poteva viaggiare (almeno in linea di principio) senza limiti di velocità, si poteva seguire il culto di Venere prostituta e vi era lo stato sociale? In Germania… E, anche se non ufficialmente, in paesi meno illuminati, ma almeno dalla giustizia provvidenzialmente malferma come l’Italia. Nell’Italia di Berlusconi (pensavo ingenuamente allora [NOTA: sarei stato smentito da destra e da sinistra!]) nessuno oserà mai considerare culturalmente “impuro”, eticamente inappropriato o addirittura legalmente perseguibile il comportamento del gaudente cercatore di prostitute e, in genere, tutto quanto ricade nel diritto a cercare di godere della bellezza nella vastità multiforme delle creature femminine.

Ecco quindi che non vedevo l’ora di terminare il mio periodo negli States e tornare in Italia. Decisi istantaneamente che nemmeno per lavoro sarei mai tornato in quella terra ostile. Decisi in quel momento che avrei preferito rinunciare ad ogni prospettiva di carriera e di ricchezza che avesse previsto di vivere secondo standard (materiale e morali) americani, secondo regole americane, secondo valori americani. Meglio guadagnare meno, essere meno famosi, ma almeno poter vivere, poter parlare, poter trombare. Nessuna quantità di denaro avrebbe compensato l’ingrassamento che quello stile di vita e quel cibo spazzatura avrebbe inevitabilmente comportato (avevo un figurino quando ero partito ed ora mi vedevo con il collo ingrossato e le membra adipose). Nessun guadagno materiale avrebbe bilanciato l’impossibilità di dire ciò che si pensa e ciò che è vero (perché questo accade laddove, magari sotto le vesti menzognere del femminismo, dell’antirazzismo, della “democrazia”, domina il politicamente corretto divenuto obbligatoriamente invasivo proprio a partire dall’inizio degli anni Duemila). Nessuna prospettiva di carriera poteva rendere accettabile il rischio di essere licenziati, processati o addirittura incarcerati sulla sola parola di un’accusa falsa o montata ad arte cui venga riconosciuto il “diritto” non solo di essere da sola una fonte di prova per la presunta violenza/molestia, ma pure di definire a posteriore e secondo soggettivi ed inconoscibili parametri il confine fra le cito e illecito (perché questo accade laddove la “cultura” è mossa da “studi di genere” che inventano abomini contro-natura e contro-diritto come lo “stupro visivo” o la “duge’s law”).

Meglio a questo punto un paese ex-nazista che però nazista non è più rispetto alla “più antica democrazia del mondo” che però, attualmente, è il luogo di due tirannidi (quella turbocapitalista e quella femminista). Meglio un paese governato da una donna (la Merkel avrebbe preso di lì a poco il potere a Berlino) piuttosto che un paese guidato apparentemente da uomini i quali alla prova dei fatti si rivelano sempre soltanto teste di legno (come, da lati opposti, Bush e Obama) per interessi massonico-capitalistici e femminil-femministi.

Non sapevo ancora cosa avrei fatto dopo la laurea, se sarei rimasto in Italia o se sarei andato all’esterno, se sarei rimasto all’università per il dottorato e se sarei andato in azienda, ma decisi che, in ogni caso, il prossimo soggiorno all’estero sarebbe stato in Baviera o in Sassonia, terre di fkk, e non in California, terra di finte escort truffaldine! Troppo facile a quel punto sarebbe stato cadere nella misoginia e dare tutta la colpa alla falsità e alla stronzaggine di questa o quella ragazza. La colpa era chiaramente del sistema, che, minacciando le escort di arresto e facendo pendere la stigma sociale sulla testa (e non solo sulla testa) di tutte le donne disposte a concedersi, più o meno apertamente, per denaro, costringeva queste a “farsi furbe” per non apparire “puttane” (e averne lo stesso gli incassi).

Di quel sistema divenni nemico. Al momento di prendere l’aereo per Atlanta (e da lì quello per Roma) ebbi un ultimo timore di essere arrestato per qualche motivo durante i controlli (mia madre cadde in una perquisizione supplementare a campione da parte di una “female assistant” chiamata all’uopo che per poco non ci fece perdere il volo). Appena decollato da Atlanta alla volta dell’Italia ebbi un sospiro di sollievo. Mi era andata bene: non ero stato accusato di molestie da nessuna, nessuno mi aveva fatto causa con un pretesto di sicurezza (tipo i mobili nel corridoio) per motivi economici. E neppure ero finito in galera per disintegrazione dei draconiani limiti di velocità yankee. Non avrei mai più ritentato la sorte. Non avrei ma i più messo piede negli Stati Uniti. Lì, per me (pilota e puttaniere in erba), non c’era vita.

