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QUARTO GRADO: DA MARSILIO FICINO A FRIEDRICH NIETZSCHE (3/18)

Ovvero: "LE DONNE, I CAVALLIER, L’ARME, GLI AMORI, LE CORTESIE, l’AUDACI IMPRESE"

Parte 3 di 18 : “Le donne: Roberta”

La prima che cercò (a suo modo) di consolarmi fu Roberta. Mi venne vicino carezzandomi il viso “Poverino, non te la prendere, non è successo niente …..sai quanti uomini impotenti ci sono nel mondo?!” e sorrise andandosene. Forse è ingrato presentarla così, come una finta amica sadica pronta gioire ed infierire delle mie disavventure erotiche, perché, al di là della evidentemente ironica “consolazione”, è stata in effetti l’unica persona a mostrare attenzione verso di me ed a tentare di farmi riprendere fiducia.

A differenza di tutte le altre compagne, non era nativa delle mie zone e solo all’inizio della quarta iniziò a far parte della nostra classe in seguito al trasferimento della sua famiglia, originaria della Sardegna. Non era dunque stata presente nei primi tre anni di liceo, nei quali la mia incapacità di accettare il fatto di non essere al centro dell’attenzione delle ragazze per meriti di studio come il vincente fra i leoni lo sarebbe stato fra le leonesse mi aveva imposto un contegno di ostentato disinteresse (reale o simulato che fosse) per esse. Mi aveva conosciuto proprio alla fine di quell’estate 1996 in cui avevo incontrato Elisa, quando avevo tutta la voglia di re-iniziare la scuola come occasione per potermi render degno umanamente e intellettualmente del mio ideale femminile, e in cui in effetti il mio interesse e il mio trasporto verso l’intero genere femminile stava conoscendo un livello non più raggiunto in seguito (“Donne ch’avete intelletto d’amore”….). Forse a differenza delle altre già prevenute, ella colse questa sfumatura psicologica nei miei atteggiamenti involontari e, sia pur “fidanzatissima” (con un ragazzo molto più grande di noi), decise di non ignorarla.

Era, ad esempio, l’unica che prendeva l’iniziativa di telefonarmi a casa per questioni di compiti (all’epoca non c’erano i cellulari, e dire “Sono la Roberta, c’è….” a mia madre implicava una certa dose di coraggio e intraprendenza pari forse a quanto richiesto nella vita reale ad una ragazza che voglia rompere gli schemi facendo la prima mossa nel corteggiamento).
Fu l’unica, soprattutto, ad aver mai accettato un passaggio in auto da sola con me (le altre o erano in più d’una, o rifiutavano, considerandomi implicitamente un pericolo pubblico). Forse perché era l’unica a cui ispiravo un minimo di fiducia. “No, non andare in macchina con lui” le dicevano le altre all’uscita della pizzeria, diffondendo leggende metropolitane sui miei fallimenti come pilota automobilistico – “è pericoloso”. “No, io mi fido di lui”. Rispose quella volta, non so quanto a ragione. In effetti, per principio, in quell’epoca potevo anche rispettare qualche regole stradale in rettilineo, ma in curva l’unica legge che valeva per me era quella fisica di compensazione della forza centrifuga con l’attrito delle gomme. Avevo la Panda 1000 della mamma, con la quale affrontammo la curva prima di casa sua veramente al limite. Traiettoria perfetta, corda a metà e uscita con leggero stridolìo in bilico fra linea e scorrevolezza. “Oh, oh, oh, ce l’abbiamo fatta” commentò mentre riallineavo in accelerazione.
Era anche in effetti l’unica che mi considerasse come ragazzo e non solo come astratto “filosofo” o come concreto fornitore di compiti svolti e di versioni di Latino. Ogni tanto, durante le “cene di classe” in cui era sempre stato costume delle altre ignorarmi (così come ignoravano sotto quell’aspetto tutti gli altri: famosa quella volta in cui subito dopo cena si fecero portare via dai loro ragazzi considerando con quel gesto noi “la serie B del genere maschile” da spazzar via subito dopo mangiato) parlava con me di argomenti “da adolescenti”. Non perdeva occasione di farmi notare come fosse strana la mia solitudine (mentre le altre neanche la notavano più considerandomi in questo una “boccia persa”), come avrei invece dovuto diventare più “virile” ed “attivo” per procurarmi il consenso delle fanciulle (che era l’unica a considerare implicitamente come potenziali interessate a me). Ricordo ancora con quale passione mi parlava della sua Sardegna quando le chiesi consiglio sulla parte dell’isola migliore per trascorrere le vacanze successive alla maturità.

Fu ella a consigliarmi la Costa Smeralda, nonostante la sua personale preferenza per il sud delle spiagge rosa e del paesaggio incontaminato dal turismo, perché: “tu hai bisogno di vedere gente, di incontrare delle ragazze, di vivere la vita, di svegliarti”. Aveva qualcosa di quasi materno nell’espressione del viso e nell’intonazione della voce mentre mi rivolgeva quelle parole. Di simile a mia madre aveva certamente la misura dei seni. Ciò le dovette creare un’imperitura antipatia (non vogliamo parlare di invidia?) da parte di tutte le altre, fra le quali (a guardarle anche solo di sfuggita) era diffusa l’impressione che qualche silenzioso artefice avesse limato un po’ troppo da quelle parti (salvo qualche caso, che comunque non riluceva per la bruttezza complessiva di tutto il resto). In lei, invece, ad un bel viso mediterraneo, a capelli lunghi, forti e nerissimi, ad occhi marroni grandi, espressivi e caldi, faceva da completamento dell’ideale formoso non-nordico un seno della (esageriamo? Ma sì esageriamo) sesta misura. “Le tette della Roberta!” mi disse piccata Claudia quando, tredici anni dopo chiedevo perché nessuno avesse invitato Roberta alla cena di classe cui stavamo partecipando. “Quelle te le ricordi, vero?” mi chiese retoricamente quasi a sottolineare che il mancato invito alla nostra comune amica fosse una ripicca verso lei che aveva “rubato” troppe attenzioni e un “dispetto” verso di me che avrei guardato (anche nel ricordo) solo a quelle. Non sapeva, colei che stava pronunciando tale velenose parole con tono quasi di rimprovero (e, ancora, di invidia) quanto fosse lontana dal vero, quanto fosse ingiusta a rimproverare e in errore ad invidiare. Se per tutti gli anni del liceo ed oltre non si è mai accorta che avrei infinitamente preferito rivolgere lo sguardo alle sue gambe piuttosto che alle tette di Roberta e che semmai, nel mio giudizio estetico, avrebbe dovuto piuttosto essere quest’ultima, piccola e formosa, ad invidiare la sua “ silhouette” (e vai di sconci francesismi in queste memorie un po’ sconce!) invece slanciata ed elegante (nella quale il seno relativamente minuto mi è sempre parso elemento conforme al profilo di quell’ideale di modella da cui sono sempre stato attratto), allora erra gravemente chi considera le donne dotate di una sorta di sesto senso o comunque capaci di leggere negli occhi il desiderio maschile al volo!

Non essendo io un fanatico delle tette, ma semmai, come il lettore avrà colto più volte, delle gambe, Roberta non aveva mai fatto colpo su di me per il proprio “davanzale”. Inoltre, pur ricordando come forme mia madre (ma non come colori, essendo la mamma baltico-orientale, con capelli biondo cenere ed occhi color oltremare come chi scrive), o forse proprio per quello, quella tipologia di donna non ha mai rappresentato il mio “eterno femminino”, essendo quest’ultimo al contrario basato (un po’ per l’impronta petrarchesco-stilnovista, un po’ per quella che su di me ha lasciato la “modella-pallavolista” Elisa) sullo slancio, quasi stilizzato, di una figura alta, di una bellezza quasi da orchidea che si protenda verso la luce. Per questo la mia particolare simpatia-ricordo per Roberta era dovuta più al suo atteggiamento gentile nei miei confronti (così diverso da quello supponente o pretenzioso delle compagne “emiliane” nella cui psicologica freddezza, e nella cui spesso volgare ed ostentata “simulazione” di certi comportamenti maschili in ambito erotico pare a volte ritrovarsi la prepotenza sgraziata – incapace di suscitare empatia o desiderio - di un antico matriarcato) che non alle sue grazie. Con ciò non pensi il lettore che non fosse bella. O che io sia sempre rimasto indifferente alle sue forme.

Mi ricordo di una sera in cui uscì di casa a piedi diretto alla piazza in cui ci eravamo dati appuntamento con tutta la classe (e qualche professore) per la “pizza pre-esame di maturità”. Le luci del tramonto estivo stavano tingendo di ambra i rossi tetti e le dipinte pareti del centro. Stavo camminando sotto i portici del mio paesello e per caso adocchiai una figura di donna che pareva uscita dal quadro del “signore col cappello e signora con l’ombrello” appeso nel salotto di famiglia. Era fasciata da un elegante vestito con toni pastello variabili dall’azzurro al blu e al verde e, passeggiando, ondeggiava le proprie forme in un modo che avrebbe ipnotizzato i marinai di Ulisse. Non era un vestito corto, ma lungo e da sera: le gambe non si vedevano, ma la camminata sui tacchi imponeva ad esse dei movimenti dai quali potevano essere intraviste dagli occhi dell’immaginazione. Le forme del bacino, invece, parlavano esplicitamente agli occhi del corpo! “Ecco, questa è una donna, altro che le mie compagne!” dissi fra me, mentre stavo per svoltare l’angolo prima della piazza. La vidi un attimo di profilo. Aveva dei bellissimi capelli lunghi corvini, lisci e appena usciti dal parrucchiere e il viso che si intravvedeva mi parve quasi nobile, da ritratto ottocentesco. Da lontano la figura mi era parsa quasi dipinta, stilizzata da un artista in stile bell’epoque. Da più vicino (senza tacchi, io ero più veloce), non era così stilizzata e pareva meno alta, ma era comunque un bel vedere. Era così bella che la vedevo come donna matura (per me il culmine della bellezza femminile si è sempre collocato oltre i trent’anni, quando ogni ombra di quella femminilità “acerba e atletica” che mi ricorda le non-erotiche compagne di classe delle medie, che i compagni andavano a spiare nude nell’altro spogliatoio, si è dileguata). “Chissà dove va?” mi chiedevo mentre la vedevo attraversare la piazza nella mia stessa direzione. “Chissà che non abbia l’occasione di rivolgerle almeno un buonasera….no, non è possibile” Era Roberta!. “Ma dov’è che siete grasse, siete grasse dove serve!” esclamò quel docente a cui le ragazze qualche giorno prima avevano confidato i loro (presunti) problemi di bilancia. Abituato a vederla con castigatissimi maglioni, jeans casual e dimesse scarpe da ginnastica, non avevo immaginato potesse essere fiorita come donna.

E da donna (nel senso di eternamente ambigua) si comportò nell’episodio con cui voglio concludere il suo ricordo. Avevamo appena passato gli scritti della maturità e ci eravamo trovato in molti nel cortile della scuola a vedere se era uscito il calendario con gli orali. Caso volle che il tabellone non fosse al piano terra, ma ad un piano superiore cui si poteva accedere dall’esterno attraverso la scala antincendio. “Ho paura di cadere, mi accompagni?” -mi chiese Roberta. Salimmo per le scale, arrivando al piano da cui gli amici non ci potevano più vedere. Guardammo le date ed ella non disse niente. Io ero fra il preoccupato (per l’esame) e il distratto (per i miei pensieri come sempre) e non mi ero neanche chiesto il perché avesse voluto salire fin lì proprio con me. “Aspetta un attimo”. Mi disse prima di scendere. Guardò me e poi in basso. Eravamo ancora nascosti alla vista e soffiava una leggera brezza in mezzo ai grandi alberi che con la loro ombra rinfrescavano quel torrido fine giugno. Mi prese il braccio e quasi si avvinghiò a me come avevo letto solo in certi romanzi e, nella realtà, faceva solo mia madre quando ero ancora piccolo. Potevo quasi sentire il suo battito, sicuramente sentivo la calda morbidezza delle sue forme. “Andiamo piano, ho paura” mi disse con voce così concitata da parere un’attrice sulla scena. Io, sconcertato, le dissi di non aver paura. C’era dopotutto la ringhiera. Mi chiesi in effetti cosa volesse davvero da me, ma un po’ la sorpresa, un po’ la logica binaria con cui ragionavo allora (“è ufficialmente fidanzata, peraltro con un tipo d’uomo totalmente altro da me: rozzo, maturo e muscoloso, ha sempre detto di sentirsi legatissima al suo amore, quindi non può essere interessata a me”), neanche per un momento presi in considerazione l’idea di abbracciarla a mia volta, di rivolgerle un complimento gentile, di accarezzarle dolcemente e capelli, la schiena o, meglio, il fondoschiena, o addirittura di baciarla. Quando fummo di sotto, scherzai con Matteo “che strane le donne, aveva davvero paura!”. Sorridendomi e scuotendo il capo, il caro amico rispose “non aveva paura……”.
Avevo dunque appena perso un’occasione simile a quella del bacio perduto in “notte prima degli esami”?
Lascio al lettore ogni commento sulle reali intenzioni della fanciulla e soprattutto sul giudizio nei miei confronti….

INCONTRA DONNE VOGLIOSE
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@Beyazid_II said:

@Feynman said:
@Beyazid_II

Guarda, come si dice, sfondi una porta aperta.

Allora abbiamo fatto percorsi inversi.

Nelle scelte di vita, ognuno fa pesare alcune variabili di più rispetto ad altre.

Magari il contesto è lo stesso, ma Tizio sceglie di lavorare nell'Università perchè, al di là di tutte le difficoltà, è un ambiente intellettualmente stimolante, dà la libertà di spaziare con la mente, c'è libertà di organizzare il proprio tempo, di orari e di ferie, di programmazione del lavoro, di scelta degli argomenti su cui fare ricerca, di interagire con colleghi e studenti, di viaggiare per workshop e conferenze, di far parte di una comunità internazionale che ha il nobile intento di far avanzare le frontiere della conoscenza,
invece Caio, a parità di condizioni, sceglie di lavorare nel mondo dell'Industria, perchè, al di là di tutte le difficoltà, è un ambiente intellettualmente stimolante, in cui quegli argomenti teorici che uno ha studiato li può vedere realizzati, può dirigere e gestire progetti, e ad un certo livello ha anche lui libertà di organizzare il proprio tempo, di orari e di ferie, di programmazione del lavoro, di scelta degli argomenti su cui fare ricerca e sviluppo, di interagire con colleghi e stagisti, di viaggiare per stabilire partnership, per workshop e conferenze, di far parte di una comunità internazionale di imprese che ha il nobile intento di far avanzare le frontiere della tecnologia applicata.

In pratica, uno ha il mito di Enrico Fermi, l'altro ha il mito di Adriano Olivetti (giusto per prendere due nomi a caso principalmente italiani, e non i soliti della Silicon Valley).

Le scelte sono personali, e a volte sono basate su capacità, attitudini, risultati raggiunti e 'condizioni al contorno' in cui sintetizzo tutte le variabili dell'ambiente esterno.

La situazione dei concorsi, truccati, non truccati, truccati con brio, truccati che sembrano non truccati e non truccati che sembrano truccati, etc., così come la situazione delle imprese private, in cui comanda il boss, non comanda il boss, c'è un progetto da seguire e un diagramma di Gantt con tempi strettissimi di consegna, non c'è un progetto e ognuno fa quello che vuole, diritti e doveri del personale, interazione in gruppi di lavoro più o meno variagati e con le loro dinamiche sociali, tutto questo rientra nelle variabili esterne, nel cosiddetto SISTEMA.

Quel che posso dire del SISTEMA, universitario o industriale che sia, è che mentre in passato era ben stabile e strutturato, e le persone potevano costruirci carriere e famiglia, e gli Stati ci potevano basare politiche economiche di lungo periodo, adesso è condizionato da così tante variabili esterne (globalizzazione, migrazioni, politiche sulle risorse energetiche, crescita demografica, ecologia, cambiamenti climatici, etc.) da divenire come minimo turbolento, se non addirittura aleatorio.

In un contesto turbolento, la risposta delle politiche economiche dei singoli Paesi è stata quella di aumentare la flessibilità, e quindi destrutturare i diritti delle persone, creando quindi frammentazione del mercato del lavoro, la precarietà fino alla cosiddetta GIG economy.

Se il SISTEMA, così com'è ti va bene, e sei disposto a tralasciare variabili come reddito, carriera, autonomia professionale, in favore di libertà di pensiero, possibilità di crescita intellettuale, libertà di orari, etc., perchè magari hai una tua fonte di sostentamento alternativa, o un aiuto in famiglia, naturalmente fai bene a fare le scelte che fai. Ma è una scelta tua personale.

Come dicevo nel precedente intervento, se il contesto è truccato, che significa che non ci sono regole certe, variabili ben definite su cui costruire carriera e futuro, sei in balia degli eventi, e perdi il controllo del tuo destino. Ne hai avuto prova con la modifica delle regole in 'corso d'opera' sui concorsi. Un domani potrebbero cambiare le regole che ti escluderanno definitivamente da ogni concorso, così come è successo anni fa quando istituirono la cosiddetta abilitazione per insegnare alle scuole superiori, che prima non c'era.

La natura fornisce un'arma di difesa da parte degli organismi, quando il sistema diventa turbolento. Si chiama 'resilienza'. Si diventa resilienti se il fulcro del proprio essere non è concentrato in un unico punto ma è delocalizzato su più componenti strategiche.
Traslato sulle capacità personali, la difesa del singolo di fronte ad un contesto socio-economico aleatorio è trasformarsi in un individuo-azienda o individuo-unitàdiricerca che ha al proprio interno tutti i mezzi produttivi e divenire dinamico non in funzione del sistema, ma in alternativa al sistema. Un po' come il surfista che cavalca l'onda senza restare immobile in un punto, ma spostando sempre il proprio punto di equilibrio, seguendo un proprio percorso, non quello stabilito da altri.

Tutti i sistemi naturali tendono alla resilienza, primo gradino verso i sistemi intelligenti autonomi.

Il protocollo TCP/IP, quello di internet, è un esempio di sistema resiliente. L'informazione trasmessa viene frammentata in pacchetti, instradata simultaneamente su più percorsi simultanei, fino a essere ricostruita a destinazione. Il sistema è molto più resistente ad attacchi esterni, perchè non esiste un centro, un instradamento precostituito, il percorso di trasmissione dati viene scelto di volta in volta sulla base delle condizioni di traffico e della verifica dell'arrivo a buon fine dei singoli pacchetti.

Quindi resilienza, come si traduce nell'individuo-azienda o nell'individuo-unitàdi ricerca ?

Occorre individuare quali sono le risorse messe a disposizione dall'università che sono indispensabili per fare ricerca e innovazione. Beh... pensandoci bene, a meno che uno non si trovi alla facoltà di biologia, o di medicina, i mezzi messi a disposizione sono per lo più un computer, una scrivania e un collegamento a internet (a volte neanche quelli). Quindi se uno si compra un computer e fa un abbonamento a internet, ha tutte le risorse per fare ricerca, infatti le pubblicazioni ormai sono disponibili ovunque.

Per avere tutte le gratificazioni intellettive del fare ricerca bastano quindi pochi mezzi, non è necessario sottostare a dinamiche di potere, concorsi più o meno truccati, valutazioni di idoneità, etc. Da lì naturalmente occorre intraprendere un lungo percorso che garantisca redditività e stabilità nel lungo periodo, che può essere un'avventura e si chiama fare impresa.

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@Feynman said:
Quel che posso dire del SISTEMA, universitario o industriale che sia, è che mentre in passato era ben stabile e strutturato, e le persone potevano costruirci carriere e famiglia, e gli Stati ci potevano basare politiche economiche di lungo periodo, adesso è condizionato da così tante variabili esterne (globalizzazione, migrazioni, politiche sulle risorse energetiche, crescita demografica, ecologia, cambiamenti climatici, etc.) da divenire come minimo turbolento, se non addirittura aleatorio.

In un contesto turbolento, la risposta delle politiche economiche dei singoli Paesi è stata quella di aumentare la flessibilità, e quindi destrutturare i diritti delle persone, creando quindi frammentazione del mercato del lavoro, la precarietà fino alla cosiddetta GIG economy.

Se il SISTEMA, così com'è ti va bene, e sei disposto a tralasciare variabili come reddito, carriera, autonomia professionale, in favore di libertà di pensiero, possibilità di crescita intellettuale, libertà di orari, etc., perchè magari hai una tua fonte di sostentamento alternativa, o un aiuto in famiglia, naturalmente fai bene a fare le scelte che fai. Ma è una scelta tua personale.

Disamina perfetta, ma non vedo come uscire dalla turbolenta università per entrare in un mondo del lavoro ancora più turbolento a causa del turbocapitalismo finanziario attuale possa costituire una soluzione sul piano personale nè tanto meno su quello sociale.

Più andiamo avanti, più vedo che sia soggettivamente sia comunitariamente, l'unica soluzione sarebbe una bella rivoluzione in stile messicano.
Chi sta trasformando vecchi proletari e vecchi borghesi in un unico precariato senza nè diritti, nè famiglia, nè patria, così come chi fa passare tutto questo per progresso inevitabile, dovrebbe essere messo al muro. Purtroppo, nè da ricercatore precario, nè da imprenditore di me stesso, potrei svolgere questo necessario compito.
E allora, per riprendere ancora "giù la testa", fra i due, "scelgo il mestiere che conosco meglio".

Ma poi, davvero vuoi farmi credere che lavorando in azienda guadagnerei tanto di più? Tanto da poter fare a meno di risorse extra e di aiuti in famiglia? Siamo seri....

Per avere tutte le gratificazioni intellettive del fare ricerca bastano quindi pochi mezzi, non è necessario sottostare a dinamiche di potere, concorsi più o meno truccati, valutazioni di idoneità, etc. Da lì naturalmente occorre intraprendere un lungo percorso che garantisca redditività e stabilità nel lungo periodo, che può essere un'avventura e si chiama fare impresa.

Buonasera. Se lavori davvero, non hai nè il tempo materiale nè, soprattutto, residue forze mentali e psichiche, per metterti a fare calcoli, ricerche, pubblicazioni (lo so ben io, che quando ero "baronizzato", ovvero dovevo lavorare a cose non interessanti solo perchè lo volevano le aziende che pagavano i progetti, non avevo la freschezza intellettuale necessaria a fare ricerca). Non a caso i primi scienziati sono stati, in ogni dove, i nobili perditempo, non gli impegnati borghesi.

Ecco anche perchè, se l'università vuole cercare di avere ancora degli scienziati fra i tanti scribacchini, deve garantire ai suoi ricercatori quelli che all'apparenza possono essere visti dal volgo "privilegi del giovin signore": tranquillità economica, libertà di "costumi".

Fra essere pagato per fare quello che mi piace e dover lavorare per potermi pagare un'attività di ricerca di tipo hobbystico (da mettere in concorrenza con i gnoccatravels, magari) dovri scegliere la seconda? Cioè, secondo te sbaglio a pagare i gnoccatravels con l'attività di ricerca e dovrei invece lavorare per pagare le mie pubblicazioni anzichè i miei gnoccatravels?

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@Beyazid_II

Rivoluzione, lavoro dipendente, ricerca per hobby, lavorare per finanziare l’hobby della ricerca...
Io veramente parlavo di altro, e credo d’essere stato totalmente frainteso, mi sembra quasi quella canzone ‘you say potato, i say tomato...’ piú o meno suonano uguale. 😂
Credo che la pensiamo diversamente, in bocca al lupo sinceri per la tua ricerca. 👍🏻

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QUARTO GRADO: DA MARSILIO FICINO A FRIEDRICH NIETZSCHE (4/18)

Ovvero: "LE DONNE, I CAVALLIER, L’ARME, GLI AMORI, LE CORTESIE, l’AUDACI IMPRESE"

Parte 4 di 18 : “Le donne: Claudia”

Esiste in ogni classe quella ragazza che, pur magari senza essere bella in maniera stravolgente, distanzia nettamente le altre per qualità estetica e tendenza ad attirare le attenzioni di compagni e professori. Ella, nel mio caso, fu, fin dall’inizio, la già citata Claudia.
Mora, piuttosto alta, decisamente slanciata ed elegante nella figura, poteva richiamare, ad un’immaginazione giovanile molto accesa, l’apparenza fisica dell’omonima Claudia Cardinale, magari figurata nelle vesti di Angelica al ballo immortalato dal “Gattopardo” di Visconti sull’omonimo romanzo di Tomasi di Lampedusa. Aveva però, nei modi, nelle moine, negli sguardi, qualcosa di più selvaggio e quasi “felino” (anche se non so quanto simulato e quanto innato), mentre in certi atteggiamenti, in certe movenze e nella voce bassa e quasi roca ricordava una versione al femminile del “molleggiato” Celentano. Chi avesse voluto denigrarla, avrebbe anche, volendo, potuto ravvisare in certi suoi “musi” (specie dopo che un compagno o un prof aveva deluso una qualche sua aspettativa o pretese), in certe sue “smorfie” (quasi periodiche), in certe sua studiate e ripetute lamentele sulle circostanze e sulla vita, il prototipo della “scimmia sacra” del templio di Benhares con cui Schopenhauer esemplifica l’atteggiamento, tipico dell’idolatrata “dama” occidentale, di chi si sente quasi onnipotente davanti a chi, invece, non può reagire come si farebbe con un uomo.

Ebbi subito modo di testare la sua capacità di “tirarsela” quando Emanuele, un nostro compagno, provò, già all’inizio della prima liceo, a farla uscire. Eravamo durante la "cazzeggiante" ora di disegno e, sottovoce, egli provava a proporle un programma variabile dal giro in bicicletta al cinema, dalle quattro chiacchiere al bar alla passeggiata. Ad ogni proposta, ella continuava a dire “noooo”, ma con non troppa convinzione respingeva quella "vicinanza" che Emanuele continuava con l’una o l’altra scusa a riprendersi. Sarebbe bastato, a quell’età, prolungare meno l’unica vocale e collegare alle corde vocali il cervello al posto della vanità, fino a dire “sei un amico, ma non voglio uscire con te. Non sei il mio tipo” o anche “voglio restare libera”. Se avesse detto questo, io, che inevitabilmente ascoltavo essendo seduto allo stesso tavolo da disegno, avrei anche potuto pensare di avere una speranza, essendo tipo totalmente diverso da Emanuele, sia come fisico, sia come sensibilità. A me certe confidenze volgari e certe insistenze da compagnone sono sconosciute, così come al contrario mi era già allora conosciuta la voglia di trattare la donna come una confidente di teneri sensi o un’interlocutrice romanzesca, piuttosto che come preda da sfoggiare con gli amici o come conquista da perseguire a prescindere dal sentimento. Viceversa, comportandosi così, Claudia mi diede due idee precise: in primis, era una ragazza perennemente annoiata e potenzialmente annoiabile da tutto e da tutti, la quale si negava più per modello comportamentale volgente all’aura di irraggiungibilità che non per voglia di restare libera per questo o quel principe azzurro; in secundis, si trovava bene con personaggi “ruspanti” all’opposto di me, che le permettevano, per contrasto, di apparire la “bella contesa”, la fanciulla dall’animo delicato e dall’intelletto raffinato non meritata dai “maschioni” rozzi e “contadini”.

Tipico esempio di questo genere di “tamarro” da strapaese era proprio Emanuele, “intellettuale” di sinistra fra i primi a farsi crescere la barba e a portare l’orecchino. Altro che radical chic, nel suo caso: si faceva vanto del dialetto e del legame col territorio emiliano rafforzato dall’essere un ultras del Bologna. Era raro vederlo non in coppia con il concittadino Nicola. Entrambi, assieme a Claudia, venivano da un comune limitrofo (in perenne guerra campanilistica con il mio su cui si trovava la scuola). Formavano un trio veramente da romanzo. Ma dei due era Nicola quello che capiva di più Claudia. Pur apprezzandola (come potei ben capire da come me ne parlava in privato quando, per le vicende della vita e dell’informatica, io e lui avemmo modo di passare diverso tempo insieme e di scambiarci confidenze), non concedeva nulla alla gentilezza e la trattava come una “seconda scelta”. La provocava sempre con battute non solo ineleganti, ma pure prive di un sia pur brutale apprezzamento per una bellezza che io, ad esempio, non avrei mai saputo far passare in secondo piano. E intanto ne sfruttava favori e consigli che con il tempo ella concedeva agli amici. Parecchi anni dopo, ad una cena, si permise pure la battuta “sì, io ho sia la donna – indicando la ragazza con cui stava in quel momento – sia la nonna – indicando Claudia”. Qualche anno fa, al solito ritrovo di classe, ella disse scherzando “Tu mi hai rifiutata!” “Cavolo, mi avevi proposto – dopo i 45”. “Noo, ti avevo detto un’età più ragionevole, 35…”.

Una volta ella si offrì anche a me. Eravamo, credo, in seconda ed io continuavo a desiderarla come il primo giorno di scuola. Non sono mai stato capace di puntare ad una ragazza che non fosse la più bella dell’ambiente. Non avevo però mai fatto nulla per avvicinarla, perché l’ultima cosa che avrei voluto era quella di confondermi con i tanti (compagni di classe e non) che provavano maldestramente a corteggiarla. Pensavo (forse a ragione) di avere la mia unica speranza nell’aria di superiore distacco verso i divertimenti mondani e di quasi ostentato disinteresse verso le ragazze, atteggiamento che, nei miei intendimenti, avrebbe dovuto “sconcertare” anche la più bella e rendermi “bello” a mia volta in quanto “distinto dagli altri”. Può inoltre immaginare il lettore come, ovviamente, quell’eccellenza nello studio che cercavo di raggiungere e soprattutto esprimere (con modi intellettualmente spesso “sopra le righe”) ad ogni occasione in tutte le materie era intesa anche quale “bellezza spirituale” e “primato micro-sociale” volti ad apparire desiderabile e “primo fra i ragazzi” agli occhi delle compagne più attraenti. Così, quando Claudia, non so quanto scherzosamente, si offrì, quasi riuscì ad urtarmi. Mi mostrò il diario con la foto del suo cantante americano preferito (non so chi fosse, ma, come viso, molto vagamente poteva assomigliarmi se non altro per il colore dei capelli e degli occhi) e mi disse “se mi prometti di diventare così….”. Non le feci neanche completare la frase con “…esco con te stasera” o “divento la tua ragazza”. Com’era possibile che uno yankee qualunque, capace solo di emettere suoni sgraziati (in una lingua, peraltro, che non ha la musicalità dell’andamento bimembre petrarchesco né l’elegante complessità del fraseggio boccaccesco) e, sicuramente, non aveva le mie capacità in fisica e in matematica (le due materie che, allo scientifico, costituivano le “sfide regine” per i “competitors” come me), potesse essere preso quale “modello” da raggiungere per me? E ripeto “per me”? Le dissi che io mi sentivo già “sopra a lui di n-livelli, per quanto riguarda le caratteristiche qualificanti un uomo”. Mi mandò a quel paese visibilmente delusa, non so quanto sinceramente.

Non ci furono altre occasione di avvicinamento sentimentale fra me e lei. Durante le gite scolastiche, con i suoi occhiali scuri, con i suoi jeans attillati e arrotolati al polpaccio e il suo rossetto fucsia, pareva la classica “figa di legno” contro cui si sparla sul forum. Non notava di striscio né noi, né alcun altro. I miei rapporti con lei erano cordiali. Ella era costretta ad avere stima di me, in quanto, specie con lo scorrere degli anni, avevo sempre più consolidato il primato tanto nelle discipline scientifiche quando in quelle umanistiche, e le sue evidenti arie da “intellettuale” (era pur sempre la più brava fra le ragazze) non le consentivano di trattarmi come avrebbero tranquillamente fatto le sue coetanee le quali si contentavano dell’arma della bellezza sensibile, senza volervi unire quella intellettiva. Io, di contro, per quanto irascibile e poco accomodante, ero pur sempre un cavaliere sensibile alla bellezza, e non avrei mai disdegnato di mettere le mie doti culturali al servizio di una dama capace di apprezzarle. Discutevo dunque volentieri con lei, quando mi chiedeva chiarimento sulla lezione di filosofia o sul teorema di matematica. Non ho mai capito se certi suoi sorrisi e certe sue boccucce compiaciute fossero solo abitudine o se denotassero il persistere di un sia pur minimo interesse nei miei confronti. Quando entrambi eravamo già da un anno iscritti alle rispettive università, alla prima cena di classe (come avete capito, ce ne sono state tante, dopo la maturità…) mentre a piedi con tutti gli altri passeggiavamo dalla piazza alla pizzeria (i soliti tragitti dell’età felice) si avvicinò quasi saltellando verso di me per raccontarmi della semiotica e di quanto mi sarebbe piaciuta la sua parte più “filosofica”. Già due anni dopo, discutendo all’ennesima cena assieme a Nicola, si era fatta più altezzosa anche intellettualmente . Sostenevo, contro il mio amico marxista, Marx dovesse essere incluso fra i grandi economisti prima che fra i grandi filosofi, essendo la sua teoria economica “genuina” pienamente scientifica, ma essendo, di contro, la sua parte filosofica un mero fraintendimento dell’hegelismo (già di per sè un mare di merda) condito da elementi positivisti del tutto superati dalla stessa scienza e da un umanesimo privo di quello spessore filosofico presente nell’originale rinascimentale (e pensavo ovviamente a Marsilio Ficino). Claudia intervenne con supponenza sentenziando che, poiché “lo aveva studiato”, poteva dire che aveva ragione Nicola. Capii quanto male possa fare all’animo delle persone l’istruzione “filosofica” a livello accademico, con la sua illusione di arrivare prima alla verità solo perché guidata da percorsi di studio codificati, la sua incapacità di comprendere diverse strade e diversi pensieri (come quelli intrapresi da chi studia gli argomenti per “amore del sapere” appunto e non per passare un esame), il suo rifiuto, insomma, per qualsiasi conoscenza sia costruita autonomamente e non sia a sua volta “accademica”. O forse, capii solo che, al di là dei dichiarati affetti (parlava sempre con le parole e il tono della vecchia amica felice di re-incontrare i vecchi compagni di classe) era semplicemente la classica melanzana che se la tira non solo nel corpo ma anche nell’intelletto. Per fortuna che a scuola l’avevo sempre ampiamente battuta (e non ero il solo: fu sesta alla maturità, dietri a me, encomiato, e ad altri quattro cavalieri col massimo dei voti). Non invidio i suoi attuali colleghi di lavoro.

Qualche anno dopo, fu ancora protagonista di un paio di interventi che non mi piacquero. Aveva appena finito di raccontare come, assieme a Francesca, avessero evitato una multa facendo gli occhi dolci all’agente di polizia di turno (ed era anche lei figlia di un poliziotto!). Io facevo notare che, con agenti (o con professori) più rigorosi, ciò non avrebbe funzionato, ma ella replicava che “ai tempi della scuola ero davvero tanto ingenua, adesso capisco tante cose anche dei nostri professori che allora non vedevo, adesso saprei bene come superare brillantemente le interrogazioni di filosofia o di matematica!”. Parlando poi con una nostra ex- compagna che si stava per sposare (e magnificava le virtù del “conto corrente in comune”), le raccomandava (forse anche ironicamente), di mantenere la propria indipendenza per “non farsi sottomettere dall’uomo”. I due interventi erano chiaramente in contrasto dal mio punto di vista. Proprio perché quanto aveva appena prima narrato sulla "debolezza maschile" (ma io preferisco chiamarla "sensibilità alla bellezza" ed" ingenuità di disio", poiché da essa possono derivare, testimoni i poeti, le più raffinate squisitezze intellettuali e le più delicate soavità sentimentali) è in parte vero [NOTA : e della situazione nell'amor naturale, in cui, mentre l'istinto maschile è disiare in ogni creature femminina la bellezza con la rapidità del fulmine e l'intensità del tuono non appena essa appare ai sensi nelle grazie corporali, conformemente alla necessità di propagazione della specie, quello femminile è sentirsi in ogni dove belle e disiate per attirare quanti più maschi possibili, metterli alla prova e scegliere chi eccelle nelle doti volute, conformemente alla necessità di selezione della specie, continua per sublimazione ad essere la femmina a scegliere e decidere e il maschio a seguire e faticare per essere scelto anche in molto altro, se non intervengono opportuni freni e compensazioni], tutte quelle mirabili strutture dell'arte come della religione, della politica come della storia, del pensiero come della società, che la demagogia femminista ha convinto oggi a smantellare in nome di una finta uguaglianza, e che i più forti e saggi fra gli uomini fondatori di città e civiltà avevano storicamente concepito (anagogicamente per misurare i millenni e non essere raggiunte dai contemporanei né superate dai posteri, ed eudemonicamente per avere la stessa libertà di scelta e la stessa forza contrattuale in quanto più conta innanzi alla natura, alla discendenza ed alla felicità individuale) non costituivano "oppressione della donna" ma "giusti e umani bilanciamenti per l'uomo libero e felice".