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@Beyazid_II said:

(omissis)
Mi era andata bene: non ero stato accusato di molestie da nessuna
(omissis)

In verità va bene a molti, anzi a quasi tutti: meno i molestatori.

E il lenzuolo si gonfia sul cavo dell'onda 
E la lotta si fa scivolosa e profonda

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@marko_kraljevic said:

@Beyazid_II said:

(omissis)
Mi era andata bene: non ero stato accusato di molestie da nessuna
(omissis)

In verità va bene a molti, anzi a quasi tutti: meno i molestatori.

In primis, all’epoca ero suggestionabile. Vedere, a poco più di vent’anni, quando, uscito da un mondo di romanzi e di sonetti, oltre che di libri di testo di ogni genere (scientifico ma non solo), mi apprestavo ad affacciarmi alla vita reale, manifesti come quelli “anti-molestia” delle università americane di allora (e non oso pensare oggi) furono uno vero e proprio shock!

Facevo fatica, per naturale timidezza e ripetute esperienze di stronzaggine con le melanzane, a trovare il coraggio e soprattutto le motivazioni per “abbordare” con una scusa una fanciulla in corridoio o per via, per incipiare un dialogo non formale, per tentare di trovare parole di invito o complimento volte a manifestare un interesse a cui l’interpellata potesse eventualmente rispondere. Ed ora un disegno da fumetto, da segnale stradale di pericolo, quasi da pornografia dell’orrore, mi sbatteva in faccia una narrazione nella quale, per il solo fatto di desiderare una fanciulla, di avvicinare una fanciulla, di guardare una fanciulla, di desiderare, seguire e cercare di ottenere, insomma la bellezza, per il solo fatto, insomma, di essere maschi e di seguire la mia natura, ero, potenzialmente “il mostro”!
Un volto di giovane donna gridava muta come nell’urlo di Munch sotto la scritta “sexual harrassment” (ed ovviamente il numero da chiamare in caso di tale “emergenza” paragonata a quella di un incendio o di un terremoto).
Se volessi rubare il lessico alle femministe direi “anche questa è violenza” (come dicono quelle che vengono sopranniminate “Poppea” dai compagni o vengono guardate per più di 5 secondi da un passante).

Perché mi sono sentito trattato da “mostro”? Semplicemente perché, se leggi quello che gli yankees intendono per “molestia”, hai, né più né meno, tutto quanto ogni femmina pretende un uomo agisca, per essere almeno preso in considerazione come “pretendente”: palesare disio sincero e al di là di ogni ragionevolezza (altrimenti, “razionalmente”, con un’analisi costi-benefici, lascerebbe perdere…), fare la prima mossa, non abbattersi ai primi rifiuti, ma riprovare, insistere e resistere, inseguire colei che fugge (e in ciò dando prova di interesse non superficiale), essere sempre inventore di nuove mosse, di nuovi inviti, di nuove offerte (che così l'interessata potrà valutare con calma, misurando il proprio "valore economico sentimentale" anche da quanto lo sfortunato è disposto ad offrire e soffrire) e, esattamente come in guerra, cercare di capire dalle reazioni del “nemico” se e come proseguire l’attacco. Per stare invece “nel sicuro”, per non rischiare di essere, in caso di fallimento, denunciati come mostri, bisogna rinunciare ad attuare quasi tutto quanto Ovidio consiglia nell’Ars amandi (non si può sapere, a priori, se il tentativo sarà gradito e se siamo proprio noi l’uomo da cui l’interessata vorrebbe ricevere il “tentativo”).

Basti dire che il massimo esempio di “molestia” veniva descritto come probabile a San Valentino, “quando l’occasione può lasciar credere al molestatore di poter lasciare impunemente un fallocratico mazzo di fiori, un fastidiosissimo cioccolatino, o un violentissimo regalino sulla scrivania…”
Da quella volta ho dismesso ogni velleità di diventare capace di corteggiare (ammesso, per inciso, di volerlo, di accettare insomma quella disparità di ruoli nell’amor “cortese” favorevole grandemente alle donne e da queste sfruttata in ogni modo, tempo e luogo, persino negli stessi modi, tempi e luoghi in cui pretendono invece la mitologica “parità”).

E non è stata un’impressione solo mia. Alcune mie colleghe (melanzane, ma simpatiche ed esistenzialmente “sportive”), tornate dagli Usa, hanno riferito della medesima situazione: “a volte in certe discoteche sembra che si vogliano accoppiara sul palco” disse l’una “ma è tutto finto, se ci provi, se le tocchi, ti ammazzano, ti denunciano, ti spennano…è tutto finto”.