Nonostante tutto, anche con il passare degli anni (e ogni tanto di qualche chilo, che comunque sul suo fisico quasi statuario non si è mai notato più di tanto) è sempre rimasta quella che si suol dire “una gran figa”.
Andai anche (con gli altri) al suo matrimonio. Avevo da pochi anni la mia serie 3 BMW nero metallizzato, sei cilindri, duemilaecinque benzina iniezione, cerchi in lega BBS a raggi classici, modanature cromate, sempre (allora) in garage, bellissima. L’occasione mi permise di esibirla, divertendomi anche, con la scusa del carosello per gli sposi, di fare qualche sgommata e qualche piccolo traverso sfruttando la trazione posteriore. Ella sposò il suo ragazzo dei tempi del liceo (che in effetti un poco mi assomigliava, sia fisicamente sia come percorso di studi – allora forse non scherzava quella volta!), un poco invecchiato e ingrassato, ma ancora "passabile". C’erano le partite dei mondiali 2004 ed entrambi ci eravamo laureati da pochi mesi. Fu lì che avvenne (me testimone) per scherzo la proposta di offrirsi a Nicola se fosse andata male con il marito….
Fu una bella cerimonia in un parco verde con tanto di maxischermo per partite e scherzi al neosposo (gli si prospettava una vita coniugale in cui avrebbe dovuto sia lavorare sia fare il casalingo: fortunato io allora a non essere stato scelto quel giorno al suo posto!). Quanto ricordo ancora di quella cerimonia è l’indimenticata “Maracaibo” delle “23 mulatte che ballan come matte” in una “casa di piacere per stranieri”. A buon intenditor poche parole.

A proposito di storie strane, non nego che continuai a fantasticare su di lei. Mi immaginavo dieci anni dopo, io ricco e affermato, lei in difficoltà con i debiti di famiglia, a fare la parte del fascinoso Robert Redford con una “Proposta indecente” per salvare la sua situazione. Mille, cinquemila, ventimila euro? Chissà, il sogno non mi poneva limiti sulle possibilità economiche che un ingegnere laureato con lode e in corso poteva aspettarsi di avere a medio termine, mentre il ricordo di quella sua antica proposta mi permetteva di pensare che il bisogno di denaro avrebbe soltanto mascherato (come appunto nel film) un desiderio proibito anche da parte sua. E comunque chissenefrega, chi era dietro di me, mediamente di uno o due voti, doveva avere meno potere erotico-contrattuale persino nei sogni! Il mio desiderio, almeno da un punto di vista fisico, era ancora intenso verso quel corpo slanciato da indossatrice, quei capelli lisci e neri da quasi da moderna "Lucia manzoniana" e quegli occhi altrettanto neri così perfetti sul suo “viso di perla” (era sempre stata di carnagione chiara a contrasto con l’oscuro delle sue chiome).
Mi era sempre solo rimasto un dubbio sulle sue gambe. L’avevo sempre vista in pubblico solo con i pantaloni. Un fisico slanciato come il suo doveva, nella mia immaginazione, essere completato da un paio di gambe memorabili. Eppure le vidi una sola volta, ed in un’occasione così particolare da non rendermene neppure conto. Eravamo in seconda o in terza e ad una festa a casa di Matteo un particolare gioco di società “dame-cavalieri” prevedeva che i maschi, piuttosto che i cavalieri, facessero i “cavalli”. Le ragazze, piuttosto che le “dame”, dovevano fare di noi quello che la Margherita del romanzo di Bulgakov fa con i funzionari del partito (usarli cioè come mezzo di trasporto). Ed a me toccò proprio Claudia (chissà se quel perverso di Matteo l’aveva fatto apposta per farmi un favore immaginando i miei gusti…). Ero ancora troppo ingenuo apprezzare le implicazioni psicologico-sessuali della situazione. Più o meno come il protagonista delle "Confessioni di un Italiano" quando da piccolo veniva “cavalcato” dalla Pisana. Per l’assoluta inesperienza a quell’età, non riuscii ad approfittarne nemmeno troppo per guardarle bene le gambe, che per la prima ed unica volta erano in mostra grazie ad una bella gonna non certo lunga. Così, a distanza di dieci o magari venti anni da quell’innocente episodio fra minorenni, una proposta indecente avrebbe potuto essere un modo per avere accesso privilegiato anche solo alla vista e al contatto delle sue gambe. I giochi perversi si abbinano bene alle situazioni in cui denaro e bisogno si scontrano e si scambiano.

Non potevo immaginare che le ingiustizie della vita avrebbero portato con maggiore probabilità alla situazione opposta. Difatti, proprio sette anni dopo il suo matrimonio (e si dice di crisi!) la rividi in una delle eternamente ritornanti cene di classe (ormai ambientate nel capoluogo e non più nel paesello, date le sedi di lavoro dei vecchi compagni). Era appena arrivata in auto da Como, dove lavorava distaccata come manager di un’azienda di abbigliamento. “Zio c..(Davide ha sempre iniziato ogni discorso con una bestemmia)…se ti fanno viaggiare così vuol dire che ti pagano”. Ella raccontò come fosse scomodo fare spesso avanti-indietro da così lontano, ma come i rimborsi per tali trasferte fossero generosi. Io ero invece appena tornato da una delle mie gite in montagna, che in quel periodi intraprendevo anche in infrasettimanale per dimenticare lo stallo della mia situazione accademico-lavorativa [NOTA: dopo dieci anni di precariato universitario a vario titolo - durante i quali, illuso dalla prospettiva di prestigio propria all’accademia, avevo accettato di fare da assistente-supplente abusivo nei corsi, segretario de facto compilatore di registri e formattatore di pc, consulente in lavori extra-scientifici aventi il solo fine di portare parcelle extra – i fondi per gli assegni di ricerca stavano terminando ed io non sapevo dove buttare oltre la mia vita: l’eccellenza dimostrata negli esami era ormai troppo lontana dietro di me per poterla sfruttare come presentazione verso l’esterno, e una nuova eccellenza da dimostrare con le pubblicazioni era ben di là da venire. Non solo, infatti, ero stato malamente distratto dalla ricerca ad opera del baronato, ma anche il tempo dedicato ad essa era stato speso malissimo, fra argomenti estemporanei inventati di sana pianta solo per dare un tono di scientificità a lucrose collaborazioni con aziende ed altri più analitici ma assolutamente residuali rispetto al flusso principale della ricerca, gli uni e gli altri noiosissimi, con un pessimo rapporto fra fatica da spendere e rilevanza di risultati ottenibili - come sempre avviene per i lavori incrementali, quando cioè la parte interessante e divertente è già stata affrontata e si lascia il resto ai dottorandi, e per i temi campati in aria, laddove il povero dottorando deve inventarsi anche le fondamenta di un edificio destinato a non interessare quasi nessuno – e soprattutto imposti dall’alto prescindendo dalle mie doti e dai miei interessi. Non avevo mai avuto vere motivazioni ad impegnarmi come ai bei tempi da studente e da primo fra i primi ero finito ultimo fra gli ultimi, in una sorta di testacoda esistenziale. Potevo forse, con qualche buon ufficio, fare il post-doc da qualche parte in Germania sperando non fosse troppo tardi….]. Vivevo ancora bene perché ero sempre figlio dello stesso papà, ma per quanto sarebbe potuto durare? Non potendo aumentare i guadagni, cercavo almeno di ridurre i miei costi in termini di tempo e per questo spesso e volentieri partivo solitario per qualche via ferrata sulle Dolomiti, piuttosto che perdere tempo su attività che mi facevano venire la nausea e sapevo non mi avrebbero portato da nessuna parte né come profitto economico né come prestigio scientifico. Avevo, in compenso, con uno stile di vita fatto di insalate a pranzo, palestra quasi tutti i giorni e montagna tutti i weekend (e oltre), asciugato molto il mio fisico, fino a raggiungere una forma che non avevo mai avuto nemmeno da teenager (quando lo "studio matto e disperatissimo" mi rendeva sempre un po’ troppo goffo e paffutello).

Ecco allora che, rivedendo lei sempre più figa e sempre più in tiro (quella sera aveva un elegantissimo completo scuro di tailleur e pantaloni), mi venne una pazza idea. E se mi proponessi come suo “toy-boy” o amante sportivo/intellettuale mantenuto? Del resto, una pornostar ungherese mi aveva appena insegnato la dannunziana arte del cunnilingus! Anche fare lo schiavo sessuale a tempo (dietro compenso ovviamente, come in una proposta indecente a ruoli invertiti, appunto) di una siffatta donna in carriera non mi sarebbe dispiaciuto. Mah, forse anche così “allenato” fisicamente e non corrotto intellettualmente (il tipo di lavoro all’università mi aveva permesso di preservare la mente ancora fresca, ancora amante della letteratura, del libero pensiero, della cultura come nobile “cazzeggio” e non come dovere plebeo, al contrario di quanto capita a chi svolge lavori “full immersion”, assorbenti non solo tutto il tempo della vita, ma soprattutto tutti i pensieri, le idee, i gusti e gli stili) non ero abbastanza per una bella donna, soprattutto in Italia. Mi ricordo come fosse ieri che aveva appena piovuto ed io avevo ancora i capelli umidi dalla veloce doccia (ero sempre di corsa in quel periodo fra gite e palestre). Avevo anche contratto un leggero mal di gola e mi sentivo debole. Provai per un attimo ad andarle vicino per capire che effetto mi facesse immaginarmi suo “cavaliere”. Le scarpe con il tacco quadrato la facevano sensibilmente più alta di me, tanto che, per mirarle il viso, ero costretto ad allungare leggermente il collo verso l’alto come a spiare “nell'aria lontana/ il viso della creatura/ celeste che ha nome/ Luna, con la collana/ sotto il mento sì chiara/ che l'oscura”. Provai un brivido, proprio come l’Ermione del “Novilunio di Settembre”, in quella notte umida come la “sera di giugno dopo la pioggia”. Se a Firenze lungo l’Affrico D’Annunzio poteva invocare la luna con “O in mille e mille specchi sorridente/ grazia, che da la nuvola sei nata/ come la voluttà nasce dal pianto”, io fra i viali alberati di Bologna, dovevo rimanere silente vicino ad una luna che non sarebbe mai stata mia, con un desiderio sottilmente perverso e decisamente voluttuoso che quasi mi faceva aggiungere lagrime alla pioggia. In compenso parlava ella. Non pareva aver avuto grandi difficoltà nell’emergere professionalmente. Forse era vero che per fare carriera era svantaggioso essere veramente al top da studente, come avevo preteso di essere io.... Perché magari le multinazionali preferiscono (come mi venne detto a suo tempo portandomi l’esempio di un compagno di corso bravino, ma noto a tutti più per essere furbo e fortunato che non studioso) il neolaureato bravo ma non troppo, in modo da poterlo plasmare alla mentalità aziendale. Ella aveva sempre rappresentato tale versione al femminile (“brava è brava, lasciatela parlare” disse di lei la professoressa di Italiano alla prima interrogazione, dove ella prese sette attenendosi strettamente al compitino, mentre io, poco dopo, volli stupire il mondo di allora con un roboante nove ottenuto collegando alcuni passaggi del Frankenstein di Mary Shelley all’idealismo romantico filtrato dall’illuminismo leopardiano: devo avere ancora da qualche parte quel tema a casa…).

Dai suoi racconti pareva che il suo problema lavorativo principale non fossero, come nel mio caso “i vecchi”, e “il nonnismo” (nel mio caso si doveva dire “baronato”), ma i “giovani”, i colleghi sempre così pronti a prepararle mille insidie per procurarsi un’avventura. Ecco un’altra conferma di quanto pensavo sulla fallacità del vittimismo femminil-femminista. Proprio perché la donna gode del privilegio di natura e quindi di cultura d'esser universalmente mirata, amorosamente disiata, socialmente accettata per quello che è - bella (quando la bellezza manca o è mediocre supplisce l'illusione del desiderio) senza bisogno di dover mostrare altre doti o di compiere imprese particolari (cui sono invece costretti i cavalieri i quali senza esse restano puro nulla socialmente trasparente), il fatto di non avere sempre il femminista 50 e 50 non dipende da discriminazioni (del genere: "non ti permetto di svolgere questo mestiere perché sei una donna" o "anche se fai questo lavoro a parità di competenza e straordinari ti pago meno perché sei nata femmina"), ma dal tentativo umano e disperato dell'uomo di compensare con lo studio, il lavoro, la fama, il successo, la ricchezza, la cultura, il potere, la fatica, il merito o la fortuna individuali tutto quanto (in desiderabilità e influenza sul mondo) alla donna è dato delle disparità di desideri nell'amore sessuale e da quelle psicologiche correlate alla predisposizione all'esser madre (se un uomo non raggiunge una certa posizione di preminenza o prestigio sociale resta negletto dalle donne, perché non è in grado di rappresentare ai loro occhi "la miglior scelta", "il miglior padre per la futura prole", l'eccellenza nelle doti qualificanti la specie e per questo desiderabili simmetricamente alla bellezza femminile, e trasparente per la società, perché non può nemmeno contare su quel modo di influire sulle cose e sugli uomini proprio della donna, agito, a prescindere da cultura e società nei ruoli comunque presenti di madre, moglie, sorella, amante, amica, confidente, per tramite di quanto negli uomini vi è di più profondo e irrazionale e notato persino da Rousseau).
Ed io stavo provando sulla mia pelle l’infelicità di quella situazione che, nelle mie teorie, continuavo a ritenere doversi fuggire come la peste da parte di ogni uomo saggio. Altri uomini meno disperati di me l’avrebbero forse avuta (magari al top management della multinazionale), non io. Capii in quel momento che non ero all’altezza né fisicamente né socialmente.

Tre anni dopo, tornato dalla Germania ed iniziato ad arrampicare seriamente, ci fu l’ultima cena di classe che ricordi. Mi trassi una piccola rivincita. Ero sempre in perfetta forma fisica (e tornavo non dalle ferratine dei miei inizi alpinistici, ma da un’impegnativa via di quinto grado sulle Pale di San Martino) e, per fortuna, avevo risolto qualche problema accademico-esistenziale (la situazione di precarietà era seria come lo è adesso, ma non più disperata come prima: finalmente i baroni, prossimi alla pensione, avevano capito…). Mi ero re-innamorato del lavoro di ricercatore iniziando daccapo in un istituto straniero (contando innanzitutto, come i bei tempo sullo studio solitario) ed ero tornato in Italia (finalmente nelle condizioni di poter decidere autonomamente modi, argomenti e ritmi) pronto a competere senza più timori reverenziali verso chi aveva (ed ha) più numeri (e più alleati), ma non per questo più capacità. Il ringiovanimento mentale doveva trasmettersi anche all’aspetto, dato che Claudia, alle solite osservazioni corali (ma non è cambiato niente in quasi vent’anni, siamo sempre le stesse facce) esclamò verso di me “piuttosto …. sembra che tu abbia…25 anni!”
“Eh, ragazzi, c’è un motivo….voi lavorate….”.
Se ad altri la vita ha sorriso per soddisfazioni professionali ed economiche, a me stava per iniziare a farlo nella questione più importante: la conservazione della libertà e della giovinezza. Gli unici due valori che valgano più del denaro anche oggi (perché in nessun tempo possono essere “riguadagnati” una volta mal spesi). D’altronde, lasciatemi dire che davanti ai miei vecchi compagni, come primo della classe, me lo merito (se solo gli stipendi all’università fossero più lauti, la mia scelta, maturata per caso e quasi controvoglia, sarebbe oggi perfetta!). Ed è con questa soddisfazione che saluto la bella Claudia (la quale avrebbe forse fatto meglio a scommettere su di me, quella volta, senza chiedermelo!).

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Ehilà B, dai uno strano senso di cavia nei tuoi racconti. Tendi a descrivere le tue relazioni con l’ambiente e le persone come se registrassi un esperimento in cui tu, il topo bianco, viene stimolato rispetto alla popolazione di topi grigio/marroni in diversi momenti di cui vengono campionati gli umori

Sembra veramente tu stia parlando di te stesso al liceo e a 40 anni come della stessa persona

Eppure l’evoluzione temporale di un carattere e del suo fisico e delle sue aspettative o aspirazioni dovrebbe mutare.

Per quanto mi sforzi di pensare realmente a una ragazza che mi sia piaciuta al liceo, non posso fare a meno che valutarla quello che era, una ragazzina. Tanto meno provo interesse a conoscere il destino di un compagno, un professore o qualsiasi altra persona del decennio della mia adolescenza, qualsiasi cosa sia successa

Questa dimensione dei ricordi di un biotopo scomparso sembra una massa informe catalogata e inserita nel Davia Bargellini

Sei sicuro amico B di poter mettere insieme la Claudia del liceo con quella della di oggi? Non è che stai sbagliando la frequenza di campionamento? Siamo davvero capaci di disegnare la formula della donna Claudia al tempo t con qualche onda e pochi campioni? Siamo passati da fourier?

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@Tesista76 said:
Ehilà B, dai uno strano senso di cavia nei tuoi racconti. Tendi a descrivere le tue relazioni con l’ambiente e le persone come se registrassi un esperimento in cui tu, il topo bianco, viene stimolato rispetto alla popolazione di topi grigio/marroni in diversi momenti di cui vengono campionati gli umori

Sembra veramente tu stia parlando di te stesso al liceo e a 40 anni come della stessa persona

Eppure l’evoluzione temporale di un carattere e del suo fisico e delle sue aspettative o aspirazioni dovrebbe mutare.
Per quanto mi sforzi di pensare realmente a una ragazza che mi sia piaciuta al liceo, non posso fare a meno che valutarla quello che era, una ragazzina. Tanto meno provo interesse a conoscere il destino di un compagno, un professore o qualsiasi altra persona del decennio della mia adolescenza, qualsiasi cosa sia successa

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Caro Tesista,
innanzitutto grazie per aver voluto leggere e commentare questa puntata del romanzo. Mi fa sommo piacere esser involontariamente riuscito in quell'intento di "osservazione sperimentale" e di "oggettività" a cui non erano giunti nemmeno i romanzi positivisti e veristi!
Complimenti poi per aver così ben centrato il punto. In un mondo "normale", una persona "normale" dovrebbe evolversi temporalmente sia nello spirito sia nel fisico (ma forse qui dovremmo dire invecchiare...). Purtroppo, come abbiamo avuto modo di discutere altrove, l'Italia odierna (e con essa forse gran parte del mondo occidentale) non è un paese normale e, come si evince da quanto narro di me stesso, io stesso sono ancor più "anormale".

Già la mia generazione, anche quando formalmente lavora, vive ancora, de facto, sulle "spalle" dei genitori (in una versione rovesciata dell'immagine di Enea che trascina il padre Anchise). Da sola, economicamente parlando, non potrebbe reggersi in piedi (del resto, è uno dei risultati di cinque lustri di "austerity"). Antropologicamente, nessuno di noi sarà veramente padre o madre ( per quanti figli possa generare biologicamente!), semplicemente perchè non solo il mantenimento dei figli, ma neppure il mondo e le sue regole saranno mai frutto del nostro lavoro e del nostro pensiero. Tutto (a partire dagli "Immortali principi", pseudoumanitari e politicamente corretti - ma "eticamente corrotti", come dice Fusaro - secondo cui saremmo costretti a crescere eventuali figli) è stato deciso prima che nascessimo e durerà (purtroppo) anche dopo la nostra morte, stabilito in guerre che non abbiamo nemmeno avuto occasione di combattere.

Fuori dal microcosmo individuale, siamo solo gli spettatori dei fuochi d'artificio del consumismo e dei turbini capitalisti. Cambiano i giochi e i mezzi di comunicazione, ci sono facebook ed istagram invece dei videogiochi spacciati tramite floppy e del passaparola tramite disegni e scritte sui muri della scuola, ma siamo rimasti sostanzialmente tutti "alunni" preoccupati di piacere alle compagne e di non farci rimproverare dal docente per un tema "politicamente" o "sessualmente" scorretto. L'ossessione di capire "cosa vogliono le donne" (su cui anche qui ruotano interi topics) o "come fare per essere da esse notati, scelti e apprezzati rispetto agli altri" (topic in cui eccelleva il compianto @flautomagico) e la minaccia di essere socialmente esclusi per un'opinione "misogina" (vedi il recente caso Strumia) o "razzista" (chi avesse il coraggio di rilevareanche solo i danni oggettivi generati dalla cosiddetta internazionalizzazione dei corsi riceverebbe più critiche e indagini di Salvini) dimostrano fino a qual punto ci sentiamo tutti in fondo "dietro i banchi" (e col terrore di finire dietro la lavagna). Purtroppo il fatto che i sessantottini rimangano, socialmente e culturalmente, ancora "in cattedra", implica per tutti noi il restare "eterni maturandi".

Da un punto di vista più strettamente personale, poi, come ho reagito? Non avendo ricevuto l'addestramento adeguato a rivoltarmi in armi contro questa ingiustizia generazionale (che da un punto di vista economico è specificatamente italiana, ma da un punto di vista valoriale ed esistenziale è globalmente "occidentale"), mi sono adattato a rimanere indefinitamente "figlio", anzi, meglio, "figlio unico".
Da quando ho capito come lo studio matto e disperatissimo, in cui avevo da fanciullo e da adolescente riposto ogni speranza di affermazione nel mondo, ("raggiungere una posizione nella quale essere univarsalmente mirato, socialmente accettato ed amorosamente disiato al primo sguardo e a prescindere da tutto, come le belle donne lo sono per le loro grazie") e a cui avevo sacrificato ogni divertimento ed ogni sentimento, non avrebbe fatto partire alcun "ascensore sociale", ho cercato di "recuperare il tempo perduto" vivendo probabilmente in maniera ancor più adolescenziale rispetto agli anni precedenti.

La ferocia quasi "disumana" con cui, da quasi quindici anni, bado a non sottrarre nemmeno un minuto del mio tempo alle occasioni per fare e pensare solo quanto davvero mi appaga, mi diverte, mi fa sentire vivo, e oserei dire, "compie" la mia natura (ciò che insomma, di norma, si fa in giovinezza) è pari a quella con cui nei venticinque anni precedenti (quando la gente normale si è semplicemente divertita) avevo monacalmente e "con maturità" perseguito eccellenza e dovere nello studio e nei sacrifici correlati. La brama di vita ha sostituito quella di conoscenza.

Così, nel mio caso, il patto col diavolo di Dorian Gray non ha solo mantenuto intatta la mia immagine esteriore, ma pure quella interiore. Riconosciuto l'errore dovuto alla mia cecità nei confronti del mondo capitalistico e delle sue vane speranze, mi sembra di essermi appena svegliato da un'allucinazione e mi sento ora poco più che ventenne. Anzi, il mio rifiuto ultraventennale di accettare le forche caudine del corteggiamento (dovuto anche ad un trauma vissuto che non voglio anticipare) mi ha lasciato, nell'animo, ad un'età fra i quattordici ed i diciannove per quanto riguarda il mio rapporto con le ragazze. Scopro insomma solo ora il "mondo" cantato dagli 883 di "sei un mito" o di come mai", che non avevo mai ascoltato preferendovi Dante e Petrarca.

I miei compagni e le mie compagne di classe hanno fatto tendenzialmente lo stesso (anche se magari non con le medesime intensità e consapevolezza). Quella classe non si è ancora sciolta!

Per anni e anni abbiamo continuato materialmente, a vederci e ad uscire assieme a gruppi più o meno rappresentativi. Periodicamente, abbiamo sempre organizzato "cene di classe" (l'ultima, qualche settimana fa, è stata da me disertata perchè ho preferito non dover spiegare pateticamente i motivi per cui alla soglia dei quaranta mi trovo ancora precario: "da primo della classe ad ultimo nella vita" non suona bene come racconto).

Sei sicuro amico B di poter mettere insieme la Claudia del liceo con quella della di oggi? Non è che stai sbagliando la frequenza di campionamento? Siamo davvero capaci di disegnare la formula della donna Claudia al tempo t con qualche onda e pochi campioni? Siamo passati da fourier?

Se la Claudia di oggi arriva ad affermare che la Claudia del liceo avrebbe dovuto essere ancora più gattamorta per ottenere ancora più vantaggi, significa che stiamo parlando di due melanzane indistinguibili.

Attenzione poi all'analisi di Fourier nel caso del campionamento aletorio. Non cadere nell'errore in cui è evidentemente sprofondato il mio inconscio romanzesco!
Il tempo della vita non ammette un campionamento regolare (quanto viene campionato nel periodo più delicato per la psiche e più fertile per la formazione, quello che con voce dantesca possiamo chiamare "vita nova", ha valenza molto maggiore di quanto viene colto negli anni "maturi"). Non c'è alcuna frequenza di Nyquist. E quando il campionamento è random, supporre costante l'intervallo fra i campioni in fase di ricostruzione porta ad assurdi.

Abituato a vedere Claudia e gli altri sei volte a settimana per otto-nove mesi all'anno per cinque anni, il mio inconscio ha iniziato a dare per scontato che l'intervallo di campionamento fosse sempre di 86.400 secondi.
Ecco perchè. dopo averla rivista una decina di volte nei venti anni successivi, mi fa parlare di lei come fossero passati solo dieci giorni dalla fine della maturità!

P.S.
Il risultato è la convoluzione fra la Fourier trasformata di Claudia e quella della product intensity function del processo puntuale che modella gli istanti di campionamento.

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@Beyazid_II said:
P.S.
Il risultato è la convoluzione fra la Fourier trasformata di Claudia e quella della product intensity function del processo puntuale che modella gli istanti di campionamento.

Forse volevi dire la convoluzione tra la trasformata di Fourier di Claudia e la Point Spread Function, che se fosse una gaussiana vorrebbe dire semplicemente che la vedi un po’ sfocata, forse perché con gli anni calano le diottrie. 🤓

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@Tesista76 said:
Possibile che tu sia sedotto dal mainstream indy? Trovo confortante avere una barba, ed i tenenbaum mi sono piaciucchiati, purtroppo le mie radici affondano anche al sud e l’infanzia si tagliava presto con la precocità della miseria, tuttavia ti leggo affascinato

Talmente poco sedotto che non so neanche cosa sia. Semplicemente, da liceale, volevo distinguermi dai compagni e non ascoltavo musica leggera. Anzi, non ascoltavo musica proprio (del resto, educazione musicale non era nel programma del liceo gentiliano....). La musicalità dei sonetti di Petrarca e delle stanze del Poliziano mi bastava. Successivamente, sono diventato melomane dopo essermi innamorato della Tosca raccontata dal prof di filosofia (la versione cinematografica romanesca di Luigi Magni si iscrisse poi poco dopo molto profondamente nel mio vissuto). Solo recentemente, alla soglia degli "anta", per la necessità e la voglia di conoscere "cosa ho perso" rinunciando ad essere giovane assieme ai miei contemporanei (come si evincerà dalle pagine di questo romanzetto, mi sono a suo tempo sempre considerato vivente non nel presente ma nella "ideale comunità dei dotti di ogni epoca", per me ternamente presieduta da Pietro Bembo...), ho iniziato ad orecchiare (e inevitabilmente a riconoscere) la musica leggera di vent'anni fa (chissà, magarei se l'avessi ascoltata allora avrei avuto qualche punto di contatto in più con le mie coetanee e non sarei diventato misogino...).

Pochi anni di differenza e una geografia diversa pare ci facciano appartenere, antropologicamente, a due differenti generazioni. Il tuo richiamo alla miseria che taglia con precocità l'infanzia mi ricorda Ferdinand Celine, quando sostiene che noi privilegiati borghesi cresciuti sui romanzi, con emozioni da teatro vissute non per esperienza ma per lettura, rappresentiamo un'eterna irrealtà, mentre la realtà è vissuta solo da chi "ha provato almeno una volta la paura di cosa accadrà quando non abbiamo i soldi per pagare alla cassa quanto abbiamo preso dallo scaffale...."

Spero si riconoscerà che io almeno, a differenza della classe intellettuale dominante, so di essere stato un privilegiato e non taccio chi non lo è di essere un "analfabeta funzionale" solo perchè la narrazione della mia irrealtà diverge dalla realtà con cui si deve scontrare "l'altro popolo".

A tal punto ho vissuto intensamente gli anni del liceo, che, giustamente, tu noti quanto mi senta ancora tale e quale e tali e quali veda ancora compagni e compagne. Proprio perchè sono stato abituato a vivere nell'irrealtà, la Claudia del liceo non è una "ragazzina", ma "la donna" nella sua concezione atemporale tipica dell'adolescenza. E così Elisa non è una "avventura mancata" da adolescente, ma "l'amata immortale" che riempie le pagine centrali della mia vita. Proprio perchè questa è vissuta tramite il filtro dei romanzi letti per suggerimento scolastico e percepita mediante i sentimenti descritti da otto secoli di poesia italiana.

Affascinante? Forse come ogni fenomeno strano, ma non so se sia un fatto da ammirare. Da giovane ho vissuto sempre nell'attesa (di mettere im pratica quanto studiato per affermarmi socialmente) ed ora mi rendo conto che la "vera vita" (intendendo con tale espressione il periodo dell'esistenza che forma le nostre categorie di pensiero e in cui soprattutto si concentrano le gioie e i dolori) è già alle mie spalle. La scrittura di questo romanzo è la presa di coscienza del fatto che ormai, sciolto il velo di Maya dell'irrealtà e venuto anch'io a contatto con "la miseria" (magari non in senso letterale ed economico, ma in senso lato quale "precariato", necessità di trovare lavoro e soprattutto di mantenerlo, impossibilità a risolvere ogni problema economico con i fondi non più illimitati di papà ecc.), mi sento in una "post-vita". Ero tanto abituato a pensarmi dentro un romanzo che la vita reale mi è sembrata quasi irrilevante. Faccia fatica anche solo a ricostruire quanto accadutomi negli ultimi vent'anni (mentre i cinque anni di liceo sono scanditi nella memoria come gli annali di Tito Livio). Al liceo prendevo serissimamente un voto non all'altezza, mentre ora può crollarmi la carriera addosso che poco mi cale. Mi sono reso conto, infatti, che riservare a me il mio tempo vale più di qualunque stipendio e di qualunque onore sociale o accademico. Capisco solo ora cos'è vivere e quanto in tempo e psiche abbia sprecato dietro agli idoli sociali (quando ero nella privilegiata situazione di potermene invece fregare!). E fra gli idoli metto anche tutte le categorie filosofiche e politiche di cui parlavano forbitamente gli insegnanti a cui ancora penso (e verso cui tu, giustamente, suggerisci menefreghismo).

Da oltre vent'anni mi sento fuori posto...

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@Feynman said:

@Beyazid_II said:
P.S.
Il risultato è la convoluzione fra la Fourier trasformata di Claudia e quella della product intensity function del processo puntuale che modella gli istanti di campionamento.

Forse volevi dire la convoluzione tra la trasformata di Fourier di Claudia e la Point Spread Function, che se fosse una gaussiana vorrebbe dire semplicemente che la vedi un po’ sfocata, forse perché con gli anni calano le diottrie. 🤓

No, no, trasformo proprio secondo fourier la product density function di ordine 1 del processo puntuale (la quale, moltiplicata per un'area infinitesima, è la probabilità di avere un punto in quell'area). Per semplificare, la suppongo costante (processo omogeneo). Ecco perchè nè io nè Claudia invecchiamo. Pensarmi a dover andare dall'oculista con relativo colirio o addirittura sottopormi ad un'operazione all'occhio come mio padre mi fa star male...

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@Beyazid_II said:

@Feynman said:

@Beyazid_II said:
P.S.
Il risultato è la convoluzione fra la Fourier trasformata di Claudia e quella della product intensity function del processo puntuale che modella gli istanti di campionamento.

Forse volevi dire la convoluzione tra la trasformata di Fourier di Claudia e la Point Spread Function, che se fosse una gaussiana vorrebbe dire semplicemente che la vedi un po’ sfocata, forse perché con gli anni calano le diottrie. 🤓

No, no, trasformo proprio secondo fourier la product density function di ordine 1 del processo puntuale (la quale, moltiplicata per un'area infinitesima, è la probabilità di avere un punto in quell'area). Per semplificare, la suppongo costante (processo omogeneo). Ecco perchè nè io nè Claudia invecchiamo. Pensarmi a dover andare dall'oculista con relativo colirio o addirittura sottopormi ad un'operazione all'occhio come mio padre mi fa star male...

Ok, sí vabbé, la supercazzola antani con scappellamento di Fourier a destra, lasciamo stare che è meglio. 😂

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QUARTO GRADO: DA MARSILIO FICINO A FRIEDRICH NIETZSCHE (5/18)

Ovvero: "LE DONNE, I CAVALLIER, L’ARME, GLI AMORI, LE CORTESIE, l’AUDACI IMPRESE"

Parte 5 di 18 : “Le donne: Francesca”

Assieme alla più bella della classe, a volte ne esista una “versione ridotta” per venire incontro alle capacità “sociali” dei compagni non nati seduttori. Tale era il caso, nella mia classe liceale, di Francesca, un’esile brunetta dai capelli lisci e dal viso ingenuo e gentile. Era di statura più bassa rispetto a Claudia, un poco meno bella, ma decisamente più simpatica. Fin dal primo anno fu colei con cui più facilmente mi legavo durante i lavori di gruppo.

Pareva nata per fare la segretaria di uno scrittore. Aveva una bellissima grafia (quando nei suoi diari poteva usare penne colorate, gli elenchi di compiti a casa e dei futuri compiti in classe costituivano ricami su carta degni di fantasiosi tappeti persiani) e, nonostante i suoi proclami aggressivi di indipendenza e di femminismo all’emiliana, era sempre pronta ad ascoltare e ad eseguire. Ci ritrovavamo, tipicamente, nei gruppi da 4 o da 5 per le ricerche di Fisica o di Storia, con uno o due compagni maschi che neanche si presentavano agli appuntamenti, uno che se c’era era lì solo per generare confusione (prendere in giro me o molestare/provocare lei, oppure litigare con qualcuno di noi o di un altro gruppo), mentre io e lei cercavamo di lavorare. Io, spontaneamente, iniziavo per mio conto a calcolare componenti ed equazioni o ad elaborare frasi e concetti, mentre ella mi seguiva prima con la mente e poi, una volta afferrato il senso, con la bella mano che sapeva trasferire ordinatamente sulla carta quanto altrimenti si sarebbe disperso nell’aere (la mia grafia illeggibile non mi avrebbe permesso, una volta solo, di lasciare traccia del mio troppo veloce pensiero). Grazie a lei non ero costretto a rallentare il ritmo del pensiero (come mi toccava di fare quando, da solo, dovevo scrivere in maniera leggibile) ed avevo contemporaneamente modo di ricontrollare le equazioni o chiarire a me stesso le mie enunciazioni, dovendo comunicarle a lei. Non ci fu bisogno mai, nemmeno per un attimo, di stabilire dei ruoli o delle regole. La nostra simbiosi era spontanea. Tutti i suoi discorsi femministi “in società” svanivano non appena, a quattrocchi, entrambi ci rendevamo conto già a livello istintivo di come un’inversione di ruoli (con me a scrivere illeggibilmente calcoli prodotti dalle sue capacità a cavallo della sufficienza o pensieri maturati nella sua mente di ragazza nella media) avrebbe potuto essere soltanto un disastro e di come un’alternanza nel ruolo guida (secondo ridicoli criteri paritari) avrebbe comunque prodotto un risultato non altrettanto eccellente di quanto entrambi volevamo.

Mi ricordo ancora il suo viso serio e concentrato, quasi preoccupato, mentre scriveva sotto dettatura i risultati dei miei calcoli o le riflessioni della mia analisi storica. Aveva, ogniqualvolta si lasciava andare, un’ombra di paura dipinta sul volto che la rendeva più vaga e più bella. Eravamo, sotto il punto di vista dello studio, una coppia perfetta, tanto da non accorgerci neppure che le altre due o tre persone del gruppo manco c’ero e se c’erano disturbavano. Come tutte le coppie perfette, eravamo invidiati tanto da un punto di vista sociale (ottenevamo i risultati migliori) quanto psicologico (perdevamo meno tempo della media a litigare). La cattiveria propria di quell’età animava le malelingue a rinfacciare, in tono di scherno e di disprezzo, a Francesca di essere “una mia conquista” e a me: “allora ti piace la Francesca, state sempre insieme!”. Dover rispondere con i fatti a malelingue di tal genere è sempre (in quella delicata età nella quale i fanciulli di ambo i sessi, immersi in un microcosmo di relazioni effimere, tengono alla propria immagine “sociale” più che alla propria felicità) il primo motivo per cui due anime, inizialmente inclini a star bene fra loro, iniziano a trovare difetti l’una nell’altra e ad allontanarsi. “Ah, no, non possono pensare quello di me!”, oppure “che figura ci faccio se vedono che mi accontento subito del primo o della prima che capita?”, e soprattutto “non è vero, non è vero, non è vero che mi piace, stiamo insieme solo per lavoro”. Vero, questo, all’inizio. Ma l’arrivare a dirsi “no, io merito ben di meglio” (e quindi a disprezzare colui o colei con cui ci troviamo bene) solo per paura del giudizio altrui sull’eventualità di cambiare (o, se vogliamo, evolvere) la motivazione dello stare insieme è sciocco. Eppure succede spesso a quell’età. Quello fu il motivo per cui la naturale simpatia reciproca fra noi e la spontanea intesa che avevamo sul lavoro di studio non si tramutarono mai in un legame più profondo.

Una volta, all’uscita di scuola, mi trovai per caso vicino a lei quando le venne “combinato” l’incontro con un ragazzo (parecchio più “maturo”) di un’altra scuola che le piaceva. Sentivo la sua voce tremare mentre cercava di accettare l’invito. Avendo smesso ancor prima di iniziare di vederla come possibile compagna d’amorosi sensi, non fui geloso, ma semplicemente a disagio per lei. Perché una creatura così tutto sommato gentile d’animo e non vuota di intelletto (e comunque sempre una liceale!) si abbassa a tal punto davanti ad un “barbaro” dell’istituto tecnico? Ad uno che, probabilmente, non conosce neanche la differenza fra Dante e Petrarca e, se va bene, sa applicare delle formule senza dimostrazione? All’epoca mi illudevo che quella fosse la prova vivente dell’equivalenza di desiderio fra maschi e femmine la quale era differita solo per qualche anno. “Quando anch’io avrò l’età di quel barbaro”, mi dicevo, “anch’io farò tremare di desiderio la voce e lo sguardo delle primine o delle secondine che mi piacerà invitare!” Non ero certo, potenzialmente, meno potenzialmente attraente da un punto di vista estetico. Anzi, avrei fatto conquiste superiori in quantità e qualità, potendo contare anche su un potenziale intellettuale (e sulla fama di primo fra i primi dell’istituto). Quanto mi fallavo! A distanza di più di cinque lustri, vedo la stessa scena sotto un’altra prospettiva interpretativa: anche ad una “figa media” come la mia compagna, è bastato “esprimere il desiderio” alle amiche perché l’oggetto maschile di tal desiderio si precipitasse il giorno dopo ad attenderla all’uscita di scuola (e deve essersi preso pure la briga di chiedere a qualcuno di poter uscire prima dalle proprie lezioni!) per invitarla formalmente ad uscire e rispondere così al minimo cenno femminile con la prontezza e l’obbedienza di un soldatino. Altro che parità di desideri! Fame di figa!

Comunque sono sempre stato solo contento per lei se ha trovato relazioni stabili con ragazzi a lei graditi. Magari – e lo spero per gli uomini che l’hanno incontrata – si è rivelata l’unico caso di donna nel quale l’interesse per il sesso in quanto tale fosse sincero e non simulato per vantaggio personale o per moda collettiva pseudofemminista.
Cinque anni fa, ad uno degli ultimi ritrovi di classe, magnificava simpaticamente le doti dei jeans stretti e dei reggiseni push-up, che permettevano alle libertine come lei, anche alla soglia degli “anta”, di mostrarsi ancora appetibili come ventenni e di attrarre a sé gli uomini più aitanti e affascinanti i quali poi, “una volta lì”, potevano essere costretti, nei casi estremi anche con l’uso della forza, a rimanere nonostante la vista, al momento del dunque, di “grasso, cellulite e tette cadenti”. Diceva tutto questo con la sua antica voce simpatica e impaurita con la quale ero abituato ad ascoltarla anni prima. Così non potei fare altro che provare empatia nonostante un’esperienza simile (e nemmeno con una quarantenne) mi fosse appena capitata (e per giunta pagando!). Ero infatti appena tornato da una conferenza a Budapest, dove la escort che sul sito veniva pubblicizzata come la classica modella stangona e longilinea ungherese si era invece rivelata la annoiata e burrosa figlia di un medico che la dà via per pigrizia più che per convinzione, più bassa di dieci centimetri e più grassa di dieci chili abbondanti (una volta tolti tacchi e vestiti “contenitivi”). Avevo in quella occasione capito tutto il disagio dei mariti costretti a copulare per “dovere coniugale” con una donna la quale non riveste più quel sono estetico di cui si erano un tempo innamorati. Avevo anche pensato di dirle “non se ne fa niente”, ma il pensiero di averla fatta viaggiare (a tutto gas con la sua Audi) per centinaia di chilometri a vuoto solo per raggiungermi era troppo crudele. Allora, per un attimo, avevo contemplato l’idea di fare il magnanimo “tieni pure il tuo compenso, ma non ti voglio”. Mi ero reso però conto quasi subito che un’offesa del genere avrebbe potuto scatenare nell’animo femminile una incontenibile voglia di vendetta, molto pericolosa da arginare per un assegnista di ricerca in terra straniera. E fu così che persino un puttaniere impenitente come me rivestì per una volta i panni del marito fedele disposto a fingere desiderio per la propria moglie al solo scopo di non offenderne la vanità e suscitarne le ire. Almeno nel mio caso, al contrario di quelli immaginati da Francesca, non ci fu bisogno di usare la forza nei miei confronti.

Poiché sarebbe davvero spiacevole salutare Francesca con queste scene di donne decadenti da un punto di vista estetico che devono ricorrere alla violenza e alle minacce per trattenere gli uomini illusi da grazie soltanto apparenti, rivelerò invece un sogno erotico realmente avvenuto a suo tempo. Anche se non ero mai arrivato a desiderare fisicamente Francesca, gli squilibri ormonali di quell’età (ero all’inizio del secondo anno di liceo ed avevo dunque poco più di quindici anni), uniti alla castità autoimposta spesso per superstizione (si credeva che, astenendosi dalla masturbazione per periodi indefiniti, il dio sessuofobico della Bibbia avrebbe più facilmente acconsentito a decidere in favore dello studente gli esiti incerti dei compiti in classe e delle interrogazioni), potevano, con le loro proiezioni, farmi impazzire di desiderio per qualunque immagine femminile più o meno trasfigurata.

Sognai un bel mattino (chissà perché a volte nei sogni si ha, ancora dormendo, l’impressione di essere già nell’ultima parte della notte) di essere in laboratorio con Francesca, la quale si trovava in qualche modo vincolata in posizione prona ad un tavolo “pronta ad essere sacrificata” come la “nipote da parte di fava” di quel celebre episodio di Amici miei (quando Rodolfo Celi interpreta il demonio con cui gli altri devono siglare il patto di sangue sacrificando la vergine). Pareva spaventata come sempre, ma non era Francesca la mia compagna di classe, bensì una sua versione (come mi dissi allora con termine mutuato dal motorismo) “potenziata”. Aveva le sembianze di una ragazza che avevo visto ritratta sul numero di “Auto” del mese nelle pagine dedicate ad un salone inglese per auto elaborate. Lì la standista, definita nella didascalia “tipica bellezza anglosassone”, si mostrava in tutto il suo splendore (aveva gli occhi chiari e un “claro viso” circondato da chiome oscure con sfumature rossicce). Sorrideva con innocenza al lettore mentre, appoggiata con il fondoschiena all’esemplare di auto reclamizzato, non nascondeva due gambe stupende, morbidamente e leggermente piegate all’altezza delle ginocchia, che facevano da spartiacque fra due mondi di impressioni contrastanti: sopra, i toni pastello del suo vestito aderente color panna e le nude cosce rendevano l’idea di una morbidezza tenue, da sabbia bagnata dall’onde in una grigia mattinata d’estate odorante di salsedine, poco sotto, le linee nette di lunghi e neri stivali con la zeppa “da cubista” ritagliavano un oceano di sensualità più decisa, quasi perversa, quasi ritmata da violenti suoni metallari. Questo tipo di contrasto visivo (e non solo) sarebbe stato destinato a segnare per anni il mio immaginario erotico. Non solo, quella volta, svegliandomi da quel sogno, continuai a rigirarmi nel letto in perenne stato di erezione nel tentativo di proseguire il più possibile con l’immaginazione quanto troppo prematuramente era stato interrotto dalla prima luce del mattino, ma in seguito provvidi a scannerizzare la foto da cui il mio inconscio aveva tratto il “potenziamento” di Francesca (eh, sì, ero già proprietario di uno dei primi scanner collegabili al pc). Conservo ancora oggi il file ed ha sempre fatto parte del pantheon di immagini con cui l’autoerotismo periodicamente si esplica (altro che youporn!).
Purtroppo, parafrasando qualcuno più autorevole di me: “non era Francesca”. La vera Francesca, in compenso, si è sempre ricordata di me, se è vero che l’ultima volta in cui ci siamo visti mi ha ancora calorosamente ringraziato per il gentile regalo che feci a lei e a Claudia quando, assieme, si erano laureate (ed erano passati dieci anni!). Mi ha detto commossa che si vedeva che a differenza di altri ero un gentiluomo. Dalla faccia che i presenti fecero, capii che era evidente nemmeno io mi ricordassi più di essere stato a quel tempo tanto gentile! Nei dieci anni successivi alla laurea, avevo completamente rimosso di essere stato un cavaliere, ma almeno una dama non se lo era dimenticato.

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QUARTO GRADO: DA MARSILIO FICINO A FRIEDRICH NIETZSCHE (6/18)

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Parte 6 di 18 : “Le donne: Eva”

“Erode, che era di Bergamo!” così recitava una barzelletta che mi raccontarono da fanciullo al mare dei signori lombardi. Un prete che odiava i bergamaschi veniva mandato a dir messa proprio in quella provincia e, durante l’omelia, ad ogni personaggio negativo del vangelo attribuiva un’origine bergamasca, o comunque un legame, con Bergamo, suscitando lo sconcerto e spesso le ire della platea. Richiamato dal vescovo (“cerca almeno di non essere così esplicito nell’esternare la tua avversione”), per l’omelia del giorno di Pasqua, con la chiesa gremita non solo di paesani ma anche di gente accorsa da tutta la provincia per curiosità (“vogliamo proprio vedere se anche dopo la sgridata del vescovo ha il coraggio di parlare male dei bergamaschi durante la messa”), il nostro predicatore scelse la strada della critica implicita. “Qualcuno di voi mi tradirà” – riportò le parole di Gesù. “Gesù, non sarò forse mica io?” disse il predicatore impersonificando uno ad uno gli apostoli. “No, non sarai tu” – rispondeva ogni volta recitando Gesù, fino a quando, arrivato a Giuda, pronunciò la domanda (“Gezù, non sarò forze mica io?”) il perfetto farsetto bergamasco.

Nella mia storia, non Erode né Giuda sono di Bergamo, ma lo è un personaggio biblico altrettanto importante, nel bene e nel male: Eva.
Portava infatti questo nome da prima donna biblica una splendida ragazza di Bergamo che aveva abbondantemente superato la ventina allorquando io avevo appena passato l’esame di maturità.
Fisicamente, superava ad occhio il metro e settantacinque ed avrebbe benissimo potuto essere una modella. Era invece una ricca studentessa di non ricordo qual facoltà. Diceva di abitare da sola finanziata dall’abbiente padre. Questi avrebbe potuto anche essere uno dei personaggi da “cummenda” lombardo tratti dai film di Vanzina e interpretato da Guido Nicheli. Di lui, Eva riportava difatti sempre l’illuminante battuta, pregna di profondo significato circa i tempi orizzontali in cui viviamo: “Dio non è più trino, ma quattrino” (solo che dal personaggio in questione doveva essere detta con significato positivo e tono di vanto per sé e scherno per gli altri). Anche nel carattere Eva si mostrava come credibile figlia di una tale figura cinematografica: a momenti di leggiadria vacanziera punteggiati di battute dissacranti e di materialismo spiccio, alternava attimi di profondità malinconica e di evidente dubbio esistenziale, come appunto parrebbe tipico di una privilegiata prole femminile a cui, pur non mancando nulla da un punto di vista materiale(denaro, tempo libero, bellezza, amicizie), faccia comunque difetto la capacità di trarre piena soddisfazione (e significato) dalla vita. Anche nell’aspetto lasciava trapelare la mancanza di quella “pienezza” e di quella “finitura” di cui quella grande artefice di bellezza che è la natura fa dono alle sue creature più riuscite.

Ad un’altezza, come detto, da indossatrice, ad una invidiabile piattezza di ventre (quasi levigato da un divino artefice), e (soprattutto) ad un paio di lunghissime gambe da gazzella, corrispondevano un seno da “adolescente” (un seno entro la terza misura sicuramente si intona alla figura di modella, ma se persino io, che non sono mai stato un fanatico delle forme piene, ho notato una “mancanza di pienezza”, allora forse eravamo anche al di sotto…) e (soprattutto) un viso dai lineamenti non certo brutti ma un po’ duri, con ad esempio un naso dritto ma quasi “tagliato” secondo una netta diagonale da uno scalpello esperto ma frettoloso.
Se le donne prendessero vita da statue di marmo scolpite da un Pigmalione e solo successivamente animate dal soffio divino, allora nel caso di Eva si sarebbe detto che l’artista, partendo da un materiale di ottima qualità, dopo aver abbozzato linee slanciate e ben proporzionate, abbia avuto poco tempo per rifinire tutte le forme del corpo e tutti i lineamenti del viso. Non solo il naso, seppur bello, non era delicato, ma anche le gambe, pur lunghe e ben scolpite, avevano un che di “legnoso”. Insomma, era sì alta, bionda e “stilizzata”, ma non era propriamente “stilnovista”.

La conobbi a Porto Cervo, nell’hotel sulla caletta in cui soggiornavo assieme a Matteo, con il quale avevamo deciso di condividere le vacanze immediatamente successive alle interminabili fatiche di quell’ultimo anno di liceo conclusosi con gli orali della maturità (di cui, per inciso, al momento della partenza non conoscevamo ancora gli esiti). Anch’ella era lì assieme ad una amica coetanea, di nome Federica (ma non ridete, è verità!) e di professione assicuratrice. In un albergo isolato dal centro abitato più vicino e dotato tanto di spiaggia privata (una caletta, cui si scendeva dalla zona piscina-bar-giardino tramite breve sentiero fra le scogliere, con molti sassi e poca sabbia, ma sufficiente per la manciata di sdrai e ombrelloni destinati agli ospiti e montati solo su loro richiesta) quanto di intrattenimento privato (diurno e serale) era inevitabile fare conoscenza anche per i più asociali.

Ovviamente fu Matteo a disturbarla per primo e a trarre da lei tutte le informazioni possibili, ma anch’io non ebbi difficoltà a scambiare continuamente parole con lei e a proseguire in lunghe conversazioni con partecipazione e piacere reciproci. A differenza dell’amica, che dormiva quasi tutto il giorno, Eva cercava volentieri la nostra compagnia diurna e di sera non faceva resistenza nel lasciarsi accompagnare fuori (avevamo infatti, io e Matteo, un’auto a noleggio). Pareva anzi avere tutta la voglia di divertirsi, di perdere tempo in convivialità boccaccesca (nel senso di condita da racconti più o meno piccanti o divertenti che tutti i personaggi di ambo i sessi sono tenuti a turno a narrare), di non stare sola neanche un momento con se stessa. Forse proprio perché aveva tanta paura di se stessa trovava sopportabile persino la mia compagnia veramente pedante all’epoca.
Per la verità, all’inizio, quando pensavo di vivere ancora dentro l’esame di maturità e credevo che ogni donna fosse l’immagine della professoressa di italiano da sedurre con collegamenti arditi e citazioni dotte al fine di ottenerne una lode, riuscii a farle dire “tu sei soprattutto saccente!” (anche se non ricordo a proposito di quale argomento avevo osato correggerla con puntiglio scolastico meritandomi l’epiteto).

Una volta, per mettermi alla prova come spesso fanno le belle donzelle che si vantano di essere anche colte, sperando forse di farmi cadere, mi chiese a bruciapelo, dopo una battuta sull’allievo che supera il maestro, quale fosse l’esempio classico in cui viene raffigurato un allievo davvero in grado di superare il proprio maestro. Troppo facile per me rispondere riferendomi ad Aristotile che indica la terra al proprio maestro Platone il quale, da idealista, pare costantemente rivolto nello sguardo all’iperuranio. Una docta puella che avesse voluto davvero avere una speranza di farmi cadere sulla cultura generale avrebbe certamente dovuto impegnarsi di più nell’indovinello, stile Turandot. Forse Eva voleva soltanto divertirsi come ad una trasmissione di Jerri Scotti, e non era pienamente né la bella gelida seduttrice dell’opera pucciniana né la docta puella di catulliana memoria.
Quando però capì che né le citazioni né i collegamenti erano orpelli esornativi, o, peggio “rolex spirituali” da sfoggiare per cafonaggine nel tentativo di conquista, bensì “memorie involontarie”, prodotti cioè quasi “di scarto” di una elaborazione interiore volta a costruire sulle rovine e con le rovine dell’edificio della cultura scolastica una identità nuova, a sé stante, da chiamare “vita intellettiva” (o, più prosaicamente come io stesso avrò modo di dire “letterarietà del vivere”), allora le divenni apertamente simpatico.
Forse perché fin da allora ho avuto l’abitudine di alternare discussioni letterari e barzellette, e di inframmezzare meditati discorsi filosofici con estemporanei “teoremi vacanzieri” degni (vedi sopra) dei personaggi interpretati da Guido Nicheli nelle commedie di Vanzina, divenni “il suo idolo” (stando almeno a quanto dichiarava alle amiche e alle altre villeggianti quando voleva giustificare l’accompagnarsi spesso con me).

Quello che non capì nulla fu il mio amico e compagno Matteo (il tuttologo). Approfittando di un momento in cui Eva ci aveva lasciati soli, mi rimproverò paternalisticamente non solo e non tanto per l’eccesso di citazioni da “polpettone letterario” (espressione negativa coniata dal nostro compagno Lorenzo a proposito di quella parte della commedia dantesca che per Benedetto Croce “non è poesia”), quanto e soprattutto per l’eccessiva “altezza filosofica” dei temi trattati nei miei dialoghi con lei, che rischiava di apparire, se non stupida, almeno “meno sapiente”, “meno pronta” al collegamento, “meno profonda” nell’analisi, insomma, “meno intelligente” (a suo dire!) di quanto una donna indipendente ed emancipata vorrebbe sempre apparire. “Se il tuo modello di rapporto è quello maestro-allieva non combinerai niente. Non puoi apparire troppo superiore ad una donna, se la vuoi conquistare. Le donne non vogliono sentirsi in secondo piano rispetto a te. Magari in un secondo momento puoi anche permetterti di mostrare tutte le tue doti intellettuali, ma non certo all’inizio durante il corteggiamento”.
Io caddi dalle nuvole. “Corteggiamento”? Ma quando mai la mia intenzione era stata quella di corteggiare? Io volevo solo dialogare di letteratura. Possibile che nemmeno fra i miei amici trovassi maschi disposti ad ammettere che non tutto quanto il nostro sesso concepisca sia a servizio delle donne? Quella sua concezione di “parità” mi sembrava poi allucinante. Proprio perché la donna (allora pensavo così, oggi meno) ci è intellettualmente pari, si mancherebbe di rispetto nel “limitarsi” contro di lei in ogni tipo di contesa letteraria o verbale (come una squadra di serie A che mandasse in campo le riserve nella partita amichevole contro una squadra non ritenuta “degna” dei titolari). Ogni dialogo è un duello di menti, e, alla pari di quanto succede nei duelli di spade, l’avversario va rispettato combattendo contro di esso al massimo delle nostre possibilità. Altrimenti significa trattarlo da “minorato” come un maestro fa con l’allievo usando spade di legno in allenamento (ecco perché il rimprovero di vedere il mio rapporto con le donne come maestro-allieva doveva piuttosto essere rivolto a lui).
D’altronde, anche se avessi voluto corteggiare Eva, perché mai non avrei dovuto puntare a quell’ambito nel quale, come (pensavo sempre all’epoca) dimostravano i miei risultati scolastici, più facilmente emergevo rispetto a gran parte degli altri uomini, ovvero le cose dell’intelletto? Vedremo a breve a cosa portarono le sue filosofie sul corteggiamento paritetico e i suoi diversi mezzi di seduzione…

Eppure, almeno inizialmente, io non volevo corteggiare Eva. Per un motivo molto semplice che Matteo non poteva sapere (non avendo io raccontato a nessuno il simile incontro vacanziero di due anni prima, ovvero la vicenda del mio segreto amore per Elisa).
La pur bella bergamasca era sì un po’ più alta e forse ancora più “modella” nella morfologia, ma non arrivava ai miei occhi a competere con la mia “amata immortale” (la quale, o scherzo del destino, proveniva dalla città rivale di Brescia). Nel suo viso (che pareva proprio contenere quell’espressività “un po’ guerriera delle contadine” di cui parla il Manzoni) non vi era traccia di quella indefinibile e delicata bellezza “greca” che avevo visto due anni prima in Elisa e nemmeno le sue gambe non erano quelle di Elisa!
Insomma: Brescia-Atalanta 2-0. Pur avendola conosciuta da diciassettenne, Elisa mi era parsa molto più “donna” nel suo insieme (e non solo per le forme angeliche dei seni nella nivea sua veste in cui mi apparse) rispetto alla ventiquattrenne Eva, che, proprio come la ragazza della mitologia, incarnava piuttosto un modello di femminilità acerba e atletica.
Tale modello, evidentemente, costituiva un ideale per Matteo, a giudicare dalla sua pronta iniziativa con lei e dal suo magnificarla con me pure nei difetti (alle mie obiezioni sulla mancanza di formosità anche dove servirebbe, rispose, con un fare da vissuto seduttore parigino, che “porterà una terza ed è giusto così, le tette devono stare in due coppe di champagne”).

Tanto brigò che riuscimmo ad uscire in cinque sulla Punto bianca a noleggio guidata da me. C’erano (forse, a posteriori, con il ruolo di “guardiane”) anche due sorelle (di diversi anni maggiori di noi) che ci tenevano compagnia nella combriccola. Una di esse era seduta a fianco a me, mentre l’altra stava dietro assieme a Matteo ed Eva. Ero concentrato nella guida, nelle curve affrontata nell’eterna ricerca della traiettoria ideale (finalmente, per le tortuose strade della Costa Smeralda, potevo mettere a frutto le teorie di guida studiate nei lunghi anni di attesa della patente). Riuscì però ad un tratto a percepire la voce di Eva dire “e tieni a posto le mani!”, e Matteo rispondere ironico “ma tu cos’hai detto prima, che la donna va…” – “conquistata..” – “conquistata e poi…presa”. “Sì, ma … poi…..” concluse lei scocciata. Sul momento fui quasi scandalizzato dal fatto che non un bruto sconosciuto qualsiasi, ma l’amico con cui avevo scelto di passare le vacanze post- maturità, uno dei migliori amici conosciuti nei cinque anni di liceo, potesse arrivare a quegli “scherzi di mano” che i miei genitori mi avevano sempre raccomandato di evitare in quanto “propri del villano”. Solo a distanza di anni capisco quanto la scocciatura fisica del sentirsi toccata in quel modo villano fosse, per una donna come Eva, comunque infinitesimale rispetto a quella mentale di pensarsi assieme a due tipi come noi. “Ma porca pupazza, possibile non ci sia la via di mezzo?” deve aver pensato! Fra uno che alla prima uscita (anzi, ancora prima di giungere alla destinazione della prima uscita!) ci provava brutalmente allungando già le mani come una piovra e uno (cioè io) che manco lontanamente si sognava di provarci neppure con il più indiretto, lontano e tenue dei modi, non se ne faceva uno valido. Se avesse voluto consolarsi per essere stata lasciata o anche solo divertirsi un po’, tutta la sua bellezza e tutto il rango sociale non sarebbero comunque stati sufficienti, in quel frangente, a procurarle uno straccio di uomo adatto allo scopo. Ed eravamo sempre nel melanzanistan in cui il poter contrattuale delle donne nell’amore sessuale è assoluto come quello dei talebani in uno stato confessionale. Contraddizioni del sistema. Mi sono sempre chiesto cosa mai avesse toccato. Il sedere? Difficile perché era seduta. Il seno? L’avrei visto dallo specchietto. Le parti intime? Arduo, con il vestito lungo. Purtroppo la mia inesperienza totale in questo genere di allungamenti di mano preclude qui anche la fantasia d’autore. Le uniche esperienze di toccate che avrei avuto sarebbero state con fanciulle da locale notturno a ciò preposte e per ciò pagate, e con le quali non c’è nulla da immaginare circa cosa un buon cliente, per quanto gentiluomo, possa anzi debba toccare (e venga proprio facilitato ad essere toccato dalle vesti succinte e dagli abitini “di scena” imposti da quel genere di locali). Per dirla tutta, mi è pure capitato che qualche ragazza (sia ragazze-immagine con cui fare foto al Motorshow, sia ballerine di locali notturni) spostasse di propria iniziativa una mia mano sulle sue cosce.

Anche senza sapere cosa fosse davvero successo sul sedile posteriore, quella scena cambiò il mio approccio. Se il mio amico si era comportato da fellone, io dovevo essere cavaliere. Affinché Eva non pensasse che nella pianura a sud del Po gli uomini non conoscessero le buone maniere, dovevo impegnarmi massimamente per rappresentare ai suoi occhi l’ideale cavalleresco da romanzo, che si mette devotamente a servizio della bellezza non solo senza toccarla (come fosse un fiore del paradiso che nessun mortale è degno di cogliere), ma senza attendersi nulla in cambio. Con quella scelta, inconsciamente forse per “compensare” il cattivo comportamento di Matteo ed evitare l’onta sul genere maschile, o forse proprio per mettermi in competizione con lui, mi calavo implicitamente proprio in quel ruolo di “pretendente” che avevo fino a quel momento rifiutato. Entrammo tutti nel locale, una specie di disco-pub molto in voga all’epoca, con il pregio di essere all’aperto, rinfrescato dal maestrale, e di avere colonnati e vista mare. C’era molta gente e noi cinque di fatto ci perdevamo di vista. Per questo Eva mi chiese di custodirle un attimo la borsa mentre doveva fare un “giro di ricognizione” prima di “scatenarsi” nel ballo. Non occorre raccontare al lettore che quell’attimo durò tutta la serata, durante la quale le feci letteralmente da “segnaposto” mentre ella aveva altri pensieri e soprattutto altri cavalieri. Si tratta infatti di una delle peggiori perfidie elencate nel decalogo della stronza che gira in rete. Allora, però, non ne ero né ferito né irritato. Capivo benissimo quanto stava succedendo, ma avevo semplicemente scelto di ignorarlo. Mi sentivo come il soldato di Pompei che, nella celebre narrazione fatta da Oswald Spengler, resta sull’attenti anche di fronte all’eruzione del Vesuvio, non perché sia troppo stupido per capire la gravità della situazione o tanto ingenuo da credere di poter essere salvato da qualche aiuto divino in ricompensa della sua disposizione al sacrifico estremo, ma semplicemente perché vuole restare fedele fino alla fine all’immagine di sé (il perfetto legionario pronto alla morte pur di compiere il proprio dovere anche nell’anonimato) che ha costruito lungo tutta la vita.

Restai dunque orgogliosamente seduto facendo la guardia alla borsetta di Eva per tutta la serata. Non desistetti nemmeno quando una delle due sorelle che ci accompagnavano si propose di darmi il cambio. “No, ho promesso di guardarci io”.
Mi annoiavo a morte in quel luogo di “divertimento”. Potevo guardare i reciproci approcci dei due sessi nel locale senza prenderne parte, osservare come di volta in volta ora l’uno, ora l’altra, si mostrassero, anche da lontano, più o meno soddisfatti o più o meno delusi della persona che erano riusciti ad “intortare” o da cui erano stati “agganciati”, leggere chiaramente nei volti degli estranei quei pensieri di audace speranza o di fastidio annoiato che ciascuno immagina segreti, mentre per educazione o calcolo cerca di celarli all’altro o all’altra continuando a parlare, che magari restano effettivamente nascosti al corteggiatore o all’interlocutrice presi dal dialogo (e illusi dalle proprie stesse parole), ma che sono evidenti ad un osservatore terzo disinteressato e distaccato come ero io in quel frangente.
Senza l’illusione del desiderio e la speranza ingenua di incontrare un’anima gemella è, mi rendevo conto in quel momento, una davvero triste commedia la prima fase di quanto il volgo chiama “amore”.

Anche avessi voluto dimenticarmi della parola data ed andarmene per i fatti miei a provare di “recitare la mia parte” in una tal commedia, non avrei comunque potuto trovare in essa un ruolo da protagonista e nemmeno un cameo divertente.
L’alto volume della musica rendeva difficile il dialogo, costringendo, per essere compresi, ad usare termini semplici in frasi brevi. Una “lectio dificilior” avrebbe rischiato di rendere incompresa una parola altrimenti “preziosa”. Una sentenza lunga, per quanto sonoramente armoniosa e sintatticamente equilibrata, avrebbe probabilmente subito il destino di venire spezzata (all’orecchio ricevente) in due o più anacoluti dal fragoroso e improvviso sovrapporsi di certi suoni più rumorosi di altri all’interno di quanto avrebbe dovuto essere una “musica di sottofondo” (e che invece risultava per me “rumore di affondamento” di ogni possibile pensiero intelligibile).
Inoltre, il basso tenore della luce, impediva di scorgere i dettagli della bellezza fisica, i lineamenti del volto, la forma e i movimenti delle mani e, soprattutto, gli accostamenti cromatici di cui personalmente sono sempre andato fiero. L’unica cosa che rimaneva all’essere umano era la figura, la bellezza della figura vista di lontano, come in una luce soffusa, e quasi con occhi socchiusi. In questo certo Eva doveva apparire imbattibile, con la sua apparenza di modella. La poca luce avrebbe coperto quella mancanza di finezza fisica di cui ho parlato e il tanto rumore avrebbe reso impossibile accorgersi delle corrispondenti imperfezioni intellettuali che solo nel dialogo quieto possono palesarsi. Doveva in quel momento far letteralmente strage di cuori.

Tutto il contrario per me. Fisicamente, non ho mai avuto una figura statuaria con cui far colpo, ma soltanto molti dettagli per cui diverse volte qualche esteta si era complimentato: era piaciuto ad uno scultore il modo in cui muovevo le mani, avevano attratto una mia compagna delle medie le linee e le proporzioni delle mie relativamente lunghe dita, non era passato inosservato alla mia pediatra il “bel piede greco” che avevo ereditato da mio padre, mentre le due cose più evidenti riprese da mia madre, ovvero gli occhi color oltremare (non semplicemente azzurro chiari come nella “inflazionata” mitologia nordico-ariana, ma di un azzurro più scuro ed intenso, profondo come d’oltremare, proprio delle stirpi baltico-orientali da cui la mia cara mamma discende) e i capelli biondo cenere (ancora una volta non biondo-platino come nel caso dei germani o dei finti-biondi da copertina, ma di un biondo più scuro, di un colore quasi indefinibile, che può appunto definirsi come cenere quando, finito il lavoro del parrucchiere, si vedono accatastate in terra le ciocche, ma che, sottoposto alla luce del giorno sopra il vivo capo, sembra cambiare continuamente di tono) erano state lodate da quasi tutte le donne appena mi incontravano (da minorenne) e anche da qualche insegnante uomo (spero non omosessuale).

Di tali ornamenti estetici venivo privato dalla luce soffusa della disco, che mi riduceva a uomo ordinario dal punto di vista fisico come da quello intellettuale. La bellezza intellettiva, difatti, l’unica degna di accostarsi a quella della donna disiata, la bellezza non corporale e non mortale della parola, la quale, condensata in immagini e suoni, si chiama poesia (e permette alle donne cantate dai poeti di fuggire dalla corruzione del tempo e della morte per mantenersi eternamente uguali a sé ed eternamente belle come le fanciulle ritratte nell'urna greca dell'ode di John Keats) si può in linea di massima esprimere solo attraverso il dialogo solus ad solam, e, salvo miracoli, ha bisogno, alla pari di ogni altra dote capace di nobilitare l’uomo (generosità d’animo, nobiltà di spirito, acutezza di ragionamento, squisitezza di modi, raffinatezza di gusti, altezza di intelletto, originalità di pensiero e vivacità d'ingegno), di tempo dato al corteggiamento (o comunque all'osservazione del comportamento, dello stili di vita e di pensiero). Il contrario, insomma, del fugace dialogo strappato estemporaneamente dal rumore alla sconosciuta presa fra la folla. Per “vincere di mille secoli il silenzio” la poesia ha bisogno di avere intorno a sé innanzitutto silenzio, non musica a tutto volume! Solo nel silenzio possono essere uditi i “colloqui, sogni e taciti pensieri” su cui viaggia il messaggio della bellezza poetica con cui un uomo si può accostare alla bellezza del corpo femminile (altrimenti destinata alla corruzione del tempo e della morte) e all’anima di colei che ne è portatrice (con cui instaurare un dialogo in cui il continuo sotteso flusso di ricordi, richiami e speranze sia più profondo del significato puramente convenzionale e razionale delle parole esplicite). Nel chiasso della discoteca qualunque uomo, privato di questo tipo di parola arcana, è soltanto giullare davanti alla bella donna. Le sue parole, difatti, prive del silenzio da cui dovrebbero essere circondate per essere riconosciute come tali, non possono più portare un significato proprio, ma solo far ridere per il significante.
Ecco che quindi, noia mortale a parte, non mi dispiaceva avere una “missione” che mi esonerasse dal dovere di “corteggiare” in quel luogo.

Un cultore dell’andamento bimembre e della metrica perfetta del Petrarca non avrebbe avuto più alcuna dote “poetica” immerso in quel rumore moderno. Uno come me abituato al periodare ampio ed armonioso del Boccaccio, degno dell’eloquio latino, si sarebbe sentito impotente a comunicare, una volta costretto a parlare con frasi elementari. Figuriamoci che sarebbe stato di quelle mie tanto decantate (dagli altri) doti “dialettiche” le quali, per “sedurre”, avrebbero almeno prima dovuto palesarsi con la modulazione della voce, la scelta dei vocaboli e dei temi nelle cose raccontate! La voce poteva essere udita a stento solo se gridata (altro che modulazione e scelta dei toni!), i vocaboli dovevano essere i più noti e banali (lectio facilior, altrimenti è improbabile la comprensione in ambiente rumoroso) e di temi da far emergere con racconti più lunghi di tre frasi non era nemmeno il caso di parlarne (pena sgolamento da un lato e impazienza o noia per la ricezione disturbata dall’altro).
Tanto valeva restare fedele, se non ad Eva, almeno alla parola data a lei (“io resto qua”). Non so se quel mio contegno potesse essere letto fantozzianamente come una sorta di corteggiamento mascherato, So solo per certo che mi piacque pensare così per trovare qualcosa di dolce anche nell’amaro di quelle ore di noia mortale.