In secundis, all’epoca ero ancora assai idealista. Adesso capirei che, con solo poche migliaia di dollari da spendere, non risultavo interessante agli occhi delle americane “perbene” (ovvero le escort non dichiarate del genere metoo) nemmeno per quel tipo di “spennamento legalizzato”.
La cugina di mia madre (la repubblicana doc più volte citata) continua a dire che le accuse di molestie sono direttamente proporzionali al “bottino” che una donna può conseguire mentendo o esagerando ad arte.
Ecco quindi che se per un presidente dell’FMI la probabilità è 99,9 percento, per uno come me è 0.01 (se non meno).

Resta comunque (e torna fuori l’idealista) la questione di principio sulla quale non si dovrebbe ridere: se il confine fra lecito e illecito non è più una definizione certa di reato e soprattutto non è più una prova oggettiva e dimostrabile, ma solo la “sensibilità” e la “parola” della donna, chi ci assicura che lo stesso trucco (ovvero inventare qualcosa di “credibile e coerente”) non possa essere in qualunque momento praticato da qualunque donna per qualunque capriccio (al limite, anche solo il capriccio “alla Don Rodrigo” – visto che a te piace il Manzoni - di mostrare alla amiche come possa distruggere un uomo con l’assistenza del sistema culturale e sociale in cui, per uno strano e non riconosciuto mix stupidità cavalleresca e demagogia femminista, il sesso femminino – checché se ne dica – è privilegiato e non svantaggiato: tanto, per una falsa accusa, non rischia praticamente nulla e per essere scoperta deve proprio accadere che per caso salti fuori una prova a favore dell’imputato e se anche accade a volte neppure basta!)?

In stati meno ricchi della California (dove, dato il reddito medio, la cosa interessa poco, almeno alle “bianche” benestanti), capita che le donne denuncino falsamente anche solo per avere il sussidio statale previsto per le vittime di violenza. Provvidenziale, in questo caso, che le finanze italiane siano così disastrate da non permettere alla Bongiorno, alla Carfagna o alla Terragni di proporre una cosa simile!

Ma tu poi, caro professorino sempre pronto a irridere facilmente e screditare moralmente le argomentazioni altrui senza uno straccio di prova, senza un briciolo di ragionamento, senza un barlume della sbandierata "razionalità illuminista e progressista", senza, insomma, dialettica (e difatti mi chiedo perchè ho perso inutilmente due pagine per risponderti), parli per esperienza personale o per adesione acritica all’american way of life? Per renderti edotto della realtà “democratica” di quel paese (che, fra parentesi, esattamente 20 anni fa ha “democraticamente” bombardato la nazione da cui proviene il tuo nick), ti riporto solo il caso più eclatante, quello di Carlo Parlanti.

Quasi 10 anni di carcere da innocente o comunque sulla base di prove chiaramente false o costruite ad arte da complici dell’accusatrice (a cui è bastato andare dallo sceriffo per rovinare una vita!):
https://www.errorigiudiziari.com/carlo-parlanti-8-anni-in-un-carcere-usa-io-innocente-e-abbandonato-dallitalia/
All’epoca seguii tutta la vicenda da diverse fonti ed ebbi modo di appurare in via documentale la clamorosa mendacità delle accuse (con un po’ di pazienza magari i documenti si trovano ancora in rete, ma, per rubare un'espressione al compianto @flautomagico, “che te lo dico a fare”? Tanto tu credi solo agli Yankees). E mi feci l’idea che fosse solo la punta dell’iceberg di un sistema giudiziario malato (e non solo per via del femminismo: https://www.pianetacarcere.it/carceri/carceri-private-negli-usa-e-in-uk-aumentano-i-dubbi-sulla-gestione-privata-dei-penitenziari-661.asp).

In 15 anni di navigazione “culturale” atlantista, abbiamo avuto tutto il tempo di farci venire addosso quell’iceberg (da cui cercavo ingenuamente di scappare tornando qui a costo di rinunciare ad una possibile carriera ben più brillante), dato che anche in Italia, ora, succedono due fatti come questi.

A) Un ragazzo (non ricco come Strauss-Kahn, non “dissidente” come Assange, non famoso e potente come Weinstein, insomma, uno “sfigato” come noi) viene prosciolto solo perché (e solo dopo che), del tutto casualmente, sono saltati fuori i video in cui il suo presunto approccio “violento” appare come un malriuscito tentativo di semplice “corteggiamento”.
https://www.ilmessaggero.it/roma/news/molestie_pizzaiolo_bacio-4475285.html
Presta attenzione alle parole degli avvocati «In assenza di quel video discolparsi sarebbe stato quasi impossibile». E tutte le volte in cui poveri e maldestri “corteggiatori” in erba come noi gt non hanno una telecamera a scagionarli? Se le mie contestazioni all’andazzo delle cosiddette violenze/molestie non ci dovrebbe essere bisogno di una telecamera!