Parafrasando ancora Brecht, anche la serata più noiosa eterna non è ed infine Eva tornò. Nemmeno si ricordava più che ero rimasto a tenerle il posto ed ebbe un attimo di meraviglia nel trovarmi ancora “di guardia” dopo tante ore (forse avevo fatto colpo?). Tornammo tutti in auto (guidavo io che ero stanco ma almeno non avevo bevuto nulla). Le due sorelle raccontavano esperienze contrastanti sugli stessi ragazzi. Alla minore un tipo era piaciuto, mentre alla maggiore no: “ma come, mi intorta quello con gli occhi azzurri e poi mi lascia al suo amico con gli occhi marrone merda” (i suoi giudizi cromatici erano decisamente tranchant)”. Eva non diceva nulla. Pareva stanca come me. Solo Matteo continuava a parlare, non capivo neanche io di cosa. Raramente avevo fatto tanto tardi. In albergo, andai subito a dormire, con grande disappunto di Matteo (“ma come, non vai a provarci con Eva? Io ci provo”), per il quale quella doveva essere l’occasione della vita. “Le ragazze in vacanza sono diverse da come sono a scuola” – mi aveva istruito nel pre-serata - “magari fuori dal controllo sociale la danno al primo ragazzo carino che le approccia, mentre l’amico fedele che le ha corteggiate per un anno rimane a bocca asciutta solo perché è rimasto a casa e non si trova nel posto giusto al momento giusto”. Uscì dalla camera diretto nella zona dell’albergo in cui la nostra comune amica si era “ritirata in branda” (come soleva dire). Io mi addormentai subito senza neanche pensarci. La mattina dopo seppi subito da Matteo: “molto bella e molto simpatica la nostra Eva, ma non la dà”. Mi meravigliai della sua meraviglia. Solo un illuso può pensare di avere grandi speranza con le donne cosiddette “emancipate”.

Se già è difficile (in ogni tempo e luogo) conquistare i favori delle donzelle con ricchezza, fama e potere, figuriamoci senza, ovvero quando la donzella in questione non vuole (né ha bisogno di) ottenere vantaggi economici, di posizione sociale o di carriera.
Solo chi parte dall’errato presupposto dell’uguaglianza può pensare che liberalizzando i costumi la conquista diventi più semplice (“senza giudizio morale e con meno controllo sociale le donne possono concedersi più spesso” si sente ripetere come un mantra dai progressisti). Il problema è che si parla di conquista proprio perché fra uomini e donne, ovvero fra garzoncelli disianti e belle (o presunte tali) disiate, c’è in fondo una disparità di numeri e desideri (in termini di amore sessuale) voluta dalla natura per fini afferenti la propagazione e la selezione della vita (irriguardosi quindi a concetti speculativi quali felicità individuale e dignità umana), favorevole grandemente alle donne e da queste sfruttate senza limiti remore né regole per fini variabili dal legittimo interesse personale al gratuito sfoggio di preminenza erotico passando per sadico diletto o prepotente vanagloria. Se avessero il medesimo desiderio, allora forse le donne, emancipandosi, diventerebbero più trattabili, ma poiché il desiderio è dispari, divengono anzi semplicemente più stronze.

Allora non avevo piena contezza di ciò (i lunghi anni passati a speculare sull’amor platonico mi tenevano ancora lontano dalle verità scientifiche che Schopenhauer con la sua metafisica dell’amore sessuale ha anticipato) e d’altronde Eva era ben distante dal prototipo della “stronza”, ma la vicenda mi è comunque servita da ammaestramento.
Se una donna ha già giovinezza, ricchezza e bellezza, o desidera un uomo ancora più giovane, più ricco e più bello, oppure uno che eccella in campi diversi: l’arte, lo sport, la grande cultura. Impossibile che si accontenti di colui che appare “affascinante” solo a donzelle la cui bellezza non può permettersi di selezionar oltre! Ma davvero, come poteva Matteo, con il suo aspetto simpatico certo ma non bello, con il suo status sociale decoroso certo ma non altolocato, di far colpo su una come Eva?

“Tu non ci hai neanche provato” mi accusò subito. Non poteva sapere che nella sera stessa in cui lui ha ricevuto il due di picche, io avevo, di fatto, tentato l’unica strada possibile: mostrarmi eccellente in quanto è sempre più raro negli uomini, ovvero la fedeltà alla parola data. Eva se ne era accorta (e sorpresa). Se ciò fosse stato sufficiente per avere il suo cuore sarebbe stata ella a dirmelo. Non potevo certo rovinare l’immagine di cavaliere sì devoto e fedele faticosamente costruita in una notte di guardia ad un nulla andando a bussare alla sua porta come l’ultimo dei mendicanti d’amore! Se ciò fosse stato sufficiente, allora probabilmente, avrebbe significato che Eva voleva da un uomo qualcosa che io non avevo. Mi ha risparmiato fatiche future.

Non ho mai più puntato sulle “belle ricche ed emancipate”. Solo se una ragazza ha un motivo per interessarsi a noi (un interesse economico da conseguire, una posizione lavorativa cui accedere, una luce di fama e cultura di cui ammantarsi) può, eventualmente “innamorarsi”. Chi ha già tutto può vedere gli uomini soltanto come un trastullo, con cui nemmeno spesso divertirsi, ma di cui farsi beffa, o al limite, come spesso ci viene posto sotto gli occhi, diventare lesbica. Schopenhauer diceva che per la donna l’uomo è solo un mezzo il cui fine è il bambino. Vedendo come si comportano certe “star femminili” di oggi (e come esse vengano copiate da tante “emancipate” che dopo uno o due figli scacciano i mariti dalla propria vita o che addirittura considerano “stalker” gli uomini seriamente innamorati) viene da dargli ragione. Io sono comunque meno drastico e vedo il comportamento amoroso delle donne semplicemente simile a quello di un viaggiatore di booking amante della montagna come me. Se non ho motivo per recarmi in nel paese su cui l’hotel che si pubblicizza, nessuna vantaggiosa offerta e nessuna fantastica wellness potrà convincermi a non cestinare il messaggio. Se però ho un motivo per recarmi in una location (nel mio caso alpinistico), allora anche questo o quel servizio reclamizzato diventerà gradito, la wellness sarà paradisiaca ed anche il più mediocre degli hotel, se l’unico disponibile in zona, diverrà reggia.
Bisogna, insomma, saper essere una tappa quasi obbligata del percorso che la donna ha stabilito per se stessa. In caso contrario, non si sarà mai visitati. Le disparità naturali favorevoli alle donne, di cui persino Rousseau si era ingenuamente accorto, vanno bilanciate dalla società (come ha sempre fatto il mondo della tradizione iniquamente criticato dal femminismo come “oppressione) o vanno lasciate bilanciare dagli individui (come accaduto fino all’altro ieri prima dell’ultima della demagogia femminista dell’uguaglianza di genere che scambia l’equo e umano tentativo degli uomini di bilanciare il privilegio femminile per frutto addirittura di “discriminazione”), i quali devono saper costruire valori immediatamente apprezzabili ed intersoggettivamente validi al pari della bellezza di cui la bella donna senta bisogno e brama di intensità pari a quanto da noi provato per le sue grazie.

Non dico quindi le donne siano incapaci di apprezzare le nostre doti di sentimento o intelletto al di là di una dimensione strumentale e utilitaristica, ma solo che devono avere un buon motivo per farlo. E i buoni motivi vanno costantemente dall’interesse materiale diretto (pay) o indiretto (indipay) alla prospettiva di ingresso in un mondo apparentemente dorato (una certa carriera, un certo ambiente, una certa immagine sociale).
Non avevo nulla di tutto questo da offrire ad Eva, che peraltro non ne avrebbe avuto interesse. Ecco perché stavo facendo con lei proprio come quell’idealista di Platone aveva fatto col mondo: guardando per aria, fra le bellezze dell’iperuranio, quando un più terreno Aristotele avrebbe potuto indicare la via terrena per raggiungere la donna ideale.

Del resto, ero ancora troppo innamorato di Elisa per desiderare davvero Eva come amante sensuale. L’idealismo letterario appariva dunque come il tipo di rapporto ideale da ricercare in quel momento da parte mia. Ecco che quindi le proposi una relazione epistolare. Ella mi lasciò il suo indirizzo ed io, appena a casa, le inviai una lettera che iniziava così:

Anno MMDCCLI post urbem conditam
Die tertio ante kalendas Augusti mensis (trad: 29 luglio 1998)
Flavius Evae salutem dicit
Si vales bene est ego valeo.
Così si porgevano i saluti i grandi prosatori latini, i fondatori della parola scritta, grazie ai quali noi oggi possiamo comunicare i pensieri che l’anima schiude novella. Così usavano salutarsi i grandi umanisti del Quattrocento, coloro che ci furono maestri della capacità e l’ordine del dire, senza le qual cose la ragione stessa sarebbe inutile. Sull’elogio della parola torneremo in seguito.*

Alla lettera scritta in word e stampata, avevo allegato anche una versione manoscritta, dato che proprio Eva aveva espresso il desiderio di corrispondere “all’antica”, ovvero con carta e penna, senza l’intermediazione del “freddo calcolatore” e della “anonima stampante”. Voleva insomma vedere la mia grafia. L’oggettivo problema (tuttora irrisolto) dell’inintelligibilità di quest’ultima mi aveva però convinto a violare in parte il suo desiderio.

Prima ancora di fornire una spiegazione di questo inusuale incipit, mi premuro di chiedervi umilmente perdono se siete costrette a leggermi in stampatello per via della mia grafia incomprensibile e indecifrabile più dei geroglifici egiziani o Assiro-Babilonesi. Provate a pensare che come quelle scritte ci vengono alla luce dalle più secrete tenebre e dal più profondo silenzio di monumenti funebri, questi scarabocchi, che voi ora avete in mano, sono stati composti dagli abissi più reconditi di una coscienza ugualmente indecifrabile, di un’anima parimenti sprofondata nell’oscurità del vivere e che trova ristoro unico a’ mali nella letteratura, nell’analisi e nell’esplicazione delle proprie problematiche. Se queste mie parole ancora non vi convincono, pensate a Svevo, il quale riteneva lo scrivere una terapia dal male di vivere (che voi ben conoscete, avendo letto e apprezzato Montale, tra l’altro amico del prosatore triestino e unico all’epoca ad averne inteso la grandezza) e concedetemi il privilegio di sapere queste mie parole lette da voi.
O quale incommensurabile sciagura, quale sventura immensa, se un simile banale problema di scrittura, legato a contingenze materiali, compromettesse questa incipiente relazione epistolare, che nelle intenzioni mie (e anche vostre, come mi parve di comprendere nelle conversazioni che ebbi il privilegio di intrattenere con voi) dovrebbe porre le fondamenta di una nuova rivista di prosa e di poesia e di un novello costume letterario. Comunque sappiate che, pur di compiacervi, sarei persino disposto a continuare a inviarvi una copia scritta a mano, anche se mi sono ormai abituato a comporre direttamente al computer (passatemi l’inglesismo, ma il termine italiano di elaboratore mi sembrava quanto mai inadeguato….). Fatemi pervenire i vostri desideri in proposito: se potrete rinunciare alla copia scritta a mano (la quale sarà veramente copia, non originale) mi risparmierete tempo prezioso, se la vorrete, sarà per me dolce faticare. Lasciate però ch’io vi porga una domanda: “viene tolto qualcosa alla poesia di Catullo se invece che sulla pergamena viene letto sulla volgar carta di libro moderno? Vorrei voi mi riconosceste non già per la stravaganza dei segni grafici o per l’incedere della penna sull’inchiostro, ma per la sonorità della parole e la giustezza de’ principi.
D’altro canto, comparve mai letteraria rivista a mano scritta?
Lasciate ora che mi soffermi sulla vitale importanza, nell’attuale società Italiana dimentica della gloria passata e della missione poetica che le spetta, di una Repubblica Letteraria. Affinché possiamo vedere un giorno il mare Latino che dalle sarde piagge si mira non solo coprirsi di rossore al primo spuntar della diurna lampa, ma anche rosseggiare di gloria nello sconfinato orizzonte, si da poter rivolgere in coro, al Sol Oriens gli immortali versi del Rinascimento D’Annunziano “Italia, Italia, sacra alla nuova aurora con l’aratro e la prora”, è vitale un rifiorire, un rinascere, un ritemprarsi della parola scritta. La maggior parte dei mortali si lamentano della malignità della sorte patria e additano come colpevoli i fattori e gli uomini più disparati, senza rendersi conto di come il principio del destino risieda dentro di loro, nel soffio verbale. Se ci furono a cuore gli insegnamenti dei poeti maledetti e dell’estetica simbolistico-decadente, gli è che l’onore, gli interessi, l’avvenire ferreamente impongono, molto Kantianamente, una rivoluzione Copernicana del pensiero: non è la letteratura lo specchio della società malata, ma questa è malsana perché corrotta è la letteratura contemporanea. Come per la corruzione di Firenze Dante lanciava il dito accusatore contro la “gente nova e i subiti guadagni”, ogni mente vagamente idealista (in senso etimologico e filosofico, senza le accezioni moralistiche che oggi purtroppo questo termine ha assunto) e abbastanza salda da poter sostenere le responsabilità della scrittura non può non riconoscere nel proliferare di autori stranieri, nell’immigrazione senza controllo di barbare parole (la gente nova) e nella necessità di compiacere il pubblico per motivi economici (i subiti guadagni) le cause dell’odierna sventura d’Italia.

La lettera proseguiva con un approfondimento dei pareri letterari che ci eravamo scambiati in spiaggia.

Dopo la vostra dipartita, villeggiante dichiarò “Parini e Alfieri, autori che non ti dicono nulla!” Quanto dura fu, e quanto grave la fatica di trattenermi dal rispondergli: “lo mondo è cieco e tu vien ben da lui!” Non ti dice niente Parini? perché ti colpisce, perché il sacerdote di Talia lancia dardi contro il giovin signore che tanto ti assomiglia! Non ti dice nulla Alfieri? perché sei servo de’ potenti, incapace di eroica ribellione!
So che sarete tentate di stimarmi pazzo per aver esordito con un siffatto incipit latino, come so anche (lo diceva Leopardi) che qualsiasi uomo non piccolo di questa terra ha avuto questo nome, e poiché sarebbe mio insopprimibile desiderio fare di questa rivista letteraria (che con la presente vorrei fondare assieme a Voi previa breve, si fa per dire, introduzione) un appuntamento sincero, universale e solenne, come il perenne ritorno della primavera, ardo sperando che anche voi inizierete così le vostre lettere. Vi basterà porre prima il vostro nome al nominativo (Livia) e volgere il mio al dativo (Flavio)
In tal modo le nostre lettere avranno qualcosa di eterno e di imperituro che non l’impeto degli anni, non il fluire dei secoli, non la forza dei venti, nè la furia delle onde potranno mai intaccare. Quelle antichissime forme di saluto saranno come il fruscio delle fratte al soffio della marina brezza: brevi, fuggevoli e impalpabili nella durata, ma imperiture, eterne e semprerinascenti nel loro periodico ritornare.
I modi della comunicazione variano, mi rammentaste, ammonendomi, un giorno, allora la poesia oggi la musica, domani il silenzio allora la pergamena oggi la carta domani lo schermo, ma tempo già fu che siffatte frasi risuonarono (pensate alla polemica del Monti contro i Romantici) e periodicamente ritornano, come l’onda che il maestrale sospinge. Ebbene, guardate attente addentro la questione e facilmente comprenderete quanto di immutabile e di imperituro vi sia nelle espressioni de’ mortali, sospesi nell’eterna notte, e quanto errino dal vero coloro che le esaminano secondo la categoria del mutare. Sì come il mare si compone di infinite e diverse onde e si mostra in riva con flutti ora piani ora violenti, ora cheti ora mossi, ora lunghi e regolari come respiro di riposo, ora brevi e franti, come palpito d’affanno, ma cionondimeno una è la substantia sua, una la sua consistenza, uno il suo muoversi, una la sua legge, similmente l’umana comunicazione appare sotto diversi sembianti a chi superficiale la scruta, ma unica e immutabile si rivela a chi vi si immerge pienamente. Ecco allora che quest’acqua di pianto si condenserà nelle forme universali del lamento umano, che Lucrezio, Petrarca, Leopardi in poesia e Cicerone, Boccaccio e D’Annunzio in prosa una volta per tutte fissarono, non diversamente da come gli scultori achei, con decisi e sapienti colpi di scalpello forgiarono le statue divine.
Lungi da me l’intenzione di apparirvi un laudator temporis acti: l’utilizzo di uno stile, di un linguaggio e di un sentire ripieni di tradizione letteraria non si configura in me come un nostalgico sospiroso vagheggiamento di un’atmosfera nobile e arcadica, o di un ritorno umanistico all’antiqua vera docta religio (o di un rimpianto dell’innocenza primigenie fine a se stesso), bensì come l’anelito a una dimensione eterna e incorruttibile da contrapporre al mondo transeunte, a un’ideale di bellezza uno (e non trino o quattrino qual dir si voglia) nello spirto eppure molteplice nelle manifestazione, a un universo illimitato nel tempo e nello spazio, in una parola, all’Infinito.
D’altra parte la scelta stessa di affidarsi a una tastiera e ad una stampante per impregnare materialmente la carte d’inchiostro dovrebbe bastare a fugare ogni dubbio riguardo la modernità di chi vi scrive.

Ella aveva accettato (forse prendendola in ridere) la mia proposta di avviare assieme una novella rivista letteraria, sul modello di quelle ottocentesche. Forse a questo si riferiva quando, per giustificare la sua simpatia nei miei confronti, diceva che il mio ricordo le sarebbe stato gradito nelle sere d’inverno allorquando “è necessario avere qualcosa di divertente da raccontare agli amici davanti al caminetto”.

Pensate piuttosto al titolo della rivista e ai nomi sotto i quali ci vorremmo presentare, apprestandoci a passare, attraverso memoria dei posteri, nell’eterno letterario, ove, anche quando il fato avrà reso silenziosa di gemiti e di pianti questa terra, l’armonia vincerà di mille secoli il silenzio. Ogni rivista letteraria che si rispetti, infatti, a partire dall’Arcadia, ha visto i propri membri fregiarsi di nomi liberamente inventati, ispirati alla poesia classica, traboccanti di tradizione e grondanti di sudate carte, ma non fasulli, anzi più veri di quelli reali (direbbe Pirandello), proprio perché capaci di esprimere e riecheggiare, con suono immediato, le istanze e le movenze più profonde dell’animo.
Se risulterà a voi gradito, mi prenderei la libertà di chiamarvi Livia, nome Romano e nobilissimo, con cui da Orazio a Carducci gli uomini di lettere usavano appellare, ed eternare come dee, le doctae puellae immortali per grazie e per beltà. Quanto alla mia modesta figura, sarebbe onore sconfinato e travalicante i miei meriti rispondere al nome di Tullio, parola che scrivo con riverenza infinita, sapendo di non meritarla, ma che al contempo m’accende il petto e la penna mi protende nella brama di emulazione a egregie opere.
Se per il titolo gradirei un vostro prezioso e certamente mirato suggerimento (“nuova Arcadia” “la novella Recanati” “l’Italia in lettera” “parole d’Ausonia” non mi convincono), per quanto riguarda i contenuti avrei chiara e delineata nella mente la struttura. La rivista si comporrà di due parti: la prima, di argomento vario, difenderà comunque a spada tratta la letteratura in ogni odierno campo di battaglia, tramite l’invettiva polemica, e sarà composta dalle Sardinianae disputationes (dispute ispirate dal luogo in cui nascono, come le Tusculanae di Cicero), mentre la seconda, più propriamente letteraria, tratterà di versi e di poeti, con commenti formali e innovative analisi. Per sottolineare la dialettica platonica di questa rivista, e fugare ogni dubbio di dogmatismo, sarò io a proporre la disputatio, mentre sarete voi, se l’idea vi aggraderà, a suggerire l’argomento letterario di vostra preferenza.

Prendevo poi io l’iniziativa proponendo la prima delle “dispitatio” (il nostro dialogo a distanza avrebbe dovuto svolgersi come una disputazione accademica medievale: tesi contro antitesi.

Per ora, come lettura estiva fungente da introduzione generale, vi spedisco il “dialogo sopra l’estetica”, una delle mie prime opere giovanili, e per questo intessute (forse troppo) di retorica e di voci altrui. Questo dialogo platonico (sul modello di quello di Tullio, quello autentico) non presenta, lo devo riconoscere, idee innovative nel campo della teoria dell’arte, ma se vi degnerete di leggerlo in riva al mare dell’infinito, con i “capei d’or a l’aura sparsi” e con il tremolar de la marina a riecheggiare i vostri pensieri e il vostro soave respiro, certamente potrà risuonarvi nuove verità, poiché, come scriveva Keats (poeta a me dolce e caro perché simile, di penna e di sventura, al Giacomo illustre) : “Beauty is Truth and Truth is Beauty”.
La scelta di aprire così la rubrica letteraria è motivata da una considerazione sull’epistemologia dello scrivere: il bello è a fondamento di ogni arte, anche della letteratura, e solamente da esso possono discendere il vero e la morale, “così come raia da l’un se si conosce ‘l cinque e’l sei”, al contrario di quanto ritenevano quei tali spiritualisti cattolici (?) milanesi che non voglio nemmeno nominare.
Frattanto, sperando comprendiate la questa mia posizione, non posso far altro che comporvi la dedica:
“cui dono lepidum novum libellum arida modo pumice expolitum? libenter doctae puellae dono”
Come ogni rispettabile rivista, la nostra dovrà uscire almeno una volta al mese, per cui, a partire da settembre, “disputerò” regolarmente, secondo il programma allegato a questa lettera.
La prima disputatio, che per colpa del reo tempo non ho potuto inviarmi da subito (pur avendola già quasi totalmente redatta), s’intitolerà “la letterarietà del vivere” e sarà un profilo non storico, non formale, non politico, non sociale, ma personale e vissuto della letteratura italiana. In esso dimostrerò come non sia possibile trovarsi, nel bel mezzo dei continui affanni, immersi nella quiete della natura, senza rimanere “con gli occhi incerti tra il sorriso e il pianto” e senza sussurrare “e sempre corsi e mai non giunsi il fine/ e dimani cadrò”, come non sia concepibile sedersi dietro una siepe senza naufragare nell’infinito della propria interiorità, quanto sia arduo, sul far della sera, non riflettere sulla visione della morte quale “fatal quiete”, ovvero fine del continuo struggimento.

Cercavo di spiegare cosa intendessi per “letterarietà del vivere” e cosa (di diverso tanto dalla pedanteria quanto dalla voglia di far colpo) riempisse dunque i miei dialoghi con lei di citazioni poetiche.

Non già di tentativi di interpretazione si tratta, bensì di una ricerca interiore che parte dalla lettura dei versi per giungere nel profondo dell’anima, per perdersi nei meandri dell’inconscio, per divagare liberamente nel mare dei sentimenti, assolutamente svincolata dello studio imposto dall’esterno e soprattutto dalle catene della critica letteraria (in interiore homine stat veritas, sosteneva Sant’Agostino).

Come ogni uomo di buona volontà dell’Ottocento, degno del Conciliatore piuttosto che del Caffè, lanciavo poi il senso del mio “Programma letterario”.

Le poesie saranno dunque trattate non come reperti archeologici dai quali ricostruire un’epoca o un mondo interiore, non come testimonianze di storia o universi di immagini, ma come lamenti di uomini e sospiri di anime, come cupe grida e dardi luminosi che giungono fino a noi attraversando indenni l’oblio del tempo, squarciando i tenebrosi veli del ciclo di natura.

Non potevo infine non cadere anch’io nella galanteria (del resto, dopo diverse pagine dovevo pure un minimo sindacale alla vanità femminile di una lettrice tanto paziente). Dopo aver ingentilito la mia classica misoginia ricordando come sia stata un’insegnante donna a farmi amare per prima la letteratura (quando prima amavo solo la matematica), iniziai ad insinuare che ella avrebbe potuto essere la mia musa. Troppo timido per dirlo esplicitamente, mi servii dell’espediente letterariodel ritrovamento di un foglio in una bottiglia.

Come Dante ebbe accanto Beatrice alle porte del paradiso, così gentile insegnante di lettere mi fece amare la poesia ed intrare in quel mondo, e ora gentilissima donzella mi ispira freschi pensieri.
Quasi a testimonianza di ciò, poco dopo la vostra partenza rinvenni, in verde bottiglia fluttuante sull’onde, gionta a riva da chissà qual rimota isola, un manoscritto scampato all’impeto del Tirreno tempestoso. Lo trovai nel primo meriggiare, allorché, senza il volto vostro radioso, il sol più cupo splendeva, privo del sì gran raggio e la biancheggiante riva meno rideva, poiché più non risuonava della vostra favella La spiaggia ardeva di bionda arsura e sul liber ciel parean sospesi per magia o per incanto i sensi: era l’ora panica, quando dispiegai quel foglio ripieno d’odi e di sonetti, di canzoni e di madrigali, scritto forse da un naufrago nel mar dell’infinito. Non trovate sia un segno del destino che tali scritti si siano salvati? Allo stesso modo allora forse, come scrisse Orazio, chi scrive non muore del tutto, forse una parte di lui eviterà Libitinia.
Non invierò tutti assieme quei componimenti odoranti di sale, provocherebbero troppo fragore, ma ve li distillerò uno ad uno, come le gocce di pioggia cadenti sulla solitaria verzura con un crepitio che dura.
Spero intanto accettiate il primo sonetto di questo anonimo di cui conosciamo soltanto il verso.
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Quel picciol angol dell’alta Sardegna
Ove impera il soffio dell’Eolo invitto
Sull’aurea piaggia di beltà pregna
Mi libra, nell’aria, in alto tragitto
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Con l’alma; e la fronda, che varia, insegna
Novelle parole all’animo afflitto.
Non donna ma dea porger si degna
Le man divine al terrestre sconfitto
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E lieve in chiare fresche acque raccoglie
Lamenti e grida delle umane proli
Cui crudel fato giovanezza toglie;
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E non mi cal di cader da que’ voli
Qualor di lontan, da fratte o da foglie,
uno spir di gentil aura consoli.
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La struttura metrica, come potete notare, è quella classica, 2 quartine e 2 terzine di endecasillabi in rima alternata (abab abab cdc dcd)
L’incipit risulta invero un po’ montiano, e troppo letterario, con quell’aggettivo arcaico “picciol” e soprattutto quella rima in “itto” che riecheggia il “tragitto” del protagonista dell’ode al signore di Montgolfier. La prima quartina è però soltanto uno spunto idilliaco: il tragitto del poeta è tutto interiore (con l’alma) e i frequenti enjambemeunt evidenziano come l’espressione lirica travalichi la rigidezza della metrica, a simiglianza del pensiero fuggente dalla ragione. Il ritmo franto che ne risulta esprime efficacemente l’assonanza tra il palpito di passioni e di ricordi e il ritmo perpetuo dell’onda che giunge a riva sempre sospinta dall’onda che segue. La rima interna tra i versi 4 e 5, di ascendenza chiaramente D’Annunziana (come, del resto le novelle parole) “aria/ che varia” reintroduce il flusso vitale, l’onda dei ricordi e dell’esistenza in un paesaggio altrimenti di maniera e ipostatizzato. In un’estasi panica il poeta si confonde e si immerge nel semprerinascente flusso vitale, nel continuo farsi e nel dissolversi di belle forme; egli rivede nella caletta di Porto Cervo le “man divine” della donna amata o di una dea silvana (ma le due figure si identificano e si compenetrano nell’armonia del paesaggio) soavemente racchiuse per accogliere le acque nitide e tranquille, nelle arboree vite protese sin su la riva le aulenti chiome di quella divinità intinte nell’acqua di mare che soave ella beve e tange con dolce di Calliope labbro. Il poeta si inebria di poter rimirare nelle grazie della natura quelle dell’amata e cogliere nel fluire delle forme e dei suoni il palpito della vita universa.
Egli allora diviene veramente “un mistero musicale con in bocca il sapore del mondo” e si identifica con il puro ritmo armonioso da cui diramano l’uomo e le cose.
Le parole altisonanti e arcaiche perdono allora l’aspetto raffinato fino alla leziosità e aulico insino all’artifizio per modularsi in un suggestivo succedersi di immagini e di emozioni, di fonemi e di analogie, mentre l’artefice del verso, da miniator di vocaboli qual era si fa vero e proprio scultor di sensi. Non ci è dato di saper chi ei sia stato, né per qual moto o sventura sia passato, ma possiamo ricostruire la vita più vera, quella della sua coscienza. Se egli dice forse addio ad amante usata compagnia, o piange la cara compagna di riso e di diletto, o chiede onde è gita l’esca del cor suo, o rimembra le passate speranzose gioie, i giorni colmi di piacer figlio d’affanno, o immagina sollazzi che potevano e non sono e in essi dispera del dire “io fui”, o ancora riflette sulla sorte umana, sul fluire incessante del tempo, sulla fugacità della giovanezza perduta in faticati travagli, lingua mortal non dice le pene sue, e rimembrando e vagheggiando fonde il proprio grido con il lamento eterno dell’umanità. Quando però la voce del mare varia nell’aria a riprodurre l’onda dei suoi ricordi e dei suoi sospiri, una soavità novella gli si schiude dal profondo assieme alle lacrime, più dolce ancora della speranza e della nostalgia armoniosamente fuse. Ecco la vera essenza della felicità, lieve e profonda, impalpabile e granitica, fuggevole e imperitura! Ecco da quel mare luccicante per i dardi luminosi del dì e limpido come di pianto intensificarsi il vento che lo accarezza, lo avvolge, lo trasporta. Non importa che con esso fugga anche il soffio vitale dei desideri, delle aspirazioni, della giovinezza: ora, a quella “balaustrata di brezza”, è finalmente appoggiato anche lui.
Se anche voi avete percepito talvolta una simile brezza spirare dal fondo dell’anima, allora comprenderete appieno il messaggio dell’anonimo, e sarò lieto di inviarmi le rimanenti rime, se invece riderete delle sue parole e di chi ve le riporta, sarà comunque per me “riso c’accheta ogn’aspra pena e dura”.
Vale (state bene)
Devotamente vostro.

A vent’anni di distanza, non ho ricevuto risposta a questa missiva. Si accettano dunque scommesse sulle seguenti possibilità:

a) Eva non ha mai ricevuto la lettera perché le Poste Italiane sono specializzate nel perdere le missive più importanti (come del resto destino in ogni tragico rapporto epistolare romantico);

b) Eva ha ricevuto la lettera, ma, colpita dal peso del “malloppo” (inviai una busta con le 8-9 pagine della lettera stampata più i fogli del corrispondente manoscritto), l’ha subito cestinata (magari scambiandola per pubblicità) senza nemmeno aprirla;

c) Eva ha aperto la lettera e l’ha davvero utilizzata per “riscaldarsi con gli amici nelle lunghe sere d’inverno”, ma in senso letterale, come gli amici della Boheme fanno del dramma di Marcello (che scoppietta bruciando nel caminetto);

d) Eva ha aperto la lettera, e ha iniziato a leggerla, ma arrivata alla terza pagina, si è addormentata;

e) Eva ha aperto la lettera, l’ha letta tutta e si è fatta una risata (che ha ucciso il mio ricordo);

f) Eva ha aperto la lettera, l’ha letta tutta ed è rimasta senza parole (per motivo imprecisato). Forse sta ancora piangendo (non necessariamente di gioia).

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QUARTO GRADO: DA MARSILIO FICINO A FRIEDRICH NIETZSCHE (7/18)

Ovvero: "LE DONNE, I CAVALLIER, L’ARME, GLI AMORI, LE CORTESIE, l’AUDACI IMPRESE"

Parte 7 di 18 : “Le donne: Paola”

In ogni romanzo di formazione, o comunque contenente la narrazione del periodo più giovane e spensierato della vita di due amici, destinati poi a diverse vicende sentimentali ed esistenziali più o meno drammatiche, c’è sempre almeno un’amichevole ed altrettanto giovane e spensierata figura di donna capace di volteggiare con leggerezza, quasi di aleggiare, su diverse scene di divertimento più o meno piccante, senza legarsi ad uno dei due, ma rimanendo, per così dire, equidistante fra essi. In “Jules e Jim” (romanzo che ha ispirato l’omonimo, bellissimo, film di Truffaut) ve ne è più d’una, ad allietare soprattutto il lettore che scorre sulle pagine narranti delle nottate di belle epoque in una Parigi occupata da giovani gaudenti e da modelle nude che improvvisano boccacceschi concorsi di bellezza. Sono quelle notti in cui, come in un carnevale gigantesco, ogni usuale costume sociale (ma anche naturale) sembra sospeso o, per così dire, rilassato, e, come fiere che inspiegabilmente ballano assieme agli agnelli, persone dell’uno e dell’altro sesso giocano quasi nude senza malizia, espongono i loro corpi senza calamitarsi l’un l’altra, si toccano e si sfiorano senza sottendere contatti definitivi. Quasi che le leggi dell’attrazione naturale e i codici culturali dell’approccio della interazione fra i sessi non avessero più luogo, in quelle notti parigine pare realizzarsi la versione moderna e vivente di quei dipinti pagani o cristiani in cui le veneri e gli amorini, oppure gli angeli, giocano fra loro sopra il mondo e nonostante il mondo. Non so se Henri Pierre Rochet abbia tratto quelle scene dalla propria vita o dalla propria fantasia, ma, almeno in un caso, qualcosa di simile, anche se un po’ meno piccante, è stato vissuto anche da me durante la vacanza estiva post-maturità in Costa Smeralda del 1998 in compagnia del mio amico Matteo di cui ho appena raccontato. La protagonista femminile della vicenda si chiamava Paola ed era una ricca ed annoiata ragazza della Milano bene (anche nel romanzo francese, del resto, queste emancipate libertine provenivano da famiglie ricche o addirittura aristocratiche e la loro “trasgressione”, o comunque il loro mettersi a disposizione di una vita almeno momentaneamente bohémien, pareva quasi un mezzo di ribellione esistenziale rispetto alla propria origine privilegiata). Nel nostro caso non vi era alcuna coscienza ribelle e forse neppure troppa coscienza di sé in senso lato, ma solo, forse, tanta noia e qualche vaga fola romantica attesa e disattesa.

La maggiore delle sorelle milanesi cui si è accennato nel capitoletto precedente, non smentendo la propria acidità di giudizio nei confronti del prossimo (ed ecumenicamente distribuita fra ragazzi e ragazze), aveva addirittura subito additato Paola quale esempio negativo della “gioventù che non solo non ha più ideali ma non ha più neanche uno sguardo minimamente attento per esprimere un giudizio. Guarda quella ragazza là, per esempio. Prima le ho chiesto – cosa ne pensi di questo posto – e lei non ha saputo dire altro che: boh. Apatia totale”.
In effetti la prima impressione era oggettivamente più o meno quella. Capelli banalmente tinti di biondo (come una tipica finta bionda di Vanzina), trucco pesantissimo, sguardo perso nel vuoto, quando aspettava l’ora di cena seduta al bar della piscina, Paola sembrava, absit iniuria verbis, una escort non più freschissima in attesa di qualche cliente più per dare un senso ad una serata noiosa che non per cosciente brama di guadagno. Eppure non aveva neanche vent’anni.
Guardandola meglio, però, qualcosa di non così banale poteva essere intuito. Aveva occhi chiari che, forse, non erano tanto annoiati quanto rattristati da una speranza sempre più lontana. I capelli non erano corti come quelli di una “maschietta” di mussoliniana memoria, ma nemmeno lunghi come quelli di certe “miss” incapaci di suscitare interesse con altro dalla propria capigliatura.

Anche il carattere mescolava tratti di mascolina voglia di divertirsi con più che femminei abbandoni post-romantici da letteratura d’appendice. Era stata fidanzata con un (ovviamente ricco) appassionato di rallies, ma diceva di amare la pista. Ecco che quindi gli argomenti di discussione con me non mancavano. “Ma scusa, se ti è sempre piaciuta la pista, perché ti perdevi fra prove speciali e controlli orari?”. “A lui piacevano i rallies, aveva amici che correvano nei rallies e così dovevo seguirli. Ma a me è sempre piaciuta più la pista”. Musica per le mie orecchie, ad un anno di distanza dalla delusione avuta al corso di pilotaggio in quel di Magione. Mi feci raccontare la sua esperienza in quel di Monza. “Una mia amica che amava la velocità come te è stata oggetto di un bello scherzo da parte dell’istruttore. In pieno rettilinei, a duecento all’ora ed oltre, questi le ha tirato il freno a mano e l’ha mandata in testacoda. La mia amica si è tanto spaventata quanto inviperita. Ma lei è un cretino – gli ha urlato, assieme ad innumerevoli altri improperi. E lui ha risposto – no, l’incosciente sei tu che procedevi ad una velocità maggiore a quella a cui saresti stata in grado di far fronte ad un imprevisto, come ad esempio lo scoppio di una gomma posteriore che avrebbe avuto lo stesso effetto del freno a mano”. Io, per niente turbato dalla presunta lezione morale di un siffatto tifoso della lentezza (che ora penso possa identificarsi in un Sigfrid Stohr o simili), le dissi subito: “un pilota ha per natura l’impulso a viaggiare più velocemente possibile. Spetta agli ingegneri, ai tecnici ed ai meccanici il compito di progettare, dimensionare e controllare ogni componente dell’auto affinchè ciò possa avvenire in relativa sicurezza. Se si dovessero immaginare rotture a priori non si dovrebbe nemmeno partire.”

Certo, con la sua esperienza su staccate e traiettorie, era comunque meglio di Eva sotto questo aspetto, la quale era ancora all’ingenua concezione del “percorso a velocità costante”. “Queste della Sardegna sono strade nelle quali, se superi una certa velocità, inizi a slittare”, mi aveva infatti detto la bergamasca denotando la totale ignoranza del concetto di “gas a tavoletta in rettilineo, frenata prima della curva, scelta della velocità di ingresso, riaccelerazione graduale in uscita”. Aveva ella l’ultima versione della Mini Cooper classica (quella appena prima dell’era BMW, ancora con le forme di Issigonis e il motore Rover), con tanto di cerchi in lega da 13, fari supplementari tipo “Monte Carlo” e volantino e assetto “go-kart-feeling” e pensava si dovesse guidare a gas costante come qualsiasi taxista di piazza. “Dipende da dove freni e dalle traiettorie che fai”, le avevo difatti risposto quella volta. Per fortuna, Paola pareva almeno a conoscenza dei rudimenti della guida sportiva, che proprio sulle strade tortuose della Costa Smeralda avrebbe avuto il suo luogo d’elezione.

Conformemente al nostro condiviso amore per la velocità, mi confidò di essere in attesa del nuovo modello di Golf GTI. Per la verità, ad parte di un fiero proprietario di Renault Clio Williams, aspirato due litri con handling da kart, che eventualmente avrebbe preso in considerazione una Peugeot 306 2.0 Rallye per il suo superbo telaio e la sua rapidità nei cambi di direzione (che gli imborghesiti collaudatori di quattroruote chiamavano impropriamente “instabilità” – ma anche l’instabilità è una dota necessariamente auspicabile in un aereo da caccia, a differenza di un airbus), non faceva troppo colpo la IV serie della popolare vettura di Wolfsburg, caratterizzata, nella sua celebre versione di punta, da un nuovo 5 cilindri 1.8 litri con turbo a bassa pressione. Ero della vecchia scuola: o un turbo “grosso”, in grado di raddoppiare o quasi la potenza del motore rispetto all’aspirato equivalente (e quindi meritevole del coefficiente 1.7 moltiplicativo della cilindrata nelle equivalenze FIA), oppure un classico aspirato da alto numero di giri e rumore metallico equivalente. Avere l’aumento di complessità costruttiva e la strozzatura allo scarico del turbocompressore senza averne tutti i vantaggi mi pareva irrazionale. Avrei comunque rispettato la sua scelta (del resto, la III serie della GTI con il 2.0 16v potenzialmente concorrente del mio Renault era uscita di produzione) se avesso optato per la berlinetta 3 porte (guai ad aggiungere due porte in più, antiestetiche e soprattutto peggiorative della rigidità torsionale!). Non potevo invece ammettere che si potesse scegliere addirittura la versione cabrio. “Mio padre ha detto: la vuoi berlina o cabrio? Ed io ho detto cabrio, mi pareva più figo”. Credo, sinceramente, che la sua sia stata l’unica versione cabrio della Golf GTI IV venduta in Italia. Ecco che, dopo tanta piacevole apparenza da maschiaccio (all’epoca non apprezzavo troppo il femmineo in senso caratteriale e dialettico), l’elemento femminile appariva a rovinare tutto ai miei occhi. Questa fortunata ragazza, che avrebbe (come me, del resto) potuto ottenere l’auto dei propri sogni senza troppe limitazioni economiche, anziché imitarmi cercando una delle ultime Williams nuove, anziché scegliere l’alternativa sempre valida della Peugeot, non solo seguiva la massa modaiola dei patiti della Volkswagen Golf GTI (ottima vettura nel 1976, quando iniziò il filone delle minibombe ed era veramente leggera e “cattiva”, ma già non al top nel 1986, con la seconda serie superata in potenza e sportività dalla Opel Kadett GSI 16V, e sicuramente fra le ultime nel 1996, dietro alle francesi e, soprattutto, alla Opel Astra GSI 16V), ma addirittura accettava il maggior peso e la minor rigidità torsionale di una versione “aperta” in nome della “figaggine” da esibire sul lungomare. Come fosse un vestito corto con cui esibirsi! Veramente inaccettabile.

Da quando seppi questo, smisi di discutere con lei di automobili. Piacevole era anche accennare alla storia, dato che mi poteva raccontare di un nonno dirigente fascista o simile, fucilato dai partigiani. Per me che, venendo da una regione rossa, ero stato definito fascista solo per l’aver sostenuto che “a scuola si viene per studiare” e che “Roma è il faro della civiltà a cui in ogni tempo dobbiamo in Italia rivolgere lo sguardo come meta e modello per il futuro”, nonché per oppormi sistematicamente ad ogni socialismo e ad ogni contestazione infettante gli autunni scolastici, non pareva vero poter dialogare con la discendente di un fascista autentico autenticamente perseguitato. Finalmente si poteva discutere senza l’assillo delle domande politicamente corrette come “ma era favorevole o contrario alle leggi razziali?”. Finalmente non c’era bisogno di dover porre dei limiti “etici” (o presunti tali dalla vulgata antifascista) al mio essere di destra per scelta, pensiero e sentimento. Evidentemente, per origine e cultura, ella era già molto più “a destra” di me.

Io, all’epoca liceale, mi ero autocollocato a destra per puro amore del “mos maiorum”, così come avevo imparato ad amarlo leggendo Catone e Virgilio, perché vedevo cioè (molto ingenuamente…) nell’Italia post-unitaria la possibilità di preservare, pur in epoca moderna, quelle tradizioni spirituali e di costume che avrebbero permesso agli Italiani di sentirsi eredi di Romolo, di Cesare e di Augusto (prima ancora che “proletari” o “borghesi” come avrebbero voluto i comunisti, o “tutti figli di dio” come avrebbero voluto i democristiani). L’amore per le virtù degli Antichi (virtù da “vir”, secondo l’etimologia sbagliata nella lettera ma giusta nel senso storico di Cicerone) era così profondamente sentito che qualsiasi richiamo ad essa, da qualunque provenienza storica e politica, valeva la mia incondizionata adesione. Ecco che, grazie all’opera di Virgilio, il programma augusteo era per me quasi frutto della “divina provvidenza”. Ecco che, grazie alle parole di Petrarca (“virtù contro a furore, prenderò l’arme e fia il combatter corto, che l’antico valore negli italici cor non è ancor morto!”), tutta la poesia italiana (cui il cantore di Laura è evidentemente al contempo sorgente e vertice) mi pareva un valido motivo per essere nazionalista anche in politica. Ecco che tutta l’elaborazione politica del Risorgimento, dalla “sinistra” mazziniana del “vox populi, vox dei” alla “destra” liberale di Cavour (il cui lascito storico, assieme all’unità nazionale, fu lo Statuto Albertino, da me all’epoca venerato più della successiva costituzione repubblicana), passando per il neoguelfismo “centrista” di Gioberti (il “primato morale e civile degli Italiani” mi riconciliava pura col Papa) aveva per me motivazioni di fondo degne di nota all’interno di una comune matrice patriottica. Ecco che lo stesso fascismo mi appariva una naturale prosecuzione del risorgimento: quel “volgo disperso” che “nome non aveva”, una volta unitosi politicamente dopo secoli di soprusi e rapine ad opera dello straniero, doveva naturalmente cercare ogni mezzo politico, economico e militare per conquistare quel “posto al sole” per troppo tempo negato. La prima guerra mondiale era stata dunque, nella mia prospettiva d’allora, una quarta guerra d’indipendenza, mentre, ad esempio, l’occupazione della Libia e la guerra in Abissinia primi e timidi tentativi di costituire, con secoli di ritardo, qualcosa di simile a quanto Francia e Inghilterra avevano fatto a partire dai tempi di Carlo di Valois e di Elisabetta I. Ne consegue che l’ostilità dell’occidente “democratico” era da me vista né più né meno che come l’ennesima iniquità perpetrata da quelle potenze che “in ogni tempo hanno intralciato la marcia e spesso insidiato l’esistenza medesima del popolo italiano”. Non riuscivo a trovare parole per esprimere il mio sdegno nei confronti della cultura di sinistra in generale che, appena dopo il 1861, pareva aver dimenticato il dovere patriottico in nome dell’internazionalismo (come se, fatta l’Italia, i problemi di questa con le altre nazioni fossero spariti d’incanto) e della lotta di classe (per me, lotta interna alla nazione da posporre a quella fra le nazioni) e di quella antifascista in particolare, talmente abietta da insultare ed aggredire reduci e decorati della grande guerra nel 19-20 (che confluiranno quindi nel primo fascismo), da fomentare, prima del ’22, divisioni sociali e scioperi selvaggi proprio quando un’unità nazionale sarebbe stata necessaria (cercando di sfruttare il momento di difficoltà post-bellica per fare come in Russia, dove proprio nel momento di massimo sforzo della patria i bolscevichi sabotarono al guerra vendendosi ai tedeschi), da accettare di lasciar vincere i nemici d’Italia (tali erano, sotto ogni punto di vista geopolitico e socioeconomico, le “democrazia plutocratiche e reazionarie dell’occidente”) pur di rovesciare il fascismo nel ’43 e da non vergognarsi dopo il 1945 di lasciar perdere all’Italia l’Istria, la Dalmazia e gran parte della Venezia Giulia, di insultare i profughi e di inneggiare agli infoibatori di Tito.

Ora posso ridere di quanto fossi ingenuo (innanzitutto nel valutare millenni di storia sulla base della retorica risorgimentale costruita a tavolino in maniera estemporanea da illuministi milanesi e da burocrati piemontesi e, in secondo luogo, nell’ignorare le cause materiali delle guerre moderne e contemporanee, che solo nel racconto delle opposte propagande possono apparire come “guerre di idee”, con uno schema morale buoni-cattivi degno piuttosto della favole che non della realtà effettuale). Allora, però, quelli elencati erano argomenti capaci rendermi impossibile la permanenza in un ambito sociale che li avversasse e gradevole, di converso, la compagnia di chi, come nel caso di Paola, li aveva interiorizzati.

La mia visione era tanto ingenua quanto coerente, ma mancava tanto di un “vissuto” (non avevo fatto parte mai di alcun gruppo politico e nessun esponente della mia famiglia era stato, in Italia, coinvolto nelle vicende belliche e politiche del fascismo) quanto, propriamente, di una “ideologia” intesa come “sistema organico di idee” (fondata com’era soltanto sulla letteratura e sulle coincidenze storiche).
Non coglievo, ad esempio, lo scontro plurisecolare fra la visione del mondo egalitaria (di cui la sedicente “democrazia” è solo l’ultima laicizzata incarnazione) e quella aristocratica (di cui chi è effettivamente ur-fascista reclama di essere l’ultimo seppur imperfetto ed insufficiente epigono).
Non coglievo, metastoricamente e metapoliticamente, il principio della virilità olimpica (rappresentato dal “naturale diritto delle genti eroiche”, per dirla con Vico, alla base tanto della Grecia di Omero e della Roma repubblicana, quanto dell’India Vedica, della Persia Iranica della Germania Sacra e Imperiale) in lotta con il substrato pelasgico e pre-indoeuropeo della “civiltà delle madri” (di cui consumismo e femminismo sono, ad esempio, soltanto gli ultimi portati).
Non coglievo la necessità di “superare l’umano”, di negare qualunque possibilità di giudizio morale ai valori (come la “pietà” intesa come compassione, o “l’uguaglianza davanti a dio” alla base di ogni principio umanitario) nati dalla sovversione cristiana, di affermare insomma quel “radicalismo aristocratico” di cui la lettura di Nietzsche mia avrebbe dovuto impregnare.
Vedevo solo l’interesse nazionale contingente. Ed in base ad esso dovevo giustificare ogni cosa, prendendo al contempo le distanze da barbarie “non necessarie”, come quelle commesse, ad esempio, dai Tedeschi in Polonia (all’epoca sdegnavo apertamente di essere accumunato ai nazisti). Non avevo in altre parole né bisogno né intenzione di uscire dal paradigma valoriale comunemente accettato (ovvero “egalitario”, “umanitario” e, in senso lato, “cristiano”).

Come il mio sostegno all’entrate in guerra si basava sul semplice richiamo alla realpolitik (poiché l’occidente con cui avevamo vinto la prima guerra mondiale aveva dimostrato, per dirla con D’Annunzio, di non volerci e di non amarci ci aveva ingannati non mantenendo il patto di Londra, avevamo tutto il diritto a combattere la guerra successiva sul fronte opposto) così la mia adesione “ideale” alla RSI si fondava sul principio di fedeltà alla parola data ai propri alleati (oltreché di difesa ad oltranza della propria nazione quando invasa dal nemico, non essendo mai la resa e la fuga, e tantomeno il cambio di fronte, conformi alle leggi dell’onore, a prescindere dalle motivazioni addotte). Nessuno dei due casi implicava per me esaltazione alcuna della Germania nazista (la quale restava per me un “male oscuro” con cui si poteva semmai venire a patti quando il superiore interesse nazionale lo richiedesse, ma mai e poi mai un modello di stato in cui voler vivere).

Nel caso dei militi di Salò, vi era il “fascino” aggiuntivo di cui si avvolgono tutti i difensori delle cause perse, a partire da Ettore (che accetta di scendere in campo pur sapendo di essere destinato a soccombere) per finire con il Red Butler di “Via col vento” (il quale, dopo essere stato il primo ad esprimere razionale e disincantato scetticismo sull’opportunità per il sud di accettare la guerra, una volta che questa è ormai persa, decide di lasciare la vita comoda con Rossella per arruolarsi).
“E tu, onore di pianti Ettore avrai/ove fia santo e lagrimato il sangue per la patria versato/ e finchè il sole risplenderà su le sciagure umane”. Le parole di Elettra a conclusione dei Sepolcri del Foscolo (dove il senso del divino non abbisogna né di fede né di soprannaturale, ma nasce dal desiderio tutto umano di non lasciare spegnere nella “sotterranea notte” della morte e dell’oblio quella “favilla” rappresentata dalla vita e soprattutto dalle “egregie cose” in essa compiute dagli “animi forti”) descrivevano perfettamente lo stato d’animo che mi permetteva di identificarmi con il nonno di Paola e, ancora di più, con i giovani caduti (“con la rosa in bocca”) della X Mas: la consapevolezza di andare incontro alla morte e al contempo la consolazione di essere ricordati dai cari, la disperazione per la fine della propria patria e la certezza di come l’intera storia umana sia una storia di iniquità e fini premature, il pessimismo con cui si guarda alla storia quale meccanicismo di eventi incurante della felicità dei popoli (così come il sole lo è di quella di ogni individuo umano) e nonostante ciò la speranza di essere onorati dalle giovani generazioni di un lontano domani capaci di ribaltare il giudizio (e soprattutto il mondo) dei vincitori di oggi.
Il romanzo da cui è tratto il capolavoro di Fleming riviveva invece in me quando accostavo liberamente le sue sequenze di fughe passionali, i suoi cuori in guerra, i suoi sottaciuti argomenti proibiti (come la schiavitù), le sue storie maledette (dai vincitori) a quanto mi immaginavo avrei potuto vivere con Paola se ci fossimo incontrati ai tempi di Osvaldo Valenti e Luisa Ferida.

“Hai detto che volevi seguirmi dovunque, questo è il momento”, si dice abbia detto il primo alla sua bella (incinta di lui di pochi mesi) davanti al plotone d’esecuzione che li fucilò a tradimento. Coppia più unita di individui più diversi non si sarebbe potuta avere. Egli, nato a Costantinopoli da padre siciliano commerciante di tappeti e madre libanese, dopo un’adolescenza trascorsa nei migliori licei svizzeri e una giovinezza turbolenta fra Milano, Parigi e Berlino, era divenuto famoso come attore presso il grande pubblico a partire dalla metà degli anni Trenta, in seguito all’incontro con il regista Alessandro Blasetti. Poliglotta (pare parlasse cinque o sei lingue), abilissimo nell’eloquenza (era un degno esponente del dannunzianesimo tanto nella vita quanto nell’arte) e amante degli eccessi (nel lusso come nelle avventure amorose, nelle scelte di vita come in quelle politiche), aveva rappresentato, immediatamente prima dello scoppio della guerra, la versione italiana del divo hollywoodiano, dalla personalità forte e dal fascino magnetico.

Ella, culturalmente meno preparata (perché a soli diciassette anni scappa dall’istruzione delle suore per inseguire il teatro), ma forse più naturale e schietta nel suo fascino di popolana focosa prestata all’arte da un temperamento drammatico “innato”, aveva inseguito piccole parti prima di mostrare al mondo del cinema tutta la sua carica espressiva e tutta la sua bellezza di donna “genuina”, così diversa dalle dive artefatte e sofisticate (e quasi “plastificate”) che allora come oggi occupavano il panorama cinematografico. Era una donna che alla rara sensibilità interpretativa nell’arte univa una non comune (allora) libertà sessuale nella vita: non aveva disdegnato di divenire la convivente di chi poteva aiutarla ad emergere come attrice. La sua incapacità di fingere le rendeva difficile convivere con il mondo ipocrita della fama.
Si incontrarono sul set di “Un’avventura del Salvador Rosa”, si innamorarono perdutamente e non si lasciarono più. Purtroppo la loro storia fu più triste della trama del film di Blasetti. Se, nella vicenda ambientata nella Napoli della repressione spagnola all’indomani della rivolta di Masaniello, il pittore dalla doppia vita come ”vendicatore dei torti” riesce a beffare gli occupanti e a restituire il maltolto ai popolani, innamorandosi di una di essi, nella vita Valenti e la Ferida pagarono con la vita e l’infamia (fucilati per crimini mai commessi e additati come torturatori da una banda di briganti spacciatisi per partigiani) la sola colpa di essere fra i pochi esponenti del cinema dei telefoni bianchi (così tanto beneficiati dal regime) rimasti fedeli a Mussolini dopo l’8 settembre.

Il noto studioso francese Jean Baudrillard scrisse: “Se non fossero stati così belli, così seducenti, Ferida e Valenti non sarebbero stati giustiziati. Per la sua insolenza, per la sua perfezione, la bellezza è un crimine inespiabile. L’idolo paga, con la morte violenta, la violenza prestigiosa dell’idolatria che lo circonda”.

Si narra, a proposito della coppia, di una vita “maledetta” fatta di eccessi alcoolici, di abuso di sostanze stupefacenti, di comportamenti sessuali smodati. Quello che si dice dei divi in ogni epoca da parte di quella parte di plebe in cui l’invidia si fa morale. Forse, l’unico loro eccesso, fu quello di prendere tanto sul serio il gioco della vita da mettere a rischio tutto in nome del proprio stile di vita e di pensiero, esattamente come fa ogni personaggio dell’arte.
Certo, io, per quanto ammiratore letterario e politico di D’Annunzio e seguace della bella parola scritta, non avevo né le doti artistiche né le possibilità di fama di Valenti e Paola forse, per quanto schiettamente sempre sé stessa e sessualmente (a quanto pare) disinibita, non aveva la bellezza naturale della Ferida, ma in scala ridotta, avremmo potuto vivere una passione parimenti travolgente qualora ce ne fossero state le condizioni in questo “piccolo mondo moderno”.
E allora già mi immaginavo, in quelle attese irreali dell’ora di cena nel giardino dell’hotel, fra l’infinito lontano sereno del cielo e la bellezza quasi stucchevole del mediterraneo riprodotta da piante e piscina, di scappare con lei su qualche motoscafo inseguiti non dai partigiani ma, magari, dalla finanza.

Ecco che quindi proruppi con una domanda umana, troppo umana: “ma perché non è scappato in Svizzera?”
E già mi figuravo di contare assieme a lei i contanti di una valigetta che ogni versione moderna di una fuga romantica deve necessariamente prevedere.
“Non c’era tempo per scappare”. Mi rispose ella. La tragicità della storia calò come un velo nero sulla scena colorata di fuga romanzesca che avevo provato a delineare.
Di romanzesco, però, era piena la sua parte più prettamente “femminile”. Confessò come la più candida delle fanciulle cresciute fra Stendhal e Flaubert che, semmai si fosse sposata, avrebbe voluto passare una luna di miele lunga un mese nel quale non vedere altra persona “che mio marito”. Era veramente fuori contesto un’affermazione del genere proveniente dalla stessa ragazza che, certo a parole, ma con sguardi e toni che non lasciavano dubbio di finzione, si sarebbe trovata a proprio agio a staccare a trecento all’ora prima della parabolica così come con il mitra in mano nel difendere la Repubblica Sociale Italiana assieme alle ausiliarie e a suo nonno.
O forse ero semplicemente io ad essere pieno di quei “pregiudizi di genere” che in fondo anche la più sinistra e femminista delle scuole della rossa Emilia dalla quale provenivo non aveva alcuna intenzione di cancellare. Magari, se avessi studiato più a fondo la figura, ad esempio, di Edda Ciano, avrei capito come un cuor di leonessa (in questo caso pure bresciana) possa convivere senza sentire contraddizione con un’anima di fanciulla da fiaba.

“Leonessa, della battaglia tu sei regina, leonessa, quando il nemico si avvicina, combatterò e poi ritornerò, e tanti figlia avrem, carristi ne farem, combattere sapranno ognor”. L’inno della divisione corazzata leonessa mi sarebbe risuonato più volte ripensando a lei in un passato immaginario () o in un presente quasi ucronico (). Forse se l’Italia non avesse perso la guerra, se fosse ancora esistita come nazione indipendente, fiera di sé e delle proprie origini romane, se fossero ancora rimasti in piedi quei principi spirituali e anagogici, virili e aristocratici, su cui praticamente tutti i popoli indoeuropei avevano fondato città e civiltà ed a cui un Virgilio poteva ancora far efficacemente richiamo all’epoca della restitutio imperii augustea, se non fosse esistito il femminismo di matrice socialisteggiante, con i suoi capestri pseudoliberali (e giudiziari!), i suoi sensi di colpa instillati ad ogni piè sospinto contro ogni maschio e le sue tirannie contronatura contro tutto il nostro genere e politicamente corrette in senso femmineo-plebeo, se la parola stirpe fosse stata ancora un fine dell’agire ed una primaria fonte di valore e di senso per il mondo, anziché una parola da cancellare dal mondo stesso, se fossero ancora esistiti, insomma, quelle strutture comunitarie ed anagogiche che giustificavano il sacrifico individuale consistente nel diventare padri, allora, avrei davvero preso in considerazione Paola come degna madre dei miei figli.

Per quanto superficiale e modaiola potesse apparire a prima vista, una fanciulla capace di formulare un desiderio così poetico riguardo all’unione di due vite per farne una sola (definizione nietzscheana di matrimonio) non poteva essere falsa dentro.
Difatti, volle dare a me ed a Matteo una piccola dimostrazione di ciò che rappresentava il suo sogno amoroso proponendoci l’idea di una gita in barca. Noleggiammo, in una delle tante calette della Costa Smeralda, una piccola imbarcazione a motore, con cui passare un lunghissimo pomeriggio. Né io né Matteo avevamo mai condotto una barca, e Paola superò le nostre ritrosie offrendoci di insegnarcene i rudimenti. Si pose ella quindi al timone al momento di lasciare la banchina. Ricordo ancora oggi la leggerissima veste bianca che indossava sopra il costume per proteggersi dai raggi del sole riflessi dalle acque limpide del Mar di Sardegna. Eravamo difatti seduti a poppa, di fronte a lei che indirizzando l’imbarcazione guardando a prua, ci spiegava come e perché virare a bordo e a babordo. Ci dava quindi le terga ed ogni movimento, più o meno ampio, che con grazia e decisione il suo morbido corpo faceva sul timone e gli altri comandi aveva il corrispettivo presso le forme del fondoschiena e i muscoli delle gambe.

Non erano certo le lunghissime gambe perfette delle modelle e il sodo fondoschiena delle ballerine sudamericane, ma questo e quelle, ammantati e seminascosti dal candido velo che aleggiava su di lei come nuvola al vento, avevano la delicata bellezza, per dirla con il D’Annunzio della “Pioggia nel Pineto”, della delle “polle fra l’erbe” e della “pesca intatta”. Quelle stesse gambe che sotto gli abiti ordinari parevano troppo tozze per permettersi la minigonna e quello stesso bacino che dentro il vestito da sera sembrava un po’ troppo flaccido per una ventenne trovavano la loro sublimazione estetica grazie al parziale ricoprimento e alla vaga trasparenza. Il classico gioco del “vedo-non-vedo” veniva accompagnato dal movimento delle onde che, impercettibilmente, avvicinava e allontanava il mio sguardo. Era come guardare l’acqua del mare per un naufrago: tanto vicina e desiderabile per la sete quanto negata al bersi dalle negative conseguenze. Mi chiedevo, difatti, cosa sarebbe successo se avessi coperto con il braccio la breve distanza fra me e quelle forme ondeggianti per palpare fugacemente con le dita (magari simulando involontarietà con una scusa come afferrare qualcosa di vicino o essere sbilanciato dalla barca) quanto appariva alla mente liscio e morbido come la sabbia baciata dalle onde al mattino. Sarebbe stata al gioco? E il mio compagno di classe che mi era al fianco sarebbe diventato anche compagno di giochi con lei? O, almeno, pensava anch’egli la stessa cosa che pensavo io? Eravamo soli in mezzo al mare con una “bella bionda” che “vestiva alla marinara” come nella canzoncina d’inizio secolo e nessuno poteva vederci e giudicarci. Sarebbe stato il momento perfetto (con il senno di poi, l’ultimo) per verificare se l’applicabilità alla vita reale del gioco a tre così amato dalla letteratura. Razionalmente, era difficile pensare ch’ella fosse così ingenua da non rendersi conto di quanto stava provocando su entrambi. Più facile pensare che proprio il suo fingersi ignara dell’attrazione suscitata fosse un mezzo per aumentarla.

Magari, se io o Matteo ci fossimo fatti avanti, ci avrebbe dato uno schiaffo, ma forse non si sarebbe comunque sentita offesa. Al massimo fraintesa. Eppure ebbi paura. Ebbi paura che se avessi, letteralmente, “tastato il terreno” delle sue intenzioni, avrei irrimediabilmente perso la sua amicizia e la sua stima. Ebbi paura che, se avessi fatto io la prima mossa, mi sarei attirato le ire e i rimproveri di Matteo, sempre pronto, a parole, a fare il difensore delle donne. Ebbi paura di rompere quell’idillo da romanzo, di trasformare quel delicato equilibrio umano degno di Jules e Jim casualmente raggiunto da noi tre in una banale scena di manesca molestia o di comune maleducazione. Ebbi paura, insomma, di violare il dogma femminista del “non si tocca senza chiedere” il quale, se da un lato difende a buon diritto la donna dai soprusi di chi le vorrebbe mettere le mani addosso senza curarsi della sua volontà, all’altro impedisce alle stessa di ricevere anche i timidi tentativi di approccio col linguaggio del corpo di chi con ciò vorrebbe innanzitutto proprio conoscere quella volontà. Come in guerra, in amore è necessaria la sorpresa per fare breccia nello schieramento nemico. Se un attacco viene preventivamente dichiarato non potrà mai avere successo in uno scontro reale. Se al subitaneo sorgere del desiderio non segue un’altrettanto spontanea manifestazione verbale o fisica non filtrata dalle convenzioni, dal calcolo delle possibilità e delle opportunità, dagli obblighi (sociali o morali) di autocensure e autorepressioni preventive, la manifestazione di tale desiderio diventa in fin dei conti una sterile celebrazione galante o una patetica dichiarazione di impotenza. La forza di una cascata che irrompe e la pervasività di una primavera che fiorisce deve avere il naturale trasporto dell’uomo per il corpo della donna, la quale può sì rifiutare a posteriori quanto non gradito, ma non impedire a priori il tentativo. Che il corteggiamento (nasca esso da un complimento o da una carezza, da uno sguardo intenzionale e prolungato o da una fugace palpata accidentale) debba essere “preventivamente autorizzato” è una vera e propria “cagata pazzesca” (il linguaggio fantozziano è doveroso verso chi, femministe e loro complici, ha voluto usare il lessico giuridico per descrivere l’amore sessuale e, con ciò, lanciare un’ombra di “crimine” sul genere maschile) proposta da chi ha avuto la fortuna di non dover mai corteggiare. E non ha la minima empatia necessaria ad immaginarsi nella situazione della controparte. Il corteggiamento è proprio quanto la natura e la società hanno concordato come atto a verificare l’intenzione della propria controparte sessuale ad accettare o rifiutare l’incontro intimo. Non può aver nulla prima e nulla sopra di sé. Chiunque abbia infatti almeno una volta in vita sua dovuto provare a farsi avanti seriamente (e non solo a vane parole) sa perfettamente come ridicoli appaiano qualunque proposta concreta e qualunque segno di attrazione, qualora privi della spontaneità (uccisa dal fatto stesso di doversi interrogare sulla “liceità” dei gesti e delle parole ispirati dal disio del momento).

Forse già il mio chiedermi preventivamente “cosa succederebbe se….” mi condannava all’eterno “no”.
Forse proprio il fatto di aver sempre aspettato “autorizzazioni” femminili o femministe per farmi avanti, con la parola o con il gesto, ha prodotto la mia situazione attuale.
Forse proprio il mio rifiuto a toccare qualsiasi grazia in qualsiasi modo senza prima chiedere il consenso ha fatto sì che le uniche volte in cui abbia potuto davvero toccare una donna siano state quelle precedute proprio da una richiesta di autorizzazione in tal senso accompagnata dal contestuale pagamento in contanti!
All’epoca non capivo, assorbivo tutto quanto il femminismo culturale, specie tramite i telefilms americani (in cui ad una mano sul culo corrisponde come minimo un calcio nelle palle) faceva passare per correttezza sessuale. Ed in quella occasione arrivai addirittura a rimproverarmi fra me e me per aver anche solo immaginato di compiere un atto del genere. Lo stesso che avevo qualche sera prima silenziosamente rimproverato a Matteo nei confronti di Eva.
Fu così che Paola, non essendo stata sfiorata da altro che dal vento, si sedette a poppa accanto a me lasciando il timone a Matteo. Lo istruiva sulla rotta da seguire e sugli aspetti da tenere presente per la navigazione. In quel golfo di mare “addomesticato”, fra piccolo scogli e grandi yacht, il segreto consisteva in pratica soltanto nel solcare perpendicolarmente le onde prodotte dai motoscafi di grande dimensioni e dalle lontane navi di maggiore tonnellaggio (tipo i battelli per turisti e le navi da crociera che già allora, quasi quindici anni prima della Costa Concordia, facevano “gli inchini”). Se prese “di traverso”, tali onde potevano infatti compromettere la stabilità della barca, o comunque far perdere l’equilibrio ai passeggeri! Criticavo già dentro di me Matteo, pensando di poter far molto meglio in termini di “scelta delle traiettorie” (forte della mia esperienza automobilistica).

Furono ore interminabili, nelle quali fremevo per prendere il timone e dimostrarmi magicamente capace di navigare pur non avendolo mai fatto, e comunque migliore del mio predecessore. Ricordo ancora che dalla luce piena e chiara del primo pomeriggio si era già passati a quella più tenue e dorata delle ore più tarde (anche se la luce era ancora diurna). Rimembro le sabbie degli isolotti che sfioravamo farsi da bianche a dorate e l’azzurro del cielo farsi più limpido per la maggiore frescura e quello del mare aperto più intenso per il dissolversi della lontana foschia. Non so dire al lettore se fossi motivato da un’effettiva voglia di mare o piuttosto dal naturale spirito di competizione. So solo che percepii quel trascorrere del tempo e quel trascolorare del giorno come una via di mezzo fra una piccola ingiustizia ed un’occasione persa. Quando, finalmente, fu il mio turno di condurre l’imbarcazione, non avevo davanti a me abbastanza tempo da pareggiare quello trascorso come passeggero. Fui comunque felice.

Dovevo avere l’aria di chi la sapeva lunga, perché Paola, dopo le prime manovre, mi guardò con sguardo interrogativo, sorridendo e dicendo “fai paura, non si sa mai cosa aspettarsi da te”. Chissà se si riferiva alle mie evoluzioni da timoniere o se, con la coda dell’occhio, si era accorta di come, proprio io che fino a qualche ora prima parevo totalmente disinteressato al sesso ed alle relazioni, le avessi guardato il sedere con l’idea balzana di toccarglielo per avere un’avventura!
"Non, non così" mi diceva a proposito della posizione al timone, "stai più avanti col culo" (e si percepiva, nel tono, un lampo fra il serio e il faceto simile a quello che si percepisce in ogni lettura dantesca quando si arriva a quella parola nel celebre verso dantesco su Barbariccia). Forse anch'ella allora mi stava simmetricamente guardando!

Imprevedibile era anch’ella. Nelle sere successive, quando come al solito ingannava l’attesa della cena al tavolino del bar dell’hotel, con il suo nero d’ordinanza, la sua minigonna inguinale, i suoi tacchi vertiginosi, le sue gambe accavallate e la sua aria annoiata, il suo atteggiamento nei miei confronti variava dalla dolcezza all’aggressività. Una volta poteva ammettere (fatto non comune fra le “melanzane” abituate a nascondere il proprio patologico bisogno d’autostima con il disprezzo per chi, approcciandole, complimentandole ed invitandole, alimenta la loro stessa autostima) che le avrebbe fatto soltanto piacere ricevere di quando in quando una mia telefonata o una mia lettera (di solito le sue coetanee trattavano con sufficienza o aperto disprezzo chi proponesse tali “confidenze”, proprio per apparire tanto belle e desiderabili da riceverne fin troppe ogni giorno). Un’altra volta, poteva arrivare a cercare di spegnermi una sigaretta addosso perché la mia battuta o la mia risposta non erano conformi a quanto atteso o preteso. Se non fossi stato sveglio a difendermi, avrei potuto ustionarmi!