B) Un professore si suicida dopo essere stato oggetto di accuse probabilmente inventate e sicuramente tutt’altro che dimostrate e dimostrabili (eppure sufficienti a metterlo alla gogna sociale).
https://www.corriere.it/cronache/19_giugno_16/ultimo-biglietto-prof-suicida-b041e356-9071-11e9-9eb3-08018d4e5f3d.shtml
Certo, potrebbe anche essere stato colpevole (il processo non ci sarà…). Ma, sicuramente, nessun cittadino in un mondo libero, dovrebbe temere di finire in carcere e alla gogna mediatica solo perché non ha al momento modo di “provare la propria innocenza” (dovrebbe essere il contrario, come da me ripetuto inutilmente più volte e come invece opportunamente scritto nell’attuale codice russo, proprio a casa di colui che la propaganda yankee dipinge come “dittatore”)! Se le mie preoccupazioni fossero degne del riso, non ci sarebbero suicidi prima ancora del processo e della condanna (e vediamo se ora hai il coraggio di ridere anche davanti alla morte!).
https://stalkersaraitu.com/nel-nome-di-vincenzo-auricchio/
Solo gli “antifemministi” si indignano e si propongono di fare qualcosa. Per il “mainstream” è sufficiente chiedere scusa alla memoria e continuare a parlare di “numeri allarmanti” di (presunte) violenze sulle donne con i quali si giustificano proprio leggi e procedure che distruggeranno altre vite come quella del professore. Per chi si basa sulle sole denunce per dire che “ci sono tanti uomini violenti”, anche questa vittima maschile va ad alimentare i numeri di “non una di meno” su (presunti) “violentatori”.

Libero di pensare che io sia un allucinato complottista ed un bieco sovranista.
Ma il mio professore (ebreo americano consulente del Pentagono) e il mio advisor (elettore pentito di Mariotto Segni), i quali mi hanno consigliato quelle prudenze anti-denuncia che tu ritieni risibili e infondate, erano “promotori d’odio fascista e nazista” anche loro?
E questi fatti che ti riporto per rispondere alle tue due (nemmeno quattro) chiacchiere? Sono fake news?
E se la vera fake news fosse invece l’idea dell’occidente come mondo libero? Se la “cultura” in occidente non fosse altro che qualcosa di simile all’orchestra del Titanic, qualcosa che suona la stessa musica da tempo immemore anche quando la barca affonda davanti alla realtà?

bakeca_massaggi_mobile

Ahah oddio scrivi le poesie alle escort? Americane per giunta?

Comunque davvero non è il caso di rispondere seriamente, con 200 righi, ad utenti tipo marko kraljievic che non dicono mezza cosa sensata manco per caso. E lo dico io che ho risposto più o meno seriamente (a volte esagerando un po') per un anno ad itaconeti. Itaconeti almeno le risposte se le meritava, qua siamo al peggio del peggio.

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Blumedico

@Beyazid_II Ti ringrazio per il tempo e la fatica spesi per replicare a una semplice battuta. Continuo a non accettare il fatto che una persona di indubbio valore come te si perda dietro a fumosità quali mai altre prima udite. Se ti avanzasse un pomeriggio, leggi Così com'è. Discorsi sul «Lasciar andare» e sul «Non sé» di Achaan Sumedho, un monaco buddhista occidentale dal quale ho imparato molto. Anche a lasciar andare il buon @pussylicker

E il lenzuolo si gonfia sul cavo dell'onda 
E la lotta si fa scivolosa e profonda

Abbandonati al relax e al piacere, scopri i centri massaggi della tua citta'!
alfamedic_mobile

@Beyazid_II said:
QUARTO GRADO: DA MARSILIO FICINO A FRIEDRICH NIETZSCHE (13/18)

Ovvero: "LE DONNE, I CAVALLIER, L’ARME, GLI AMORI, LE CORTESIE, l’AUDACI IMPRESE"

Parte 13 di 18 : “Le donne: la escort americana”

Sintetizzo: é andato in America, ha pagato 1.000 dollari per una escort, ma quella non gliel’ha data perché erano solo al primo appuntamento, cosí l’ha riprenotata, l’ha pagata altri 1.000 dollari e quella non gliel’ha data per la seconda volta, e infine l’ha riprenotata, l’ha ri-pagata 1.000 dollari e quella non gliel’ha data nemmeno la terza volta. Dice che non andrá piú in America. 🤓

P.s. Tutto questo senza scomodare Teodorico e Ramsete II.

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