Potevo sopportare da lei anche quello che da altre mi avrebbe infastidito o addirittura ferito, ma solo perché era una faccia della stessa medaglia sulla quale, dall’altro lato, erano raffigurate anche la fralezza e la sensibilità. Solo sapendo che quell’ostilità momentanea proveniva da chi in vicini momenti aveva dimostrato di apprezzarmi, potevo non disprezzare anche momenti di crudeltà o di indifferenza ai possibili danni.
Devo ammettere che quel gesto repentino e terribile, quel variare improvviso dell’espressione del viso, delle curvature della bocca, dalle linee della pelle, dalla rilassata arrendevolezza alla determinata violenza, quel disvelarsi improvviso insomma della crudeltà da un contesto sereno, quel trasformarsi di grazie, vesti e calzature pensate per piacere in strumenti di dolore, mi fecero scoprire il fascino della “dark lady”. Evidentemente, Paola era nera non soltanto di opinioni politiche!
Mi chiedo ancora oggi due cose: in primis, perché ella tenesse davvero a ricevere posta proprio da me (potendo, come tutte le fanciulle italiane di media bellezza, facilmente trovare ammiratori ovunque e comunque), in secundis, perché io (che, come sfortunato mortale nato in Italia, sono costretto a pagare per attenzioni e giochi particolari donne di bellezza men che mediocre) non le abbia mai inviato neanche una cartolina!

INCONTRA DONNE VOGLIOSE
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QUARTO GRADO: DA MARSILIO FICINO A FRIEDRICH NIETZSCHE (8/18)
Ovvero: "LE DONNE, I CAVALLIER, L’ARME, GLI AMORI, LE CORTESIE, l’AUDACI IMPRESE"
Parte 8 di 18 : “Le donne: Carla”

Un anno dopo quella “folle” estate della maturità (folle perché per la prima volta ero stato in vacanza senza mia madre, perché per la prima volta ero andato in vacanza con l’aereo, perché per la prima volta ero partito per le vacanze senza sapere l’esito scolastico), che tante conoscenze femminili mi aveva portato in dono (anche se destinate a finire assieme alle vacanze, prima ancora di poter essere pienamente vissute), ritornai in Sardegna. Avevo appena superato il primo anno dell’università, riuscendo a dare tutti gli esami prima delle vacanze estive. Ero dunque, da neo-adulto, tornato a sentire in cuore (sarebbe stata l’ultima volta, e non lo sapevo) la stessa gaiezza pura e ingenua che avevo provato tante volte, da fanciullo e da adolescente, al termine dell’anno scolastico. Quella sensazione di libertà definitiva, che si assapora solo nella consapevolezza di aver adempiuto a tutto gli obblighi e superato tutti gli affanni, aveva sempre costituito per me la quintessenza del “piacer figlio d’affanno” di leopardiana memoria. Anche se sapevo che le vacanze future sarebbero state noiose come quelle passate, ogni anno non potevo impedirmi di sentirmi felice e pieno di speranza, nell’ultimo giorno di scuola. Ed in quel 1999, memore dell’infuocato anno precedente così diverso ed a suo modo “divertente” (non aveva portato “l’amore”, ma almeno aveva decisamente evitato la noia), avevo dunque ragionevoli e ragionate motivazioni per sperare di divertirmi ancora di più. Considerando che, nel 1998, la presenza di Matteo aveva sì propiziato qualche incontro con la sua proverbiale facilità alle relazioni, ma li aveva poi vanificati tutti con le sue maniere invadenti, rumorose e a volte pure (come si è visto) “manesco-villane”(che, oltre ad essere sempre state proverbiali nell’ambito scolastico, avevano finito per mettere comprensibilmente sulla difensiva fanciulle che non mi sento solo per questo di definire come “ritrose”, “scontrose”, “altezzose” o, in una parola sola, “melanzane”), per la nuova estate avevo scelto il ritorno all’antico: la compagnia di mia madre (donna che al tempo trovava ancora gli ultimi ammiratori, che con la sua discrezione, il suo “savoir vivre” – come dice sempre ella - o – come dico io - le sue maniere da simil-nobildonna polacca del secolo scorso - avrebbe potuto propiziare gentili incontri, e che, in ogni caso, avrebbe potuto fornire all’uopo preziosi consigli su come abbordare le sue simili).

Confidando sul fatto che da quell’anno era prevista l’animazione, pensavo avrei avuto più bisogno di un aiuto (tanto psicologico quanto materiale) in fase di evoluzione di un eventuale rapporto da “formale-simpatico” a “leggiadro-quasi amoroso” che non di inviti caotici, invadenze e concorrenza.
Inoltre, forse perché influenzato dal fatto che per anni, ai tempi delle elementari e delle medie, nell’albergo di Gabicce ritornavano sempre le stesse famiglie con le stesse figlie, pensavo che, anche in quel resort di lusso affacciato su quella caletta di Porto Cervo, avrei trovato, tornando un anno dopo, le stesse persone.

Mi ricordo ancora oggi la trepidante attesa sull’autobus che dall’aeroporto ci portava in hotel, quando, durante tutto il tragitto, pensavo a come avrei dovuto comportarmi incontrando qualcuna delle ragazze dell’anno prima. Arrivammo nel primo pomeriggio, e, poiché i passeggeri erano quasi tutti destinato ad alberghi diversi, ebbi tutto il tempo di riflettere. Come avrebbero reagito le stesse fanciulle conosciute assieme a Matteo vedendomi questa volta con mia madre? Avrei dovuto presentargliele? O avrei dovuto dapprima far finta di nulla conformemente al fatto che ci eravamo ignorati per un anno intero? Avrei dovuto mostrare gioia immediata nel rivederle, o avrei invece fatto meglio ad ostentare un’iniziale, se non freddezza, almeno moderazione? Le avrei conquistate più puntando sulla loro “vanità” (adulandole con il primo comportamento) o piuttosto sulla loro “complessità femminile” (mostrandomi, con il secondo comportamento, più desiderabile proprio perché più sfuggente e più “valido” proprio perché forse impegnato in altre e misteriose relazioni)? Ricordo ancora la luce tiepida del secondo pomeriggio trapassare le tendine del bus ed io stesso quasi trattenere il respiro scostandole un poco al momento dell’arrivo in hotel (per vedere se già si poteva adocchiare qualche vecchia conoscenza…).

Fu dunque totale la mia delusione nel constatare che non solo non vi erano né Eva, né Paola, né alcun’altra delle conoscenze dell’anno prima, ma non apparivano alla vista neppure potenziali loro degne sostitute. Evidentemente in quel tipo di alberghi la clientela cambiava tutti gli anni e magari il nuovo indirizzo era più rivolto alle famiglie che non ai single come l’anno precedente. “Puoi provare almeno con le due animatrici”, mi disse mia madre la sera successiva osservando la mia delusione. “Non mi sembrano granchè”, le risposi. “Anche se non ti piacciono, possono conoscere altre ragazze belle”. Andammo dunque a vedere lo spettacolo che le due animatrici avevano allestito assieme ai bambini. Una di esse era piuttosto slanciata con il suo vestito da sera e piuttosto vistosa con il suo caschetto biondo (finto). L’altra era piccolina e più discreta, con capelli castano scuro e abbigliamento a gonne larghe da “gitana di lusso”. Quando si dovettero dividere fra loro i bambini in due gruppi, la prima venne indicata come “quella alta e bionda” e l’altra come “quella un po’ più bassa”. “Ma dagli occhi verdi”, aggiunge subito il cabarettista accorgendosi della crudeltà-cafona appena commessa. Stando al gioco, quella che poi avrei saputo chiamarsi Carla, si indicò gli occhi. “Come faccio ad entrare in confidenza con loro?” – chiesi a mia madre. “Fai un sorriso” mi risposte. Così, alla fine di tutto, prima di uscire, passai davanti a “quella alta e bionda”. Portava gli occhiali e da vicino non aveva nel volto i segni di quella bellezza che quei due aggettivi associati per tradizione letteraria a Costanza d’Altavilla o alla Laura di Petrarca lascerebbero supporre al lettore. Inoltre, non sapevo cosa dire per approcciarla e mi limitai a sorriderle, senza desiderio e senza alcuna intenzione di far colpo, con un fare dimesso come se avessi dovuto salutare bonariamente una vecchia amica.

Poi, tutto il pubblico si trasferì nel giardino esterno dove, come l’anno prima, si svolgevano attività di “karaoke” e “piano-bar”. Il pianista-cabarettista era l’unica persona che conoscevo dall’anno prima. Non ci fu bisogno di altro perché l’alta e bionda animatrice con gli occhiali venisse spontaneamente da me a presentarsi e a presentare, per gentilezza, pure la sua collega. Fu così che conobbi Carla.

Mentre dell’altra, tanto a proprio agio in quell’ambiente conviviale e pseudo-autolocato, non ricordo più neppure il nome (tanto banali erano i suoi discorsi di circostanza e tanto scontate erano le sue aspirazioni a “vedere gente” e “fare cose” – pareva uscita da quel famoso film di Nanni Moretti), di Carla mi colpì subito il suo essere, apparentemente “fuori posto”. Studiava difatti al conservatorio e non mi capacitavo di come, sia pur per bisogno di “arrotondare”, potesse sopportare quel “rumore moderno” in cui secondo me consisteva la musica non-lirica (specie se cantata a squarciagola da turisti stonati).

Proprio quell’anno avevo appena visto la versione cinematografica della “Tosca” ridotta in romanesco dal regista Luigi Magni. L’opera Pucciniana aveva fatto breccia in me, soprattutto per la trama, fin dal giorno in cui il professore di filosofia del liceo ce la raccontò. Da appassionato di Napoleone ed amante dei finali tragici (in aperta opposizione agli “happy endings” di stampo hollywoodiano, sinonimo da sempre di animi plebei incapaci di cogliere la grandezza o anche solo andare oltre il banale desiderio di felicità e sicurezza) avevo nel libretto di Illica e Giacosa basato sulla storia di Sardou il mio modello ideale di parole in musica. Il fatto di aver visionato per la prima volta la riduzione “romanesca” (e quindi comprensibile immediatamente e “a pelle”, come ogni storia popolana, senza “mediazione culturale” alcuna, come può essere l’introduzione di un conduttore di radio 3) con Monica Vitti (che intona: “Mi madre è morta tisica, tu me farai morì de crepacore”) e Gigi Proietti (che risponde in rima “vabbè che ce voi fa’, questo è l’amore”) nel primo pomeriggio di un giorno successivo al superamento dell’ultimo esame dell’anno accademico (quando cioè l’animo, sgravato dagli impegni, è più recettivo e quando, per il “piacer figlio d’affanno”, è più propenso a dipingere tutto con l’aurea del nuovo e del bello) ha contribuito a rendere in me indelebile la passione per la lirica in generale e per quell’opera in particolare. Poi sarei arrivato ad acquistare il cd con la musica di Puccini, poi avrei acquistato da Ricordi a Bologna tanti altri cd con tante altre opere liriche. In principio, però, furono il divertimento per il botta-risposta fra un clericale Aldo Fabrizi (“Padre nostro, padre nostro, sto quattordici de giugno, volta gli occhi da sta parte, fai fottuto Bonaparte”) e un anticlericale Cavaradossi-Proietti (che continua a dipingere fingendosi disinteressato ma rispondendo sempre a tono), il terrore per il personaggio di Scarpia (un memorabile Vittorio Gassman che inizia a cantare dopo il popolo, con un poco modesto “confuse voci….dio ama i solisti” e finisce con un “se siete fedeli all’altare….tremate lo stesso, cacateve addosso”), l’entusiasmo per l’ingenuo giacobinismo del personaggio di Angelotti (che canta “noi siamo gli assertori, del libero pensiero, oggi il cielo è nero, doman si schiarirà: viva la libertà – qui non si muove foglia, che il popolo non voglia, chi vuol regnar col boia, da boia morirà”) e, soprattutto, lo struggimento per la scena della prigionia ambientata nella notte romana delle fontane e delle statue (quando Cavaradossi-Proietti, pensando ad Angelotti morto suicida ma impiccato comunque dai papalini, canta “Nun je da' retta Roma che t'hanno cojonato 'Sto morto a pennolone è morto suicidato. Se invece poi te dicheno che un morto s'è ammazzato, allora è segno certo che l’hanno assassionato” mentre scorrono immagini tipiche della “grande bellezza”) e per il finale della finta fucilazione rivalatasi poi vera (con Monica Vitti-Tosca che esclama sul corpo esanime dell’amato, pensando all’inutile delitto commesso per scappare con lui: “ao, questi è inutile ammazzarli, ti fregano anche da morti”). Senza tutto questo, probabilmente, non mi sarei appassionato alla lirica, nascendo la passione soltanto da un coinvolgimento viscerale immediato e mai da una costruzione imposta dall’esterno.

Fu così normale per me iniziare a parlare con Carla partendo dalla passione comune e divagando su ogni aspetto del sentimento umano. Stava quasi sempre in disparte, nei momenti di festa e di convivialità, proprio come una versione femminile del “passero solitario” che sdegnasse i divertimenti comuni e la confusione nemica del profondo pensiero e del sincero sentire. Era quanto avevo sempre fatto io stesso. Per questo era naturale per noi incontrarci e parlare senza secondi fini.

Pareva ella davvero uscire dalla lirica che il Leopardi aveva scritto immaginandosi Saffo brutta e infelice. Quando un bambino bizzoso e dispettoso, scontento di esser stato assegnato ad un gruppo piuttosto che all’altro, le disse “sei brutta”, ella ebbe il cuore di rispondere “lo so”. Quell’assoluta mancanza di vanagloria, di altezzosità, di menzogna, di tutto quanto, insomma in “melanzane” in nulla e per nulla più belle di lei viene sovente usato per farsi percepire come belle e preziose anche quando della bellezza fisica e del valore sentimentale vi sono soltanto vaghe illusioni, la rendeva ai miei occhi più gradita di tante presunte “gnocche”.

Sebbene come carattere fosse all’opposto, l’attrazione che il suo “non-tirarsela” esercitava su di me era stranamente paragonabile a quella suscitata l’anno prima dalla disinibita Paola.

All’opposto di Paola, con la quale l’anno prima mi incontravo a parlare prima di cena al tavolino del bar (mentre, in minigonna inguinale, se ne stava a bere drink e fumare sigarette con le gambe accavallate come una dark lady), Carla preferiva aspettare l’ora del desinare sedendosi a bordo della piscina, in maniera dimessa, con le sue gonne larghe che la facevano sembrare una “Butterfly” pucciniana chinata sul suo dolore.

Parlavamo di tutto: di scuola, di poesia, di letteratura, di storia. Era di parte politica opposta alla mia, ed una volta, sulla storia strappalacrime di una insegnante che in contrasto con il modello gentiliano di scuola del ventennio si suicidò, finimmo quasi per litigare, giacché ebbi forse poco tatto nel far notare come pure nel “democratico” dopoguerra chi non si conforma al pensiero dominante viene socialmente emarginato ed indotto al suicidio, nel caso, in maniera proporzionale a quanto davvero ha coraggio nell’affermare con opinioni e fatti la validità del medesimo modello gentiliano.

Non ci fu rottura perché, per quanto differente fosse il nostro pensiero razionale, medesimo era il nostro sentire profondo. Entrambi eravamo nature leopardiane portate alla riflessione interiore ed alla contemplazione, piuttosto che al comportamento espansivo ed alla relazione esteriore.
Stranamente, mentre pareva accettare questa condizione come un meritato destino da sopportare, pretendeva che io diventassi espansivo. Per questo, mi convinse ad unirci all’uscita serale che, dopo cena, un villeggiante automunito propose a me ed alle due ragazze. Si trattava di un giovane padre di famiglia, che aveva portato moglie e figli da Roma con la sua Klasse C seminuova ed evidentemente aveva nostalgia della vita da scapolo. L’avevo conosciuto parlando di auto in generale e di rally in particolare. Per tutto il viaggio, su sua richiesta, simulai le note dei navigatori (“destra tre lunga chiude, in sinistra due più apre, 200, destra 4, 60 destra due, 30 sinistra lunga 3 chiude – tornante destro”) e come ringraziamento, all’arrivo, ebbi la battuta: “ma allora nei rally a fine prova il parabrezza è pieno di sputacchi”. Era evidente che l’amicizia a tratti fraterna che in hotel pareva ostentare cominciava pericolosamente a declinare verso il tono di sfottimento così comune fra maschi ai tempi delle scuole. Era bastata la presenza in auto di due ragazze, neanche tanto belle, per niente oggetto di intenti seduttivi. Evidentemente, certi uomini non maturano mai.

Di me invece Carla aveva detto che per la mia età le sembravo anche troppo maturo “come testa”. Anche se, come comportamento, avrebbe voluto vedermi più “attivo” con “i coetanei e le ragazze”. Ecco perché quasi mi rimproverò quando si accorse di come, anziché le belle o meno belle avventrici della discoteca, guardassi le automobili posteggiate all’esterno. Non poteva sapere che avevo l’infelice esperienza dell’uscita serale con Eva come precedente e che, da quella volta in poi, avrei preferito tornare allo stato pre-adolescenziale di chi preferisce le macchinine alle coetanee, piuttosto che rivivere le sensazioni del segnaposto da usare o del pezzo di legno innanzi a cui provare l’avvenenza. Forse non sapeva neppure che solo per la sua compagnia avevo accettato di entrare ancora in quel luogo di barbaro divertimento che è la discoteca, dove fra le luci psichedeliche lampeggianti volteggiano corpi discinti e figure di donna impenetrabili e in cui le principali doti con cui l’uomo potrebbe bilanciare in desiderabilità e potere la bellezza, ovvero la cultura e l’eloquenza, sono ridotte al silenzio dal frastuono ed al nulla dallo “sballo”.

Nelle serate successive continuava a dedicarsi all’analisi del mio stato d’animo. Quando alle sue esortazioni a diventare “seduttore”, “socialmente attivo” o almeno “espansivo” risposi sorridendo ed affermando che, pur se solitario e apparentemente “infelice”, vivevo felicissimo in compagnia della “ideale comunità dei dotti di ogni epoca”, replicò prontamente “ti è cambiato il sorriso!” e cogliendo una sfumatura di cui nemmeno io mi ero accorto dall’interno del mio stato d’animo. Davvero non capivo perché dedicasse una tale attenzione a me mentre per se stessa reputasse il restare sola, socialmente in disparte ed amorosamente negletta (questa era l’impressione che dava definendosi pubblicamente brutta) come un destino da accettare.

Per restare aderente ai personaggi della lirica, potrei in questa incomprensibile ostinazione unita ad un altruismo sovrumano associarla alla figura di Liu, la quale, pur di permettere a Kalaf figlio di Timur di conquistare Turandot, si lascia torturare a morte piuttosto che rivelare il nome del principe sconosciuto. E tutto perché, un giorno, nella reggia, egli le aveva sorriso. Carla dimostrò fino in fondo la sua vicinanza a questo tipo di donna “sacrificale” passandomi l’indirizzo della “dama” che nel frattempo avevo iniziato a corteggiare (e di cui parlerò nel prossimo episodio). Come ringraziamento, una volta a casa, le scrissi una lettera, che sono felice di allegare qui a riassunto dei temi trattati e dei toni usati fra noi in quelle azzurre serate passate fra l’odore degli oleandri dalle foglie amare e il suono del mare fra i sassi della caletta.

Cara Carla,
nel grigio diluvio democratico odierno, che molte e belle cose ha travolto, è sempre più arduo trovare un’anima eletta e nobile come la tua in grado di comprendere discorsi che riguardino le “humanae litterae”, pur senza aver nulla a che vedere con la banalità del mondo scolastico, e di capire come la poesia non si studi né si impari ma si viva. Ci sono coloro che perdono inutilmente gli anni su dottissimi testi, coloro che disprezzano la letteratura, coloro che sdegnano gli illetterati ma poco personalmente leggono, coloro che considerano la lettura un lusso, uno studio, un’occupazione, coloro che pensano agli scritti come a giocattoli, coloro che guardano a’ libri solo in vacanza. Dicono: “non ho tempo”.
Pochi sono quelli che sanno sino a qual punto non sia possibile trovarsi nel bel mezzo degli affanni, immersi nella quiete della natura, senza rimanere “con gli occhi incerti tra il sorriso e il pianto” e senza sussurrare “e sempre corsi e mai non giunsi il fine/ e dimani cadrò”, come non sia concepibile sedersi dietro una siepe senza naufragare nell’Infinito (squisitamente Leopardiano) della propria interiorità, quanto sia arduo, sul far della sera, non riflettere sulla visione della morte quale “fatal quiete”, fine del continuo struggimento.

Rispetto ad un anno prima, avevo abbandonato l’incipit latino, ma avevo mantenuto il gusto per la citazione (il lettore avrà difatti colto il riferimento esplicito a Dannunzio e quello implicito al Seneca del “De Brevitate Vitae”). In onore delle origini sarde di Carla, proseguivo poi con la citazione delle divinità tipicamente mediterranee presenti nella mitologia antica. Ovvio come la citazione fosse semplicemente una scusa per parlare della sensibilità d’animo di chi, come me e come lei, vedeva la varietà della vita laddove per la massa vi sono solo “cose”.

Pria che “il duro artico genio” (de’ Barbari per eccellenza: i romantici) inaridisse la visione del mondo (ovvero poesia), la Natura stessa, nei suoi mari, nei suoi fiumi, nei suoi monti, aveva in sé il ricordo delle favole de’ gli Antichi: arcani mondi, arcana felicità si celavano, sotto le stelle scorrenti del cielo o alle luminose piagge della luce, sottaciute da infinite facelle. Imperocché quel che è stato il mondo per qualche tempo lo siamo stati noi per qualche anno, la poesia sorge dal ricordo di quell’età aurea e felice in cui ogni cosa ci appariva amica o nemica nostra, indifferente nessuna, inanimata nessuna. Se su un’isola si udiva di lontano stormir di fratte: “Ecco Eolo” si nominava “, soffia da recondita grotta, da Lipari, sua casa, pensando all’amata, e certo pietoso le mie parole porterà co’ venti insin alla diletta!” Se in solinga selva, rimota ne’ monti, il proprio grido disperato per le pareti si spandeva, giugnea la voce di colei, figlia dell’Aria, che in simile selva disperata giunse. Eco era’l nome suo, a Narciso avea più fiate rivolte inutilmente le chiome: da disperazione fatta sicura, tra le molli ombre dei monti si lasciò deperire finchè di lei non rimase che il vociare.
E nel lauro regnava ancora, fatta sacra, quella ninfa rincorsa da Apollo e trasformata al tocco in vegetazione statica per il suo rifiuto di unirsi al dio. Dafne si nominava allora, alloro oggi.
Quando un girasole si mirava, il ricordo ritornava alla giovine Clizia, che consunta d’invidia per la sorella e d’amor per Apollo ebbe dal dio l’estrema consolazione di mutarsi in quel fiore che sempre il sole rimira. E il profumo d’incenso esalava non penitenze o quaresime, ma le membra aulenti d quella Leucotoe, nella cui erma stanza Apollo in persona entro’ sotto le false sembianze della madre. Al solar splendore del dio non potè ella resistere, ma tosto la calunnia della sorella riferì al padre l’accaduto ed ella fu seppellita viva tra le aride distese del deserto. Tardo fu l’arrivo d’Apollo per salvarla, ed egli non poté che cosparger di nettare celestiale il corpo esanime, che subito emanò odore divino e ricoprì il terreno sacro di piante d’incenso.
I gelsi ricordavano ai giovini la tragedia di Tisbe e Piramo, infelici Assiri.
Vicini di casa, si amavano: si scambiavano soavi promesse attraverso una stretta fessura della parete, ma un antico odio divideva le due famiglie che mai avrebbero acconsentito alle nozze. Una fuga disperata indi essi decisero, preludio di vita futura, e la tomba del re Nino di Babilonia, vicino a un gelso bianco era il luogo del loro incontro. Giunse primieramente in loco Tisbe, e mentre aspettava l’amato vide una feroce leonessa: fuggendo, perse il velo, che la fera impregnò del sangue di un suo terribile pasto precedente. Piramo giunto dopo, conobbe il velo e guardando il dolce vestito tutto insanguinato, pensò alla sciagura e si uccise con la propria spada. Il gelso egli invermigliò del proprio sangue, ma allorché Tisbe, cessato il pericolo, tornò sul luogo dell’appuntamento, vedendo la tragedia involontariamente provocata, volle tosto uccidersi con la medesima spada. Pria di perire accanto all’amato pregò inginocchiata gli dèi che i fiori dei gelsi divenissero per sempre rossi. E rossa da bianca mutò ancora la rosa: leggiadra correva la bella Ciprigna, ma la spina di una bianca rosa le toccò leggermente il tallone provocandole una lieve ferita. Dal sangue della dea è vermiglio il fior d’amore.
Mortale però era ella, quando nuda nacque dall’onde del Greco mar e le acque fatali e le isole ionie fecondò col suo primo sorriso: il canto dei poeti la rese immortale. Così fu della casta Artemide, e della fiera Bellona. Tra i monti d’Arcadia l’una girava con l’arco teso terribile alle prede, coi capei a l’aura sparsi la seconda si scagliava terribile contro i nemici della Grecia.. Secondo Foscolo il canto dell’Elicona sacrò a l’una nei boschi il cervo e il carro della luna nel cielo, a l’altra la virtù e l’ira nella guerra, mentre Venere col suo velo ricoprì le grazie custodi “di quell’aurea beltà ond’ebber ristoro unico a’ mali le nate a vaneggiare menti mortali”.

Proseguivo poi affrontando direttamente il discorso eudemonico che ci aveva per così tanto tempo intrattenuti.

Ebbene, innanzi a tali immagini si apre in me il libro della memoria, che non voglio iniziare con “incipit vita nova”, bensì con la considerazione, sorta dal confluire in me, tramite la poesia, di sentimenti provati da altri. L’uomo non può essere felice, perché la vera felicità non risiede nel presente, ma nel sublime ricordo del passato e nella vana speranza del futuro, in altre parole nella poesia, o meglio nel dolce poetare dei propri sentimenti.

Chiarivo anche come in me la citazione non fosse un vezzo radical-chic fattosi letteratura, ma un modo proprio di interpretare la realtà rivedendola con gli occhi di esseri umani vissuti prima di me ed aventi in comune con me proprio lo stato d’animo particolare che li ha portati a scrivere le parole citate. Stesse parole per lo stesso sentire: questo è citare.

Non è mio desiderio tediarti con disquisizioni letterarie o filosofiche, (ben lungi da me tale intenzione) né d’altronde sopporterei di apparirti un laudator temporis acti: l’utilizzo di uno stile, di un linguaggio e di un sentire ripieni di tradizione letteraria non si configura in me come un nostalgico sospiroso vagheggiamento di un’atmosfera nobile e arcadica, o di un rimpianto dell’innocenza primigenie fine a se stesso, bensì come l’anelito a una dimensione eterna e incorruttibile da contrapporre al mondo transeunte, a un’ideale di bellezza uno nello spirto eppure molteplice nelle manifestazione, a un universo illimitato nel tempo e nello spazio, in una parola, all’Infinito.
Allo stesso modo spero tu mi conceda di non ritenere le espressioni e le frasi citate vanto enciclopedico di dantesca memoria (“ingredienti del gran polpettone letterario”, come con linguaggio piuttosto colorito ,ma indubbiamente efficace, li definirebbe un mio fedele amico di cui non rivelerò l’identità), ma soltanto il frutto di una memoria involontaria. E, come l’acque d’un rivo canoro giocano a rincorrersi per ricreare il gentil riso delle donzelle, come le chiare ginestre e le coccole aulenti riproducono il balsamo di una dea silvestre, così in me riaffiora questa figlia di Mnemesyne ogniqualvolta si verifica una corrispondenza o anche solo un’assonanza tra le emozioni provate e quelle espresse dalla poesia, legame assai più profondo di quello ormai banalizzato e svilito tra autore e lettore.
Riodo nello stormir di fronde le grida di quel forte (Leopardi) che nulla al ver detraendo osò levare contro gli occhi mortali al basso stato e frale e al mal che ci fu dato in sorte.
Risento nel canto dell’upupa il carme di quell’Ugo che il duro sonno della morte addolcì di pietà e di eterna armonia coprì il suono del Greco mar da cui vergine nacque Venere.
E sotto l’estiva pioggia, in erma pineta, quando tace la voce del mare, la fronda che varia nell’aria risuona per me i versi di D’Annunzio e libra leggeri più nuovi pensieri inespressi.
E quando da un boschetto di tigli, levasi un suono: “Talia, ove è gito il tuo Parini?” mi par di sentire.
Quando da scoscesa rupe mi sporgo sull’onda che violenta si frange, questa mi parla di colei che da simil loco, in “placida notte”, sotto il “verecondo raggio della cadente luna”, prima di gettarsi in abisso orrido immenso lanciò al mondo ultimo canto. Nobile fu ella e di cuore, ma indegno vaso le riservò natura a celar si benigna grazia. Per Faon furon gli ultimi suoi pensieri e se ancora su quei lidi il favonio spira “s’ode tra i flutti un lamentar di lira”.
E vedo la rupe di Saffo nella tacita selva, vedo le danze dei satiri e i cori delle ninfe cantati da Orazio e da Virgilio, se in solitario bosco ombroso solo una voce silvana mi favella.
E in ardue montagne, quando salendo in faticoso cammino soltanto uno scrosciar di chiare fresche dolci acque è di ristoro, quel canto di cascata mi par modulare un’aria del Metastasio. Allorché infine alte nel cielo si levano le note dell’Inno dell’Italia nostra, gli dèi superi odo tuonare i versi del Lombardo: “per l’Italia si pugna, vincete!”
Comprendere la poesia non significa solo rilevare il chiasmo o notare l’assonanza, ma sentire profondamente l’ondeggiante riverbero delle passioni, l’onda del ricordo che, come risacca marina sulle piagge, si placa nel protendersi dei versi sulla pagina bianca producendo un’inconfondibile suono, “gravis dum suavis”. Ti chiedo di intendere qui “comprendere” nel senso etimologico del termine di “cum prendere” prendere con sé, fare proprie le sofferenze, le passioni, le speranze e le illusioni del poeta e vivere come lui, mirare il mondo con gli occhi della sua mente, per cui dire ho compreso Leopardi equivale ad affermare “io sono stato Leopardi”. Come possono dichiarare di aver compreso un sì grande poeta quei professori che hanno dissipato la giovinezza negli ozi e nei divertimenti, tra ogni sorta di gradevole e diletta compagnia, o quei gaudenti giovinastri che mai hanno trascorso solitaria notte rivolgendo preghiera o grido alla graziosa intatta luna?

Cercavo poi di attrarre la sua attenzione sull’insensibilità del volgo che ci feriva entrambi, rispetto a cui la poesia può agire come “pharmacon”.

Immagino già ora disegnarsi benigno sul volto tuo un ironico sorriso all’udire simili paradossi di colloqui con defunti, piante o animali.
Ma considera quanto siano sordi ai nostri lamenti ed estranei alla nostra sensibilità molti di coloro che ci vivono intorno, che salutiamo per strada, che fermiamo per via e quanto invece ci siano affini Montale e Leopardi, i poeti del male di vivere, Tasso e Virgilio, nelle cui opere vediamo rispecchiate l’essenza della vostra vita depurata dagli aspetti esteriori. Parlano e non dicono i primi, tacciono e tanto esprimono i secondi, hanno occhi e non vedono, hanno orecchie e non sentono, hanno mani e non colgono gli uni, proferiscono senza bocca, odono senza organi, vedono senza luce, gli altri; sono morti nella vita questi, sono vivi nella morte quelli.
Non dunque vogliamo studiare la poesia per quello che è stata, per quello che ha rappresantato agli occhi di uomini ora morti, ma per quello che sarà, per quello che significa per noi, per quello che, palpitante com’è di vita, può ancora darci.
Come la fratta nel cuore della selva erbosa (rimota alla campagna) s’atteggia ad imitare la voce del mare se un soffio spira da lontananze remote, come i rivi montani e le acque cadenti emulano le auree chiome d’esil donzelle, come le stelle palpitando d’attesa attorno alla notturna lampa rievocano ogni sera le speranze prime del fanciullino, così in ogni alma pietosa, allorché il suono di un verso riaccende (dolce ne la memoria) una ricordanza nel petto, si rianima un palpito antico di passioni, come un calore di fiamma lontana, si ridesta quel foco, rivive il poeta, rivive per quell’istante eterno in cui durano gli amorosi sospiri, gli aneliti brevi di foglie dal bosco, i leggiadri voli d’aulenti fiori di mare, i guardi ridenti e fuggitivi di fanciulla di paradiso, rivive quel poeta nel core d’ogni uomo, di questo aspirante prosatore che ora ti scrive e usa i deittici con tutta la gestualità teatrale tipica dell’uso leopardiano (“questo” per indicare il finito e il prossimo, “quello” per richiamare alle cose lontane e illimitate).
E comparando (così come il somme facea di questa siepe e di quello infinito silenzio) le due epoche e i due stati d’animo, la vita del poeta e la propria esistenza, l’infinita abilità del vate e la propria ignavia letteraria, le immagini della poesia e quelle della vista, gli occhi della lettura e quelli della vita, si entra e si sprofonda in un istante eterno in cui l’anima si permea di beate infinità spaziali e temporali, si ammanta di auree di idealità antiche e di freschi pensieri novelli, sì che vita e letteratura cessano di essere fiaccole labili nel buio sepolcrale dell’esistenza per fondersi nell’alma e ardere come in un’unica travolgente fiamma che, similmente al sembiante di un divo solare, brilla e risplende di luce propria illuminando le piagge e scaldando i petti.

Non poteva mancare poi il richiamo al Leopardi di cui entrambi ci sentivamo esistenzialmente discepoli.

Mi sovvengono ora alla mente quei tardi meriggi e quelle lunghe sere in cui ancora più fanciullo che adolescente, “gli studi leggiadri talor tralasciando e le sudate carte”, alla finestra affacciato, miravo (pallido e assorto) coetanei giocare in verde zolla e compiere la palla mille giri, mentre il carro di Apollo, stanco, lentamente scivolava giù pei pendii degli azzurrini monti, quasi a segnare la fine delle cotidiane cure. “Era già l’ora che volge al disio ai navicanti e intenerisce il core lo dì ch’han detto ai dolci amici addio e lo novo peregrin d’amor punge s’ode squilla di lontano che paia il giorno piagner che si more”. Tutto il paesaggio, dalla campagna rimota ai lontani monti, dal rustico fattor alle colline molli parea intendere il termine dei giornalieri affanni, ma io doveva ancora lavorare, io aveva ancora l’alma turbata, allorché di lontano giugnea la voce della campana.
Ove vuoi esser gita dunque la mia felicità se non in quell’istante in cui, terminati gli studi, contemplava, dall’angustia della sua stanza, dalla ristrettezza dei quotidiani affanni, l’immensità dell’orizzonte, l’infinito miei più intimi sentimenti? Quale maggiore letizia di un roseo tramonto in sintonia con i moti dell’anima mia che lentamente volgevano alla quiete? Immagina per un istante il fanciullino ch’io era. A quale più intensa gioia guardavano i suoi occhi sognanti perdendosi nella vastità della pianura, confondendosi fra le nubi rosate da un sole morente, vagando tra i dolci pendii delle prime colline velate da un effimero luccichìo? Non sapeva forse che una nuova alba lo attendeva, e un’altra grigia giornata, e un ennesimo arido meriggio, e così fino al definitivo tramonto oltre il quale v’è solo una fredda e lunga notte da dormire (nox est perpetua una dormienda)? Ma non importava: in quell’istante così breve quanto intenso tutto spariva, un lampo di felicità gli colpiva il cuore e allora giunse ad attribuire persino un senso alla propria vita, a quella stessa vita ch’egli aveva imparato a deridere, a odiare, a disprezzare. Anche se i compagni di riso e di diletto non comprendevano il suo costume solitario, anche se schivo dell’anno e della vita trapassava il più bel fiore, anche se giorni orrendi di noia e di delusione avea in così verde etade, anche se non avrebbe raggiunto gli ideali giovanili, anche se la domenica non avrebbe mantenuto le attese del sabato, anche se la speranza, proprio in quanto vaga e indefinita si sarebbe dissolta al contatto con il mondo materiale, ove tutto è freddamente determinato e limitato inesorabilmente, quel sentimento stesso era ragione di vita. Prova dunque, di grazia, se ancor non ti tedio troppo, a immaginare qual gioia novella, qual soavità non mai provata si schiuse nel profondo del cuor suo allorché giunsero fuse le più pure essenze poetiche dell’Infinito, del Sabato del villaggio, della Quiete dopo la Tempesta, del Passero Solitario (passer mai solitario in alcun loco fu quant’io)
Come la parola lieve del verso disegna svelta le linee e le movenze che l’estiva vesticciola finge nell’aere attorno alle delicate forme della giovinetta, così quelle rime ondeggiavano sui moti del mio animo e meglio li riproducevano di foco dietro ad alabastro.
Come l’inesperto garzoncello vede riflessa nella luna l’immagine dell’amata, intatta nel suo celeste splendore, “pallida no ma più che neve bianca” e vagheggiando arcani mondi sconfinanti regni di candida e pura beltà ode nella voce del mare il respirar di lei (dulce ridente dulce dormiente), sì prossima come mai in vita avrebbe potuto o osato, così una consonanza di affetti, un’armonia di teneri sensi si instaurò tra il mio animo e la poesia e sorse melodiosa un’assonanza di tristi e cari moti del cor: in una parola, si verificò un idemsentire nel senso più pieno e pregnante del termine (sentire allo stesso modo, avere la medesima visione del mondo).

Il discorso sull’idemsentire mi permetteva di associare all’Infelice di Recanati anche l’esule di Giacinto e autore dei “Sepolcri”. Era evidente come il quinto anno di liceo fosse per me ancora di là dal passare!

Venni avvolto e trasportato da un vento che mi accarezzò le guance e mi librò i pensieri, da un foco che m’accese il petto e penetrò negli abissi più reconditi del mio essere ed esclamai:
“celeste è questa corrispondenza d’amorosi sensi, celeste dote è negli umani” un’anima mi parlava da lontananze remote, come il vento che faceva stormire le fronde della siepe, e una memoria arcana, una vita già vissuta emergeva nitida, attraverso le immagini usate e le note forme, dagli oggetti quotidiani: un nuovo mondo s’apriva ai miei occhi. Dietro quella siepe, quel cielo, quel verone, quella torre si celava un altro universo (i ricordi, l’infanzia, la speme, il futuro) e in luogo della vista principiava a lavorare l’immaginazione. Quel nuovo mondo ideale certo non sostituiva questo nostro mondo materiale, bensì l’arricchiva, e siccome iniziavo a vivere più in quello che in questo, dantescamente giunsi: “Flavio già fui, Giacomo son ora”. Persiceto divenne Recanati, la mia cameretta l’ermo colle, le femminette presero i nomi di Silvia e Nerina, la distesa celeste finse in lontananza il tremolar de la marina, il rintocco di campane era della torre del “natio borgo selvaggio”, mentre la luna, l’intatta luna, la vergine luna, la graziosa luna divenne l’immagine, quasi il simbolo della speme, avvolta da un alone di luce diffusa, da un’aurea di idealità armoniosa e beate destinata inesorabilmente a svanire a contatto con le terrestri cure. Da allora, ogni volta che miro nel viso di giovinetta la speranza vergine, incolume, l’ignoranza completa del male, delle sventure, de’ patimenti, il fiore insomma primissimo della vita, rivedo con gli occhi dell’anima i guardi innamorati e schivi di quelle negre chiome alla cui voce il poeta porgea gli orecchi. E il pensiero dei patimenti , “delle sventure che vanno ad oscurare e a spegner ben tosto quella pura gioia, della vanità delle speranze, della indicibile fugacità di quel fiore, di quello stato, di quelle bellezze” ammantano la giovine di un velo di malinconia tale da renderla vaga e sublime come nulla di eterno può essere. E se dopo tempo la rimembro, cristallizzata nel ricordo, quell’immagine diviene più della vittima sacrificale della natura, più del simbolo della speme, più dell’effigie della giovinezza, diventa l’essenza stessa della poesia fatta sensibile.
Fino ad oggi poi, ogni volta che scolari feste o sabbatici serali ritrovi mi pongono per caso o per celia del destino in mezzo agli altri, che contenti gioiscono delle semplici e schiette consolazioni materiali, io schivo, per costume e per bisogno, mai per sdegno, quegli spassi
Hai certamente veduto come, allorché la primavera del divertimento brilla nell’aria sarda, (che sia musica di discoteca piuttosto che tonar di ferree canne di fiera paesana è solo questione di onde transeunti, non di acqua substantiale), mentre la gioventù del loco mira ed è mirata, io fuggo lontano, (“quasi romito e strano”), dall’incrociarsi di quei guardi, e in disparte miro la falce di calante luna mietere le speranze e nell’onde sento chetarsi i cotidiani affanni, non traendo sollazzo alcuno da que’ materiali giuochi. Potea Giacomino sentirsi diversamente alla fiera di Recanati?
In questo abisso orrido, immenso, dell’umana vita, sembrano veramente i letterati aver rapito una favilla al sole a illuminar la sotterranea notte.
Nelle leggi meccanicistiche delle natura, incuranti dei bisogni e degli affetti umani, ecco l’anello che non tiene tanto agognato da Montale, ecco un varco nella rete che prigionieri ci tiene legati al nostro tempo. Un filo rosso di sangue e di passione lega gli animi affini di diverse epoche e permette di salvarsi dal fluire dei secoli. Come già aveva capito Seneca, solo gli affaccendati in vicende terrene e materiali vivono ristretti nel proprio tempo, che vedono fuggire via come da vaso senza fondo. Se infatti sappiamo, grazie alla letteratura e alla filosofia, liberarci dalle mondane catene, possiamo spaziare in ogni epoca (nullo nobis saeculo interdictum est) e fare tesoro non solo del nostro tempo, ma anche di quello dei grandi vissuti prima di noi. Allora “disputare cum Socrate licet (ci è lecito), dubitare cum Carneade, cum Epicuro quiescere, hominis naturam cum Stoicis vincere, cum Cynicis excedere”, inveire con Dante, piangere con Petrarca, vagheggiare con Poliziano, pensare con Machiavelli, consolare Tasso, elogiare con Marino, sospirare con Metastasio, deridere con Parini, ragionare con Verri, sdegnarci con Alfieri, gridare con Foscolo, pregare con Manzoni, celebrare con Carducci, cullare col Pascoli, suonare con D’Annunzio, meriggiare con Montale.
Ecco il senso e il fine delle humanae litterae: nulla di più umano v’è a questo mondo amaro, nulla di più pietoso, nulla di più adatto a soddisfare, nella loro divina inutilità pratica, quelle esigenze proprie dell’uomo. A confortare queste mie parole chiamo non la medioevale pretesa di superiorità della vita teoretica su quella pratica, fondata sulla celebre parabola evangelica, ma la religione, tutta umana, del Foscolo. “Da dì che nozze tribunali ed are dier alle umane belve pietà di sé e d’altrui” da quel giorno, dice Foscolo, assieme alla pietà pei defunti, nacque la letteratura, la tomba eternatrice de’ pensieri, la gentile arbore amica che preserva dal ciclo di natura il nostro nome e la nostra più pura essenza. I ricordi e le riflessioni sono l’aura inanzi a cui fugge la vita di ogni uomo di sentimento, per cui empio sarebbe lasciarli vagare senza sosta come fantasmi nel vespero migrar, disperati alla ricerca della quiete serenatrice. Giusta dispensiera di gloria è Morte: “L’armi d’Achille tornan sovra l’ossa d’Aiace”, tornano i pensieri nostri, se abbiamo lasciato eredità d’affetti, nelle menti dei posteri.
Soave e caro è postulare con l’illusione ciò che la ragione ha negato.
Quando in tenebrose notti il pensier mio erra infino alla fatal quiete e si smarrisce in un buio e in uno sgomento infiniti, e mi domando cosa sarà delle menti e delle cure umane, degli affanni e delle speranze mie (che dei diletti miei, che di”), mi sovvengono dolci e care le parole di un umanista, tale Cristoforo Landino “le azioni finiscono con gli uomini, ma i pensieri, vincendo ogni secolo, vivono immortali e si innalzano all’eterno”.
E’ possibile veramente trovare ristoro nel mondo letterario (e non è una mera reminiscenza dell’antologia di italiano, come nei serali ritrovi, sprezzanti, i nostri amici vollero ammonirmi per deridere questi miei pensieri), un mondo ove non ci spaventa la povertà, non ci atterrisce la fame, non ci scalfisce il tempo. Se però un giorno queste mie parole saranno obliate non solo dalla tua mente, e da te (che lungamente avrò tediato con questa lettera), ma anche dall’interesse dei posteri, e dall’occhio vile del volgo, allora un canto di musa consolerà o il mio udito o il mio ricordo.

Il finale dei Sepolcri, con il suo mito della musica che vince “di mille secoli il silenzio” era ideale per chiudere la lettera con un sincero augurio al futuro di Carla come cantante lirica.

Resterà, immutato dal fluire degli anni e dalla furia dei secoli, il canto perpetuo della poesia lirica che ha sempre eternato i lamenti dei vinti e gli inni dei vincitori, laddove, “l’armonia vince di mille secoli il silenzio”. Per questo attentamente rivolgo ora il pensiero al tuo “sacro” ruolo di cantante: il suono delle Muse sul monte Elicona rese immortali le fatiche degli uomini, le gesta degli eroi e le virtù degli Italiani. Spero mi voglia tenere informato dei tuoi futuri successi in campo musicale, dato che, per gli amici di oggi e per gli ammiratori di domani, nessuna voce umana potrebbe più soavemente della tua risuonare nel mondo intiero l’eterna melodia della Nostra Italia.

Anche questa lettera, come quella ad Eva dell’anno prima, attende ancora una risposta. Cambiano i caratteri delle fanciulle, cambiano i loro rapporti con me, cambia il loro livello estetico, cambia il loro grado di sensibilità umana e letteraria, ma resta costante, in Italia, la loro abitudine a lasciare cadere nel vuoto le parole scritte per loro. Forse sono ingiusto verso una pulcella che magari ha rinunciato a rispondermi perché mi immaginava e mi voleva felice conquistatore della “dama” di cui mi ha passato il contatto, ma questa è la verità.

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Le donne italiane, che banalità Monsieur, le pare che si possa parlare della cucina italiana come se fosse tutta pasta?

Ma lei sa quanta pasta producono in Italia? Lasciamo perdere, perché lo sforzo anche al netto dei risotti sarebbe notevole e inutile

Pensi che in Italia si concentrano sulle melanzane, che di per se è un frutto notevole anche se capriccioso e va fatto spurgare

Si pensi al tartufo degli Appennini, mica è un vedere da 8, però quante soddisfazioni. Una bella mozzarella di Benevento, quante soddisfazioni in quella burrosità

Pensi al riccio di mare, a fare gli schizzinosi quanti panzoni ci si sono saziati al posto vostro?

Monsieur bisogna mangiare e dopo aver assaggiato tanto magari scrivere una guida alla artusi , perché sa i nostri nonni mangiavano anche ceci, ma con certi condimenti veniva fuori un gran bel piatto

Eh si, suo figlio Giacomo mangiava oggettivamente poco

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(...) Anche questa lettera, come quella ad Eva dell’anno prima, attende ancora una risposta. (...)

Confessa: dobbiamo leggerti in chiave di satira, anzi di auto-satira. Satireggi certo tipo di intellettuale coltissimo eppure vacuo (e fatuo), e ci riesci strepitosamente.

E il lenzuolo si gonfia sul cavo dell'onda 
E la lotta si fa scivolosa e profonda

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Immagino Magda che riceve un altro di questi tomi epistolari, seduta sul water, con accento torinese:
'Non ce la facciooo piùuuuuuu !!!' 😄

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@Tesista76 said:
Le donne italiane, che banalità Monsieur, le pare che si possa parlare della cucina italiana come se fosse tutta pasta?

Ma lei sa quanta pasta producono in Italia? Lasciamo perdere, perché lo sforzo anche al netto dei risotti sarebbe notevole e inutile

Pensi che in Italia si concentrano sulle melanzane, che di per se è un frutto notevole anche se capriccioso e va fatto spurgare

Si pensi al tartufo degli Appennini, mica è un vedere da 8, però quante soddisfazioni. Una bella mozzarella di Benevento, quante soddisfazioni in quella burrosità

Pensi al riccio di mare, a fare gli schizzinosi quanti panzoni ci si sono saziati al posto vostro?

Monsieur bisogna mangiare e dopo aver assaggiato tanto magari scrivere una guida alla artusi , perché sa i nostri nonni mangiavano anche ceci, ma con certi condimenti veniva fuori un gran bel piatto

Eh si, suo figlio Giacomo mangiava oggettivamente poco

Molto semplicemente, se voglio gustare una specialità, entro in un ristorante, ordino e pago il conto. Sono i contemporanei che vorrebbero fosse necessario, per mangiare, sedurre la cuoca.
Senza pagare, le donne di tutte le paste (e di tutte le nazionalità), se mi hanno qualche volta lasciato sedere alla loro tavola, lo hanno fatto solo per gustare nei miei occhi l'acquolina per un cibo che fin dall'inizio non avevano nessuna intezione di avere. Forse era cucinato malissimo e condito peggio, ma avendone solo sentito, l'odore, mi ha comunque inflitto il supplizio di Tantalo. Alcune volte mi hanno mangiato in faccia, altre si sono inventate una scusa per scacciarmi quando la pietanza stava per essere servita.
Devo ringraziare?

Per voi le donne vanno sempre ringraziate.
Altrove, messere, dite di essere poco religioso, ma parlate come il predicatore di Crociate nell'Armata Brancaleone di Monicelli. Che dopo averne subite di ogni dal cielo, dice: "Grazie dio per averci sottoposto a questa prova!".

E allora: grazie, stronze, per aver usato la vostra presunta bellezza solamente al fine di ferire, irridere, umiliare, per aver sfruttato le disparità psicologiche e di desiderio nel cosiddetto corteggiamento come un bullo farebbe della forza fisica verso il ragazzo più piccolo, perchè così ci avete reso integerrimi misogini e puttanieri giurati che non saranno più feriti ed anzi, in qualche modo ve la faranno pagare (se non altro raccontando qua quanto ci divertiamo negli FKK mentre voi invecchiate).

Grazie, femministe, per aver costruito una propaganda mondiale e pervasiva contro il nostro sesso nei media, nella magistratura e nei rapporti sociali, per averci odiati, in ogni nostra natura, in ogni nostra espressione di desiderio, in ogni nostro sguardo, parola, respiro, perchè così avete messo alla prova (e vinto) la nostra pazienza e ci avete mostrato come si fa ad odiare (Goebbels non era così bravo come voi)! Soprattutto, quanto poco manchi alla rottura del patto sociale (le scatole ce le avete già rotte).

E, già che ci sono, grazie politici, per avercelo messo nelle terga per 25 anni (e forse da prima) , così ci avete insegnato a capire quale fregatura sia, alla fine della fiera, il modello "liberal-progressista"! Anche se un po' in ritardo su quanto già si scriveva con intelligenza sul "Pensiero Romagnolo" commentando il Machiavelli.

Grazie, antifascisti di tutto il mondo, per averci fatto capire, a forza di darci degli "ur fascisti" ad ogni nostra opposizione alle teorie ed alle prassi "progressiste" (in realtà distruttrici della civiltà indoeuropea, oltrechè di ogni ragione, di ogni natura, di ogni logica, di ogni diritto, come, insomma, le Erinni e quindi, dovrei dire, "decadenti", se non "degeneri", ma con quest'ultimo termine provocherei il ban anche per me come già per @Babbo), con chi dovremmo stare nella prossima guerra!

E concludo, dalla Sublime Porta: grazie, cristianesimo, per averci finalmente disvelato, con le rivoluzioni liberali, socialiste, femministe (tutte figlie laicizzate della sovversione dei valori denunciata dal Federigo) arrivate al loro epilogo, ed ora, con la chiesa di Bergoglio e il suo sostegno al mondialsmo, al "progressismo" (ovvero, come detto, alla decadenza) ed al femminismo demagogico (quello che si lamenta, ad esempio, delle differenze di salario quando a parità di sbattimento non ce ne sono -ce ne sono fra chi, per obbligo sociale e sessuale, deve arrivare ad occupare una certa posizione e guadagnare per forza tot euro - altrimenti non tromba, anzi, non viene neanche considerato come papabile - a costo di subire lavori stressanti e chi può scegliere il "life balance"-, quello che si straccia le vesti per centinaia di femminicidi quando per migliaia di morti maschi sul lavoro e per centinaia di migliaia di uomini rovinati dalle donne attraverso la magistrastura sta zitto!), la tua vera natura di nemico della vita (e soprattutto, del nostro genio vitale creatore di quelle civiltà che hai solo saputo invidiare, dannare e condannare, pur prendendotene le prebende materiali e le costruzioni intellettuali). Grazie, insomma, per averci dato il motivo definitivo per converci all'Islam (che,almeno ha dei maschi per presupposto)!

In Sha Allah!

P. S.
Ma sì, certo le melanzane già allora facevano "le stronze" (il femminismo quanto a questo è innocente) e la colpa è del più delicato, dotto, profondo e imaginifico poeta della nostra Letteratura che sarebbe stato "sfigato e segaiolo". A sessi invertiti, sarebbe come dire: "non è lo stupratore ad essere violento, è la donna ad essere una sfigata che gira da sola per strada e accetta caramelle daglis conosciuti". L'ho già sentita a pranzo, dieci anni fa, da una stronzetta che per fortuna se ne è andata in Francia (ed ha sposato un mangiarane suo pari per puzza sotto il naso). Meglio fare sesso "con una persona che si stima moltissimo" piuttosto che con quel tipo di melanzana.

In questa raccolta ho selezionato dodici donne (di cui dieci italiane) che non si sono mostrate stronze.
Mi pare di aver distinto a sufficienza, dato che, rispetto alle altre, sono state "salvate" (qui rimangono vent'enni) almeno nel ricordo (mentre le altre sono negli "anta" senza ritorno).

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@marko_kraljevic said:
(...) Anche questa lettera, come quella ad Eva dell’anno prima, attende ancora una risposta. (...)

Confessa: dobbiamo leggerti in chiave di satira, anzi di auto-satira. Satireggi certo tipo di intellettuale coltissimo eppure vacuo (e fatuo), e ci riesci strepitosamente.

L'autoironia (intesa come non prendersi troppo sul serio) è una delle tante lezioni nietzscheane, per cui non potevo essere serioso nel narrare i miei contatti con il mondo femminile.

La chiave satirica, però, non è rivolta contro di me, bensì contro quelli che, come voi ora, dimostrano di considerare "nulla" il cuore della riflessione filosofica e letteraria che da Seneca (il "de brevitate vitae" inizia con il motivo per cui ha senso leggere) arriva al Leopardi passando per il Petrarca.
Io feci personalmente il percorso inverso, identificandomi con il Leopardi quattordicenne per una comunanza di sentire riguardo ai principali temi esistenziali. Certo, io non valgo gli originali, ma almeno di quelli ho compreso da più di vent'anni il valore. Mi è toccato invece in sorte di dialogare con poveri di spirito per cui quel "tutto" era "nulla" (e per i quali, di converso, "argomenti di riso e trastullo eran dottrina e saper"). E che, come voi, mi hanno quindi considerato "vacuo". Pazienza quando erano studenti svogliati o studentesse che preferivano irretire coetanei. Più grave quando erano "intellettuali" (ma forse D'Annunzio non avrebbe mai dovuto coniare quella parola).

Comunque, che chiamare "nulla" il "tutto" (o viceversa, come fanno @Arietback e compagnia, per i quali il mondo coincide con il proprio social circle e altri "feticci della nulla"), così come bene il male (e viceversa), valore il disvalore (e viceversa), barbaria la civiltà e civiltà la decadenza, siano un segno del Kali Yuga era noto già ai maestri Indù. Forse che non ve li hanno tradotti in serbo?

Ah, no scusate, mi sto sbagliando, ho scritto gli ultimi episodi perchè me li ha ordinato lo psicologo per calmarmi....

Parlando seriamente, e invoco l'admin, al prossimo vostro post in questo 3D (fosse anche per dire solo "OK, va bene"), io concludo qui il romanzo che avrei voluto donare al forum. Non potete pretendere che tolleri ancora la vostra presenza dopo quello che vi siete permessi l'altra volta (e che avrebbe dovuto, a mio giudizio, essere sanzionato in ben altro modo, dato che si stava solo argomentando). Scelga l'Admin se preferisce mantenere qui un ribelle serbo (che ha già dimostrato in un'altra occasione di usare la penna come il suo nick usava il pugnale) o un sultano ottomano (che voleva indegnamente ma con sincerità essere "l'Ariosto de noialtri").

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Blumedico

@Feynman

Mi sfugge perchè la povera Carla, che si dimostrava così incantata alle mie "storie" raccontate oralmente, dovrebbe esserne annoiata leggendole.
Ma, un momento, mi sta mandando un messaggio:

"Ajò, ma quale torinese. Sarda sono!"

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@Beyazid_II

Fattela però una risata ogni tanto. L’umorismo, lo scherzo, la battuta servono a riorganizzare i livelli logici, e con essi a riadattare le reti neuronali, a diminuire la carica energetica delle connessioni, e ad adattarsi rispetto all’osservazione e all’esperienza. In una parola: ci si diverte.

Io voto per la continuazione dei racconti, magari potresti non diventare ricercatore ma vincere il premio Pulitzer, chissá.

😁👍🏻

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QUARTO GRADO: DA MARSILIO FICINO A FRIEDRICH NIETZSCHE (9/18)

Ovvero: "LE DONNE, I CAVALLIER, L’ARME, GLI AMORI, LE CORTESIE, l’AUDACI IMPRESE"

Parte 9 di 18 : “Le donne: Nina”

Fra me, Carla e l’amico di Roma, a cui avevo fatto da navigatore per scherzo in quel mini-rally di “Costa Smeralda” che era stata la nostra uscita serale, sorgeva talvolta, nel primo pomeriggio, qualcosa di simile ad un salotto letterario-filosofico fra gli sdrai e i tavolini della piscina dell’hotel vicino al bar, quando nella caletta faceva ancora troppo caldo nonostante il provvidenziale “mistral”. Carla era libera dai suoi impegni di animatrice perché i bambini dormivano con le loro mamme dopo il pranzo. Per lo stesso motivo, era libero dai suoi impegni di papà anche il driver capitolino della Mercedes C-Klasse. Solitamente, io mi intrattenevo soltanto per breve tempo, giusto per bere qualcosa prima di tornare sotto l’ombrellone a leggere, in quanto preferivo l’ambiente marino naturale a quello artificiale. Quella volta, stranamente, rimasi più a lungo. Si parlava di come dovesse essere una donna. Strano che la discussione fosse condotta con pari vivacità e convinzione dai due, nel medesimo senso, a cui solo io parevo oppormi con sdegno. Non era forse strano per lui, che evidentemente, se anche da sposato era così attento (come stava dimostrando) a ingraziarsi le animatrici e, soprattutto, ad adocchiare le villeggianti, doveva davvero avere un debole particolare per la sensualità. Era stranissimo, invece, per lei, la quale, nella sua affabile modestia, tutti i ruoli femminili pareva voler ricoprire, dalla confidente di teneri sensi con i coetanei alla piccola madre per i bambini, dall’amica intellettuale con cui discutere di letteratura e di storia alla coetanea alla mano con cui uscire e passare il tempo senza secondi fini (quindi soprattutto senza impegno psicologico e preparazione “strategica”), fuorché quello di “seduttrice”. Possibile fosse così masochista da proporre un modello di donna totalmente estraneo a se stessa?

Entrambi sostenevano, difatti, che nessuna virtù morale, nessuna dote intellettuale, nessuna costruzione del pensiero potesse sostituirsi alla forza dei sensi nel generare i presupposti non solo per l’innamoramento, ma anche per un rapporto duraturo.
“Una donna deve essere sensuale”. Diceva l’amico. “Ma no”, dicevo io, “deve sublimare l’animo”. “Ti deve piacere…” cercò di trovare un compromesso Carla mettendo le mani avanti quasi a dirmi “calma, calma”. Io, che potevo certo accettare l’immediatezza degli istinti essere alla base di quanto, nella dottrina neoplatonica, era l’amore sensuale, non potevo però ammettere tale base potesse essere sottesa anche all’amore “celeste” (intendendo con ciò, proprio come l’autore degli “Asolani”, quell’elevarsi del desiderio per la bellezza dall’ambito dei sensi a quello dello spirito, al di fuori del quale non vedevo alcun motivo per il matrimonio o anche solo per un fidanzamento più lungo del tempo necessario ad appagare, con una singola donna, il proprio desiderio naturalmente poligamo).

“Ho detto sensuale, non sessuale” – precisò Carla quasi con tenerezza per placare le mie rimostranze. Avevo come modello Beatrice, perché non era una donna terrena, soggetta come tutte le creature alla corruzione del tempo e della morte, ma la “beatitudine dell’anima fatta sensibile” (come mi ricordavo avesse detto un fine critico), ovvero, al contempo, la figura simbolica dell’ideale di conoscenza (che conduce a Dio) e il piacere che la contemplazione di tale ideale provoca negli spiriti eletti (i quali, quindi, hanno in lei una premessa – più che una promessa – di paradiso).
Avevo come modello Laura, perché proprio il suo essere, a differenza della figura dantesca, una donna “vera”, con le sue grazie corporali e la sua bellezza destinata a spegnersi come “soave e chiaro lume”, induce il poeta a “conoscer chiaramente che quanto piace al mondo è breve sogno”, a vergognarsi del tempo perso in vaneggiamenti di amori mondali e, di conseguenza, a “non salire mai oltre il bel piè” nelle liriche, la cui tensione amorosa nasce proprio dalla volontà cosciente di “coprire” il desiderio dei sensi.
Avevo come modello, e non lo dicevo, Elisa, perché, proprio come per Laura, la sua prorompente sensualità era stata il motivo per il quale l’avevo ricoperta del velo della purezza (la immaginavo sempre vestita di bianco come la prima volta in cui l’avevo incontrata e mi vietavo di immaginarla in atteggiamenti erotici), del velo del silenzio (neppure mia madre aveva mai saputo di Elisa: il mio diario sentimentale era stato custodito più gelosamente di un segreto di stato), del velo della malinconia e del ricordo (avevo iniziato a scrivere di lei al passato remoto, come ne potrei scrivere ora dopo vent’anni, già dalla sera prima dell’addio e già dopo un mese sapevo che non l’avrei mai dimenticata), del velo di quell’idealità armoniosa e beata ben raffigurata dalla ”notturna lampa” (non mi curai mai di sapere la fase lunare nella notte in cui la conobbi e in quella prima dell’addio, ma ebbi sempre davanti agli occhi l’immagine di me solitario sulla riva con gli occhi al cielo a mirare il plenilunio, quasi ad immaginare, nei mondi più lontani, le gioie più intime), di tutti quel veli, insomma, che impediscono alle cose sognate di diventare reali e, per questo, le preservano intatte nella loro perfezione (che sarebbe compromessa dalla realizzazione terrena), nella loro vaghezza (che, propria dello stato di lontananza, sarebbe dissolta dalla necessità di “definire”, e quindi limitare, insita in ogni azione concreta), nella loro infinita desiderabilità (che si dissolverebbe nella vicinanza).

“Vabbè, non come Laura e Beatrice…” disse finalmente Carla con tono amichevolmente sdrammatizzante. L’amico di Roma aveva, al contrario di me, un modello concreto da additare. “Quella signora, sarà forse sulla trentina, che si vede ogni tanto passare di qua per andare a prendere il sole nell’altura dietro le piante”. Evidentemente il suo status di coniugato non gli impediva di essere molto più attento di me alle nuove avventrici dell’hotel. “Quando l’ho vista passare questa mattina col pareo portato in quel modo ho detto: quella è la sensualità a passeggio”. Avevo in effetti una vaga idea di chi potesse essere, ma riuscivo a farmi venire alla mente soltanto una delle tante “melanzane” con i capelli banalmente lisci e marrone scuro ed il viso inespressivo coperto da occhiali da sole, perennemente seriose e con la bocca socchiusa come a sbuffare per qualunque sguardo o approccio, o a dare ordini silenziosi a presenti o immaginari servitori o amici-zerbini. Una in particolare, forse, era oggettivamente più bella delle altre, ma, al di là dell’aver ancheggiato un po’ più vistosamente della media, non ritenevo stesse mostrando al mondo nulla di particolarmente degno per diventare emblema di qualcosa.
Una cosa erano, per me fino a quel momento, le immagini della lussuria. E altra quelle della poesia. Allo stesso modo, da una parte c’erano le muse e le potenziali amate e dall’altra le ragazze normali più o meno belle e più o meno ritrose e le donne dai costumi più o meno facili. L’una cosa, insomma, erano i sensi, l’altra lo spirito.

Non avevo insomma mai saputo pensare, con D’Annunzio, che “l’opera di carne” potesse divenire “opera dello spirito ed i moti dello spirito fremiti della carne”. Mi mancavano non solo le premesse filosofiche, ma soprattutto il vissuto di una tale esperienza da “Poema paradisiaco”. L’esperienza sensuale, anche e più di quella spiritualmente amorosa (che pure avevo potuto vivere nell’intimo) era rimasta per me una vera e propria chimera. Non potevo immaginare che di lì a qualche ora la Chimera si sarebbe mostrata proprio a me e proprio in quel luogo.
Il pomeriggio si era fatto tardo, fra i dialoghi con i miei due interlocutori reali e quelli fra me e me. Mancava ormai poco alla cena. Era quella che il D’Annunzio del “Fuoco” chiamava “l’ora del Tiziano”, perché, alla luce del tramonto riflesso sul mare, i colori acquistano una sì viva tonalità che paion le figure stesse irradiare una tal chiaritate quale che si mira nelle pitture del Maestro. In quell’ora io la conobbi. Solo la “Romanza” che D’Annunzio fa iniziare con il petrarchesco “Dolce ne la memoria” può accostarsi all’armonia che magicamente si stabilì, fra cielo e terra, davanti ai miei occhi e dentro la mia anima in quel momento, a quell’apparizione:

Una pace serena,
la pia pace che amavi
ne’ tuoi cieli soavi,
o Claudio di Lorena,

si spandea ne l’occaso,
piovea su’ cuori oblío.
Vinto l’essere mio
da quel fascino e invaso,

tutto de la recente
voluttà pieno ancora
(come, o dolce signora,
la tua bocca era ardente!),

all’alto all’alto, anélo,
tendea, spenta ogni guerra.
E parea che la terra
illuminasse il cielo.

Vidi il suo sorriso. Quella serena beatitudine e purissima gioia non sarà mia più mai.

“Voi che passate voi siete l’Eccelsa
e passate così, per vie terrene
chi vi prende chi vi tiene?
Siete come una spada senza l’elsa
Pura e lucente non brandita mai”

Ora era il “Poema Paradisiaco” a parlarmi. Passeggiava con sua madre essendo appena arrivata in albergo. Avevo visto per un attimo il suo sorriso perché si tolse gli occhiali per salutare il personale dell’accoglienza. La madre, mi fece notare la mia mamma, era zoppa. La figlia pareva invece a suo agio nella falcata da modella che mostrava, a gloria della natura, due gambe stupende e, al pari dell’altre grazie che (come direbbe Dante) “è bello tacere”, marmoree (perfettamente scolpite cioè nelle loro linee, definite come da un ottimo e divino artefice rinascimentale).

Aveva, la sua bellezza, veramente qualcosa di “barocco”, non nel senso deteriore di “pesante” o “posticcio” che i detrattori di tale stile vi attribuiscono oggi, bensì nel senso originario di “perla rara” da cogliere grazie all’arte e all’arguzia, che ne davano i poeti del Seicento.
Non era in effetti vistosa né per capigliatura, né per trucco, né per abbigliamento. Bisognava essere attenti per cogliere quanto la distingueva dalla norma di quei luoghi. Di giorno vestiva, per le rare volte in cui la si vedeva aggirarsi fra piscina e spiaggia, normali pantaloncini cortissimi, che veramente poco lasciavano all’immaginazione quanto alla statuaria delle sue gambe, ma che erano comuni a praticamente tutte le sue coetanee. Di sera, per la cena che spesso era a buffet, passava fra i tavoli con un vestito lungo che, per quanto elegante e ben portato, non la poneva su un piano d’impatto visivo troppo diverso da quello di gran parte delle altre signore, di età più matura.

Eppure la vedevo fisicamente altissima e socialmente inarrivabile. “Ma no, sarà alta come te, è che ha dei tacchi così” disse mia madre mimando il gesto di misurare almeno dodici centimetri. “Stanno sempre fra loro, non parlano con nessuno” osservò poi circa il contegno della fanciulla e di sua madre, che io interpretavo come segno di appartenenza ad un empireo di nobiltà che non ama mescolarsi. “La madre per me ha la puzza sotto al naso” interpretò invece la mia mamma. “Ma a me interessa la figlia!”.
I suoi capelli erano folti e ricci, di un nero intenso e le circondavano l’ovale del viso come solo in certi ritratti di madonne veneziane si può vedere. In qualche punto del romanzo ambientato a Venezia, D’Annunzio scrive di certi visi di donna “belli come un bel viso maschile”, intendendo con ciò la capacità della perfezione estetica di andare di là addirittura dalle abituali distinzioni di sesso. Quando le linee del viso sono perfette, basta cambiare la capigliatura d’intorno per mutare l’effetto da maschile a femminile e viceversa. E’ forse questo il mistero, ad esempio, della “Gioconda”.

In quella lirica della Chimera dedicata “Al poeta Andrea Sperelli”, il Vate scrive in proposito:“E anch’ella simigliava oscuramente/ l’Essere ambiguo, il prodigioso Mito/ che Leonardo amò ne la sua mente.” Non lei, ma la madre aveva effettivamente qualcosa di androgino. Vestiva sempre scuro e da uomo. Ella, invece, pareva, nel corpo, un’esplosione di femminilità, specialmente quando si presentava alla cena con il suo vestito rosso Valentino, che avrebbe fatto sfigurare ai miei occhi la simile immagine, al tempo, della Bellucci.
A differenza dell’attrice, ella non aveva quello sguardo a volte troppo da oca giuliva, ma sempre una perfezione composta, che diventava sguardo indefinibile, leonardesco appunto, se lo si associava al nero deciso “dei grandi medusèi capelli”, quelli che tornando al Poema Paradisiaco, sono

“bruni come foglie morte
ma vivi e fien come l'angui attorte
de la Górgone, io temo, se ribelli,
e pieni del terribile mistero.
Me non avvolgerà tanto mistero.
Dicono che nel folto de le chiome
voi abbiate una ciocca rossa come
una fiamma: nel folto chiusa. È vero?
Io la penso, e la veggo fiammeggiare.
La veggo stramente fiammeggiare
come un segno fatale. - O passione
arsa a quel fuoco! - Tutte le corone
de la terra non possono oscurare
quel segno unico. Voi siete l'Eccelsa.”

Non potevo in quei frangenti avvicinarmi tanto a lei da controllare se avesse o meno una ciocca rossa in mezzo ai suoi folti capelli mori, ma in compenso potevo ben ammirare la sua figura statuaria svettare fra gli altri ospiti (parimenti eleganti, ma che, al suo confronto, apparivano “grigi” ai miei occhi) avvolta da quello splendido vestito davvero fiammeggiante. Se fossi stato un pittore o un fotografo, avrei creato un’immagine in bianco e nero con solo lei colorata di fuoco acceso.
Ero soltanto uno studente al primo anno di ingegneria, con molti ricordi di letteratura. Creai quindi un sonetto. Il mio primo sonetto. Fu, più precisamente, la prima volta nella quale composi un sonetto per una donna, sonetto con l’intenzione di consegnarlo (o farlo consegnare) fisicamente alla destinataria.
Quasi come per presentarmi con sincerità, da leopardiano quale ero (o ero stato), scelsi di iniziare il primo verso con un richiamo alle “negre chiome” di Silvia. Lo stesso primo verso doveva al contempo terminare con il premio che avrei voluto ricevere, ovvero un “radioso sorriso”. Questo dettò già metà delle rime nelle quartine. Il resto venne di conseguenza

Negre le chiome radioso il sorriso
Di gaudio pieno e di gaiezza pura
Da chetar sì tosto ogn’apra pena e dura
Quando soave volgi ‘l claro viso

Ad ogni mortal dal tuo guardo priso
Prodigio mai non rimirò natura:
Due lumi fulgenti in notte oscura.
O ameno incanto de’ Paradiso,

Forse da Celeste imago colpito
Son’io o da dolce sogno rapito?
Già tace d’Eolo ‘l soffio per udirti

Si piegano i Lauri e divini i Mirti
Il mondo tutto omai a te s’inchina
Giacché d’ogni desir tu se’ regina.

Già al secondo verso sembro in difficoltà, perché, volendo, gaudio e gaiezza sono sinonimi, ma per fortuna esistono gli aggettivi a distinguere i due sintagmi: “pieno” si riferisce tacitamente alla “paganità” dell’amore terrestre che le di lei grazie mi suscitavano, mentre “pura” richiama all’idealizzazione della figura della donna senza la quale nessun amore celeste è possibile. Ecco che i due mondi, prima contrapposti nel dialogo fra me, Carla e l’amico di Roma, finalmente si univano. La rima in “ura” richiamava di peso il celebre verso petrarchesco ripreso dal centone del Bembo (“riso ch’accheta ogn’aspra pena e dura”), mentre quella in “ira” mi permetteva di tornare allo stilema stilnovista del “claro viso” (in modo che anche il cantore di Beatrice fosse contento al pari di quello di Laura).

La seconda quartina inizia a descrivere gli effetti di cotanta bellezza: lo sguardo degli uomini diventa prigioniero (parola contratta in “priso”), ma soprattutto il mondo può rimirare un prodigio apparentemente impossibile. Ecco infatti qui il cuore del lirica: la “perla rara” che avevo assolutamente in animo di offrire con questo sonetto dedicato ad una bellezza “tardo-rinascimentale” o “veneziano-barocca”. La perla originaria della poesia barocca che avevo in mente parlava di una donna dagli occhi bellissimi che si asciugava le lacrime (nella fattispecie, la donna piangente è Maria Maddalena) con i propri lunghi capelli. Il poeta barocco poteva allora pregiarsi di dire “Ché ’l crin se è un Tago e son due soli i lumi”, ovvero, se i capelli sono lunghi e fluenti come un fiume (“Tago” per sineddoche) e gli occhi chiari come due soli, allora “prodigio tal non rimirò natura: bagnar coi soli e rasciugar coi fiumi.” Tale “arguzia”, che è diventata per molti critici l’emblema dell’intera stagione letteraria barocca, era quanto volevo adattare alla mia situazione, che non si prestava né a romanticherie strappalacrime (le quali non sarebbero state in quel caso nemmeno sincere, sentendomi io ancora sentimentalmente legato al ricordo di Elisa) né, per ragioni opposte, a complimenti troppo arditi (forse sinceri, ma sicuramente poco distinguibili da quelli che avrebbe potuto ricevere in loco da qualunque scaricatore di porto). Il tono quasi di “freddura” veniva però nel mio caso mitigato: gli occhi restavano sì due soli, ma non piangevano più. Al contrario, risplendevano così tanto nel sorriso che, sebbene profondi e nerissimi come la “notte oscura”, parevano nondimeno “lumi fulgenti”. La mia “arguzia” era certo un po’ più complicata di quella originale, ma certamente anche più galante. L’ultimo verso della quartina doveva terminare in “iso”: il richiamo al Paradiso, determinato dall’esigenza metrica, coincide però anche con quello stato d’animo da me provato al tempo e descritto dai versi del “Poema Paradisiaco” riportati prima.

Per le terzine, ammetto di aver usato la poco (o nulla) diffusa rima baciata (quando di solito lì si usano l’alternata o la ripetuta) principalmente per far notare alla lettrice (di cui non potevo conoscere a priori il livello culturale) che tutta la lirica rispetta uno schema metrico. Non volevo pensasse fosse la “solita poesia” che qualunque innamorato poteva dedicare alla propria ragazza. Pretendevo si rendesse conto di essere diventata per caso la musa di uno degli ultimi “poeti estinti”, quelli cioè ancora in grado di rimare.

Già da allora mi resi conto che le terzine sono la parte più difficile del sonetto, sia perché si devono scegliere tre rime per sei versi (anziché due per otto, come nelle quartine) e quindi si è sempre molto più indecisi (quando nella prima parte della lirica la convinzione dei primi due versi può già portare dritti agli altri), sia perché è richiesta bravura per evitare che strofe di tre versi appaiano una versione ridotta e “zoppa” di quelle precedenti a quattro. Voglio dire che, se si mantengono lo stesso ritmo, gli stessi toni e gli stessi argomenti, c’è il rischio che, come notato da qualcuno più autorevole di me, il sonetto sembri una persona con un gran busto (le quartine in alto) e gambe (le terzine in basso) ridicolmente corte. Mi accorsi personalmente di quanto fosse dunque provvidenziale il consiglio di accelerare il ritmo, alzare il tono e concentrare qui il messaggio.
A costo di apparire enfatico citando implicitamente il Foscolo di “Alla Sera”, con il termine “imago” passato dal tono tenebroso a quello disteso (“Forse perché della fatal quiete/ Tu sei l’imago a me si cara vieni,/ o Sera! E quando ti corteggian liete/ le nubi estive e i zeffiri sereni.../), volevo accentuare la gioia paradisiaca che le grazie di colei che avrei saputo chiamarsi Nina (ed essere veneziana come l’esule di Zacinto) mi avevano suscitato. Del resto, l’avevo vista la prima volta proprio in una serena sera d’estate azzurra come uno zaffiro ed allietata dalla brezza marina e con questo sonetto volevo corteggiarla leggero come una bianca nuvola. Ecco quindi che il secondo verso della terzina doveva chiudere rapidamente una domanda improvvisa e dare l’idea del dubbio fra sogno e realtà. Non seppi fare di meglio che riprendere l’espressione “da dolce sogno rapito” da un’opera dell’Alfieri letta per caso. La sonora rima in “irti” doveva legare l’ultimo verso della prima terzina ed il primo della seconda, quasi a richiamare l’attenzione come l’ampio movimento del cappello che i cavalieri spagnoli o i gentiluomini veneziani facevano proprio in epoca barocca prima di inchinarsi a dame e sovrani. Scelsi di far entrare qui il tema mitologico.

Avevo proprio in quei giorni acquistato, in una libreria di Porto Cervo, il “dizionario della mitologia greco-romana”, per rispondere ad un’esigenza di ordine e completezza circa i vari miti che avevo disordinatamente ed indirettamente appreso leggendo e parafrasando Omero, Virgilio e, soprattutto, il fantasioso Ovidio. Vi era inoltre la consapevolezza di trovarmi per la prima volta (l’anno prima ero troppo distratto dagli eventi e dall’insistente presenza dell’amico) fisicamente immerso nell’ambiente della macchia mediterranea da cui la mitologia antica è nata (quasi a dare personalità e senso agli elementi del paesaggio). Fu quindi naturale introdurre il dio minore del vento, che di solito non cessa mai di rumoreggiare in sottofondo, smettere di soffiare e tacere per protendere l’orecchio alla mia bella (come in un film in cui la musica cessa all’entrata della primadonna). I mirti, che D’Annunzio chiamava “divini” nella Pioggia nel Pineto perché sacri a Venere, venivano poi associati ai lauri che rappresentavano la poesia, ovvero l’io parlante, chinato ad omaggiare la mia dama. Gli ultimi due versi accentuano l’inchino associandovi il mondo intero per concludere plasticamente la scena dell’omaggio barocco di un cavaliere di fine Cinquecento. Mi venne naturale proclamare “regina” colei che mi aveva fatto sorgere tanto desiderio.

Forse su questa “deificazione” influiva ancora una volta la recente visione di un film cui avevo assistito con l’animo liberato dagli impegni universitari e quindi pienamente recettivo: “la donna più bella del mondo” con Gina Lollobrigida e Vittorio Gassman. La storia, nella prima parte, ripercorre la biografia di Lina Cavalieri. Ad inizio secolo, una popolana si trova a sostituire la madre in un teatrino di Trastevere, dove le sue doti naturali di attrice la fanno subito apprezzare dal pubblico, ma la sua bellezza le fa ance subire pesanti avances da un prepotente del luogo. Interviene per difenderla un misterioso principe russo che, una volta sapute delle sue difficoltà economiche, le dona del denaro ed un anello. Conscia che solo diventando una famosa cantante lirica avrebbe forse potuto un giorno reincontrare il suo principe, Lina investe tutto il denaro e tutto il proprio impegno nella propria formazione artistica. Grazie al maestro Doria, apprende perfettamente le tecniche del soprano, ma, quando il maestro rivela il proprio desiderio per lei, preferisce rinunciare alle agevolazioni di carriera che avrebbe potuto avere sposandolo piuttosto che tradire il suo principe. Fugge allora a Parigi, ricominciando come vedette di locali osè, nei quali deve scontrarsi tanto con la volgarità degli spettatori quanto con la perfidia delle primedonne locali, che però sgomina in una sorta di duello rusticano che le dà notorietà nella capitale francese. Ecco che finalmente diventa un’affermata cantante lirica e può accedere al bel mondo. Ministri, generali e nobili la ricoprono in camerino di fiori e omaggi di ogni genere e ai balli si mettono in fila per farle la corte. Lina, per nulla “melanzana”, li ringrazia uno ad uno, passandoli quasi in rivista, ma li respinge tutti. Epica la risposta di un vecchio generale in pensione al bonario rimprovero di Lina per essere stato troppo ardito e diretto nella proposta “da uno stratega come voi mi aspettavo qualcosa di più elaborato di un simile assalto frontale” - “Mi scusi signora, ma alla mia età non mi è rimasto molto tempo per un lungo assedio!”.

La seconda parte del film è decisamente più romanzesca. Ecco infatti che, finalmente, quando il destino fa capitare nel palco il principe Sergej, non ha dubbi nel concedersi la sera stessa a colui cui tanto deve ma cui ha anche tanto sacrificato di sé. Il principe però non si ricorda affatto di lei e si fa avanti soltanto per una scommessa goliardica fra giovani ufficiali dello Zar. Quando Lina lo scopre, fugge lontano da Parigi, rifugiandosi nella quiete della campagna, dove oltre alla lirica incontra un tenore che la consola e di cui si innamora. Ma, alla prima rappresentazione locale della Tosca, questi resta ucciso proprio nel modo del Cavalier Cavaradossi (i fucili non erano a salve nemmeno nella rappresentazione!). L’antico amore per Sergej si tramuta in odio, essendo egli il principale indiziato per Lina. Solo dopo diversi colpi di scena e la confessione del vero colpevole (il maestro Doria folle di gelosia) e due possono tornare finalmente amanti e sposarsi.
Quanto mi colpì del film fu il ruolo “divino” della bellezza, motore immoto della trama fin da principio e tanto “celeste” da non portare in sé nulla di volgare o avvilente né quando i corteggiatori vengono respinti (la gentilezza della protagonista mostra sempre apprezzamento per chi è stato a sua volta gentile e genera sguardi e parole a metà fra il compiaciuto e l’affettuoso) né quando persino un nipote dello Zar circondato da temibili cosacchi si inchina senz’armi ad implorare clemenza alla bella dama involontariamente offesa. Proprio come “bene celeste”, la bellezza della donna sembra in questa vicenda qualcosa che non richiede, al contrario dei beni terrestri, un possesso esclusivo per generare beatitudine. Anche chi non sposa Lina ne può beneficiare, se sa avvicinarvisi con “cor gentile” e nessuna condanna sociale o irrisione amicale piove sulla maggioranza degli uomini respinti.

Fu questo stato d’animo irripetibile che mi permise di farmi avanti per la prima volta con una fanciulla che vedevo e sentivo come “la più bella del mondo”. Credevo in precedenza che la furia del desiderio fosse nemica della calma e della freddezza necessarie alla parola efficace. Forse questo è vero nella prosa della vita. Nella poesia, invece, fu proprio il desiderio a farmi riuscire in quanto prima mi pareva impossibile: creare immagini e suoni con le parole (che è la vera definizione di sonetto). In precedenza, avevo potuto soltanto o, goffamente, mettere assieme in metrica per scherzo versi quasi totalmente copiati dalla letteratura appresa (come nella involontariamente quasi comica lettera ad Eva) senza alcuna descrizione dei miei stati d’animo o, con sentimento, scrivere parole libere come in prosa con qualche attenzione al ritmo, ma nessun rispetto della metrica. Ora, per la prima volta, ero riuscito a mettere insieme le due cose ed a sentirmi, come in seguito mi dirà una cara amica, “un maestro”.

Scritto il sonetto (di cui, come prima realizzazione, ero piuttosto soddisfatto), dovevo però trovare il modo pratico di consegnarlo. Questa si rivelò la parte più difficile, in quanto la mia bella non si vedeva quasi mai di giorno e certo difficilmente avrei potuto sgattaiolare fra i camerieri durante la cena e porle una busta col sonetto sul piatto al posto delle portate. Ma perché, al contrario di tutti gli altri villeggianti, non era mai né in piscina, né in spiaggia, né al bar? Il fatto che la vedessi parlare sempre e solo sottovoce con la madre dava al suo mistero qualcosa di inquietante. Ancora una volta, “La Chimera” del Vate:

“Il mio grande segreto è sovrumano.”

Era lì per una missione segreta? Erano donne d’affari che non avevano tempo di divertirsi? Era la figlia di genitori separati che faceva la spola fra l’albergo del padre e quella della madre? Di certo c’era che quel segreto rendeva il mio desiderio impotente.

“Il tuo desire è contro me senz’armi.
Non giunge fino a me la tua preghiera.
Vincermi tu non potrai, né puoi stancarmi.
Io son la Sfinge e sono la Chimera.
O tu che sogni, qui ne le mie dita
la trama del tuo sogno è prigioniera.”

Non potevo davvero nemmeno rivolgerle quella supplica in versi che era il mio sonetto. E, fintantoché non fossi riuscito a consegnarlo, non mi sarei dato pace. Non stavo male come in altre situazioni, ma avevo una continua tensione come prima di un esame di una materia piacevole cui pure mi sentivo preparato. Eppure l’esaminatrice aveva il volto della Sfinge ed il mio sogno di bellezza e piacere dei sensi era davvero prigioniero di quelle dita che non avevo ancora neanche stringere in un normale saluto.

“O tu che soffri, io so la tua ferita.
Ma nulla più mi turba e più m’accora.
Io conosco le leggi de la Vita.

Io guardo in me. Le tènebre ch’esplora
il mio sguardo profondo, internamente,
m’attraggon più d’ogni più bella aurora.
Che è l’aurora? Che è mai l’ardente
spira de li astri, il mar blando e feroce?
Io guardo in me con le pupille intente.
Sola io contemplo, sola e senza voce,
un mar che non ha fondo e non ha lido.
O tu che soffri, il tuo soffrire è atroce;
ma non saprai giammai perché sorrido.”

Avrei dato tutto l’oro del mondo per vederla sorridere davanti a me e per me. Gli orgasmi possono essere simulati, l’ebbrezza dei sensi può essere concessa per secondi fini, come merce di scambio, a uomini che si possono anche disprezzare, persino l’affetto coniugale può essere finto in nome di interessi diversi da quello per l’uomo, ma il sorriso no. Il sorriso di una giovane donna è come la luce diffusa dell’aurora che, sorgendo a prescindere dagli umani affanni, finisce per illuminare di mille vari colori, dai più tenui ai più accesi, anche i più impensabili anfratti della terra. Non è la luce artificiale del sorriso di circostanza mirato. Tutte le “corone della terra”, tutti i successi conseguibili con l’affermazione sociale, persino tutte le conquiste di cui un seduttore può vantarsi non potranno “oscurare quel segno unico” che per me sarebbe stato il sorriso sincero ed inaspettato di Nina.

Per avere l’occasione di quel sorriso dovetti aspettare fino al giorno che si rivelò per lei della partenza. Difatti (come potei ricostruire in seguito), avendo già lasciato la camera entro l’ora stabilita nella mattina ed avendo l’aereo nel pomeriggio, madre e figlia erano finalmente in zona tavolini su piscina. Me la ricordo prendere il sole dietro la “piccola altura” che separava la piscina dalla macchia mediterranea che dava direttamente sulle rocce degradanti verso il mare. Non potevo vederla, ma potevo far lavorare gli occhi dell’immaginazione. La vedevo quindi con gli occhi dell’anima immobile e statuaria nel silenzio come una dea di marmo scolpita per essere adorata dai posteri per l’eternità: dovevo essere io a darle le parole.
Ecco che quindi vinsi ogni remora ed usai lo stratagemma di chiedere al cameriere di servizio di consegnare la mia busta alla “signorina con la madre che è passata prima”. “Sarà fatto”, mi rispose sicuro il ragazzo con l’aria di chi è avvezzo a tali scambi "galeotti". Poi, chissà perché, mi assentai per un’oretta tornando in camera da mia madre. Avevo forse paura della reazione.

Mi pareva di aver gettato il sasso in uno stagno che aveva l’intenzione ed il diritto di rimanere in quiete. Quindi nascosi la mano. Quella volta mi sbagliavo. Quando tornai in zona piscina per raccogliere i frutti, la ragazza, che si stava aggirando attivamente fra gli sdrai, mi venne incontro per prima. Non dovetti fare più nulla. Nemmeno pensare alle parole. Con un fare un poco preoccupato e un poco frenetico compì gli ultimi passi fra noi togliendosi gli occhiali da sole che mi avevano sempre, in tutte le giornate precedenti, impedito di scrutare il suo sguardo da sfinge. “Scusa, io ti devo ringraziare”. Già l’incipit mostrava la sua insindacabile nobiltà d’animo: è proprio degli spiriti nobili scusarsi di ogni eventuale mancanza di tatto, mentre è l’arroganza del plebeo a spingere ad urtare gli animi come erroneamente si crede faccia l’abusata figura “dell’aristocratico prepotente”. Parlava con voce quasi commossa, forse anche un po’ agitata come avevo sentito ai tempi del liceo da Francesca verso il suo idolo giovanile. “Andiamo dentro che parliamo con più calma?” mi fece capire con un gesto della mano prima che potessi dire altro. Evidentemente il sole le dava davvero fastidio e non era stato per “tirarsela” che schermava sempre il viso con gli occhiali scuri.

Al riparo, nella hall dell’albergo, dalla luce accecante del primo pomeriggio, potevo finalmente contemplare i suoi occhi ridenti. Erano sì neri e profondissimi come li avevo sempre visti di sfuggita e cantati nel sonetto, ma non erano quelli della sfinge. Paravano piuttosto, almeno in quel frangente, quelli di una fanciulla “cui si mostri per la prima volta un libro colorato”. L’immagine dannunziana che lessi, credo, nel “Fuoco” (ambientato in una Venezia dipinta dal poeta con i tre colori del suo tramonto e dei suoi quadri: l’azzurro, il porpora e l’oro) si confaceva a quello che le avevo evidentemente provocato. Non mi disse il perché non fosse quasi mai presente in hotel, ma volle raccontarmi la sua storia di studentessa. “Sono di Venezia, ma fatto il liceo classico a Trieste”. “Io ho fatto lo scientifico in provincia di Bologna e, come il Petrarca, avrò il rimpianto di non aver conosciuto il Greco”. “Anch’io ho appena finito di studiare a Bologna, ho fatto giurisprudenza. E adesso voglio specializzarmi per lavorare al tribunale minorile. Amo i bambini e voglio combattere chiunque faccia loro del male”. Forse era allora proprio l’amore per i bimbi, più che un’attrazione erotica, ad averla spinta ad accettare l’approccio di un ragazzo minore di lei in ogni senso fisico, anagrafico e psicologico. Aveva, infatti, quattro anni più di me. Io non avevo nulla da offrirle in termini di esperienza amatoria o di promozione sociale (tutto pareva infatti farmela supporre collocata anche socialmente molto al di sopra di me) e potevo solo farla “giocare” con le parole, le immagini, i diletti insomma di quell’eterno fanciullo che è il poeta.

Riportai quindi la conversazione in campo letterario, ed in particolare sul libro che avevo appena terminato di leggere: “tu che conosci anche i Greci puoi dunque dirmi se, nell’ambito delle vite parallele di Plutarco, fra Demostene e Cicerone, è preferibile il primo o il secondo?”. Felice di potermi parlare (pareva una bambina a cui la maestra avesse finalmente concesso di raccontare la tesina su cui si era preparata), si espresse in favore di Cicerone, adducendo sia la bravura retorica sia la capacità politica. “Mi consola saperlo da te, perché io potrò sempre e solo apprezzare il secondo e gli altri mi potranno dire: per forza preferisci Cicerone, non sai il Greco e non puoi leggere Demostene”.

“Io so il Greco”, mi risposte dimostrando, purtroppo, di aver capito male le mie parole, il cui “tu” era messo in bocca ad un ipotetico critico che parlasse di me, non certo a lei. Purtroppo, nel parlato non esistono le virgolette. Comunque non si offese di certo ed il fatto di aver frainteso testimoniava un turbamento d’animo che doveva compiacermi. Magari ora sarà un’austera giudice del Tribunale dei Minori, o un’affermata matrimonialista, oppure una ricca donna d’affari (è utile in molti affari essere avvocati). E la vita di molte persone dipenderà dal peso delle sue parole. Magari avrà anche tanti amanti, più esperti, capaci e affermati di me. Eppure, fra tutti, io potrò sempre dire che, anche se solo per un giorno o per un’ora, gli occhi, il sorriso e la mente di quella donna allora nel fiore della bellezza sono stati luminosi, grati e addirittura agitati “verso di” “a” e “per” me.

“Purtroppo io sono in partenza” doveva chiudersi così quell’idillo. “Tutti siamo in partenza” risposi io filosofeggiando, non tanto sul mio futuro termine delle vacanze balneari, ma pensando alla provvisorietà della condizione umana”. Mi diede per salutarmi un bacio sulla guancia che non dimenticherò mai per il profumo (misto a quello tipico del mare e delle piante mediterranee) e la morbidezza della sua pelle ambrata (davvero simile alla sabbia prima arsa dal sole appena baciata dall’onda fresca). Potei anche percepire la vicinanza con le due rotondità del petto, che, seppure non volgarmente esposte (“riluttanti al corpetto”, avrebbe detto D’Annunzio), credevo di sentire odorose come rose e fresche come pompelmi, apparendomi del tutto simili a quelle delle madonne veneziane nel teatro del Goldoni, delle dame in costume settecentesco dei film su Casanova o addirittura a quelle apertamente mostrate ne “La Venexiana”, ambientata un secolo e mezzo prima, per simboleggiare il ritorno alle gioie della vita dopo la peste.

Mi parve, per un attimo, che davvero potesse nascondere, nel nero profondo di quei grandi capelli davvero “medusei” (parevano usciti davvero da un ritratto veneziano!) che si arricciavano a pochi centimetri dalle mie labbra, quella ciocca fulva e misteriosa, come quella della principessa amata da D'Annunzio. Colei che fino alla sera prima mi passava soltanto innanzi, colei che ai miei occhi era “l’eccelsa” era ora, sia pur per quel breve momento, fra le mie braccia. Stavo, nel breve abbraccio di quell’addio, in qualche modo “brandendo” quella “spada senza elsa”. Ebbi il tempo di immaginare di riuscire a dirle:

Come puri fra le navate salgono i cori alla gloria celeste, così allo stesso modo, se ti vedessi in chiesa, farei salire a te rime ed inni intarsiati da lunghe suppliche amorose. Con voce sincera, come di preghiera sussurrerei che quando appari in questi luoghi all'ora del tramonto "par la terra illuminare il cielo". Con lo stesso sguardo incantato di chi suspiciens rimiri l'immagine santa da venerare guarderei come dal basso le tue chiome e sommesse pronunzierei le prime frasi. Ricercando le parole più dolci e soavi alle labbra, canterei le tue grazie parlandoti del mio desire. Con lo stesso palpito di chi richieda fervidamente una grazia o di chi sincero prometta una rinuncia ti chiederei un appuntamento, promettendoti poi di essere sempre il tuo cavaliere. Con l'ansia e il timore di chi attende il perdono aspetterei la tua risposta, infine, con la purezza d'intenti del fanciullo introdotto per la prima volta al rito della comunione andrei verso di te come verso l'altare. "Introibo ad altare dei" per confessarti sulla tua bocca che a me tu sola piaci. E a chi mi dicesse blasfemo risponderei con le parole stesse di Sant'Agostino: "ama e poi fa ciò che vuoi". Come a compieta ti si addicono i versi di Primo Vere:
"Bruna madonna piena di splendore
dice la gente che voi siete un fiore
di gentile pietà
Dice che voi guarite ogni dolore,
che versate ne' calici del cuore onde di voluttà;
Che ad un sorriso dei vostri occhi muore
qual caligine notturna a 'l novo albore
ogni triste ansietà... "

"Ecco un frate poeta e peccatore
che va pe 'l mondo a la cerca dell'amore
fate la carità!..."

Fra le tue labbra vedo i segreti della bocca che perde le anime e la purezza di quella che dice "Ave", Quale che sia l'origine del fascino arcano che da te s'emana e che m'accieca, io in te ravviso la mia fonte di beatitudo. Sono pronto a seguirti per mano nell'ascesa dei cieli come a sprofondare a te avvinto negli abissi carnali dell'inferno fra onde di piaceri e vortici di voluttà. Verso quale destino saremo mossi tu sola lo sai.

E’ impressionante come certi rari momenti della vita siano in grado, per così dire, di “concentrare” il tempo al punto da trasmetterci, in pochi secondi, il messaggio di un discorso lungo diversi minuti. Fu allora che capii come la donna sia “come un verso” e come quindi avrei avuto bisogno di molta “prosa” per parlarne. Eppure non dissi nulla più che “ciao” o “buon viaggio” (ma non “addio”). Non per nulla quelle era l’anno di “le parole che non ti ho detto”.
Non lo sapevo, ma quell’addio avrebbe rappresentato per sempre uno spartiacque. Nina sarebbe rimasta l’ultima bellezza ad essere da me conosciuta durante le vacanze balneari assieme a mia madre. E sarebbe stata la prima di una lunga serie di donne, più o meno conosciute, più o meno reali, a cui avrei poi dedicato sonetti. Pensandoci, adesso mette quasi i brividi: era l’ultima estate del Novecento.

Abbandonati al relax e al piacere, scopri i centri massaggi della tua citta'!
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QUARTO GRADO: DA MARSILIO FICINO A FRIEDRICH NIETZSCHE (10/18)

Ovvero: "LE DONNE, I CAVALLIER, L’ARME, GLI AMORI, LE CORTESIE, l’AUDACI IMPRESE"
Parte 10 di 18 : “Le donne: Ilaria”

Pare davvero passato un secolo da quando avevo solo la mia naturale timidezza come ostacolo all’approcciare le donne, al porgere loro sonetti, all’esprimere con la parola, lo sguardo, il gesto, il mio naturale desiderio verso la loro bellezza (o, comunque, quelle parvenze mi apparivano come tali). Mi pare, oggi, davvero un altro secolo quello in cui la reazione dell’interessata, come nel caso di Nina, era (a prescindere dal fatto di voler poi intrattenere un rapporto, anche solo verbale o epistolare, più o meno lungo) improntata alla gratitudine ed alla gentilezza. Pare soprattutto incredibile, oggi, che meno di venti anni fa la reazione “sociale” all’approccio di una sconosciuta fosse ancora estremamente positiva: gli altri villeggianti avevano osservato con lo sguardo sospeso tutta la scena nel suo aspetto romanesco. Impegnati fino ad un attimo prima nella lettura dei loro libri e delle loro riviste, avevano potuto guardare svolgersi la vicenda come se, per incanto, fosse uscita dalla carta per diventare immaginazione vivente: la mia consegna della busta al cameriere; il discreto (ma non nascosto) modo in cui questi, con la sua bella livrea colorata, l’aveva passata alla giovane che, con la madre, si stava preparando alla partenza; il concitato aggirarsi della bella veneziana in cerca di me; il timore che per un disguido del caso, come in certi films dal finale amaro, non ci incontrassimo; il lieto fine dell’incontro, delle parole dette da Nina che essi non potevano sentire ma su cui potevano fantasticare; il nostro appartarci all’interno della hall, che dai loro sdrai potevano intravvedere attraverso le vetrate, ma di cui nulla potevano sapere. Poteva essere, per loro, la scena senza parole di un grande film, nella quale (come, ad esempio nella scena della stazione di “C’era una volta il West” con Claudia Cardinale che non trova nessuno ad attenderla e cerca una carrozza) si vedono, ma non si sentono, i personaggi parlare. Qualcuno, la sera dopo cena, venne addirittura a congratularsi stringendomi la mano per il mio “ardire” (evidentemente non ero l’unico a vedere Nina, in quel luogo, come “la donna più bella del mondo”). Altri commentavano con mia madre: “signora, che meraviglia! Addirittura una poesia! Non come quelli che stanno tutta la sera a fissare una ragazza senza fare nulla…”.

Allora, di tutto questo, nulla mi interessava. Ero preso soltanto dall’ebbrezza per il sorriso sincero che Nina mi aveva regalato (prima che ci fosse Miss Italia, qualcuno aveva pensato a “mille lire per un sorriso”) e dalla possibilità (che mi faceva già trepidare) di proseguire la relazione per via epistolare; forse anche della (remota ma non a priori impossibile) di re-incontrarla per caso in zona universitaria, fra i portici e le mura medievali della città dai tetti rossi.
Ci ripenso però oggi, con più ira che nostalgia, oggi che siamo in un altro secolo. Oggi è il secolo dei Macron (infimo individuo servo della finanza internazionale e del femminismo demagogico e pseudoculturale), che creano dal nulla leggi per punire (con 90 euro: pochi economicamente, ma molti psicologicamente) chi approccia le donne per strada, con la scusa di salvare le francesi da volgarità ed “approcci non graditi” che “limitano la loro libertà”. Distingueranno, pure, spero, le discendenti delle donne di Stendhal, fra corteggiamento e molestia, fra approccio e importuno, ma se il discernimento è lasciato al giudizio arbitrario ed ex-post della presunta vittima, nessun uomo ragionevole farà mai neppure un tentativo. Non si può sapere in anticipo se un complimento, un aforisma, un atteggiamento fisico o psicologico, un invito, un verso, oppure soltanto uno sguardo sarà gradito o meno, se e come verrà interpretato come lusinghevole forma di interesse oppure verrà deprecata come volgarità, insulto a sfondo sessuale, disturbo della propria quotidianità. Lo stesso comportamento, lo stesso irrompere nel cammino altrui può risultare piacevole digressione dalla noia quotidiana (a prescindere dal fatto di voler o meno proseguire il flirt) ovvero fastidiosa scocciatura, a seconda della persona che più o meno esplicitamente con esso si propone in senso erotico-sentimentale. E chi è costretto ancora da (questi sì) stereotipi di genere a farsi avanti per primo non può, ahilui, sapere a priori se possieda o meno quelle specifiche qualità d’aspetto, d’intelletto, di sentimento o di posizione sociale richieste dalla controparte per essere minimamente preso in considerazione come qualcuno diverso da “uno fra i tanti”, da un “banale scocciatore”. Anche il mio sonetto, con la sua metrica rigorosa, avrebbe potuto essere considerato molesto da una sostenitrice del verso sciolto e del paroliberismo! E questo senza contare che, non esistendo altra “prova” dal soggettivo sentire riportato dalle parole della donna, anche chi non ha fatto o detto assolutamente nulla di “sessualmente” offensivo, o anche solo vagamente invitante ad un principio di seduzione, possa essere accusato e multato a capriccio.[ NOTA 1]

Oggi siamo, insomma, nel secolo che si accanisce su chi, per ben noti e comprensibili (almeno a chi sia disposto a comprenderli mettendo da parte i paraocchi ideologico femministi-progressisti) è più debole in quel gioco pericoloso che è l’ars amandi nella sua prima fase, cioè su noi giovani (nel mio caso ancora per pochi mesi) maschi. Già che dobbiamo (nostro malgrado) sempre fare la prima mossa senza poter sapere a priori se il tentativo sarà gradito (e rischiando di essere trattati con malcelata sufficienza o addirittura con aperto disprezzo, quando non con una dose di violenza fisica e psicologica spettante piuttosto a veri e propri assalitori, se con immediatezza e sincerità, attraverso la parola, lo sguardo, il gesto, esprimiamo il disio spontaneo -o comunque l’apprezzamento subitaneo – per le lunghe chiome, il chiaro viso, la figura slanciata, le membra marmoree, la pelle liscia ed indorata come sabbia baciata dall’onda e dal sole, le braccia scolpite, le gambe lunghissime e modellate, le rotondità del petto, il ventre piatto e levigato e l’altre grazie che, come direbbe Dante, “è bello tacere”, o comunque di essere chiamati “molesti” se, dopo magari essere con fatica e buona volontà riusciti, nella speranza di compiacerle e di stabilire un contatto sia pur solo momentaneo ed emotivo con loro, già che dobbiamo farci avanti e continuare con complimenti formulati e inviti meditati, senza poterci arrendere ai primi dinieghi (pena l’eterno disprezzo delle donne per i “pavidi nel corteggiamento”), già che dobbiamo (per pretesa loro) insistere, resistere ai dinieghi (da esse una buona metà delle volte appositamente posti come prova, dal significato del tutto opposto ad un invito ad andarsene), inventare nuovi modi, nuove proposte, offrire e soffrire sempre di più (per permetter loro di verificare il nostro interesse, accrescere il nostro disio, valutare con calma l’eventuale presenza in noi delle doti da voi volute, pregustarle se presenti o irriderle se assenti, indugiare in tale condizione di preminenza psicosessuale), già che dobbiamo (per disparità naturali) sottostare alla condizione psicologicamente critica di chi è costretto a fare qualcosa (o comunque ad essere “sotto esame”) innanzi a chi invece è già mirata, disiate e accettata per quello che è (bella, quando non vi è la bellezza supplisce l’illusione del desio) e può già rilassarsi e scegliere se divertirsi con noi o su di noi, dando con ciò la possibilità alla dama di turno di usarci (per capriccio, moda, vanità, interesse economico-sentimentale, gratuito sfoggio di preminenza erotica, patologico bisogno di autostima o sadico diletto) come freddi specchi su cui testare l’avvenenza, pezzi di legno innanzi a cui permettersi di tutto, come giullari del cui disio irridere, come attori condannati alla parte dei dongiovanni per compiacere la vanagloria femminile, come cavalier serventi costretti a dare tutto in pensieri, parole ed opere per la sola speranza, come mendicanti d’amore alla corte dei miracoli indotti, nell’attesa della sportula a guardare e implorare dal basso verso l’alto colei dal cui gesto dipendono il paradiso e l’inferno, o addirittura come pupazzi da scegliere fra tanti, sollevare per gioco nell’illusione (fingendo apprezzamento) e gettare poi con il massimo del disprezzo, dell’umiliazione e del dolore, punching-ball insomma per gli allenamenti delle stronze, ci viene pure detto che se anche in buona fede sbagliamo l’approccio (o la non immediata interpretazione delle intenzioni femminee nel corteggiamento) dobbiamo essere multati o trattati da delinquenti?

Oggi siamo nel secolo del videogioco “Hey Baby”, dove “le donne si vendicano delle molestie giocando”, dove per “molestatore” non si intende un bruto che metta le mani addosso o che mostri intenzioni poco gentili, ma chiunque osi rivolgere la parola a qualunque forma femminile si trovi a “gir per via” (d’altronde, l’origine extraeuropea dell’inventrice canadese del “gioco” chiarisce come l’impossibilità di richiamarsi allo Stilnovo per far sprofondare iniziative come questa nelle vergogna sia solo l’ultima deleteria conseguenza della “società multietnica”, priva cioè di un substrato culturale, valoriale e psicologico comune a far da diga allo straripare della propaganda e della demagogia legislativa). Fra i motivi per cui la versione femminista di Lara Croft acquisisce il pretesto per usare tutte le armi del mondo vi sono, difatti, non solo volgarità esplicite da scaricatore di porto (comunque in sé segno di “apprezzamento”, anche se limitato alla “corporeità spiccia”, anche se proveniente di un animo rozzo suscitante disgusto e non interesse), ma addirittura frasi educate come “posso aiutarla?” usate per mettere a frutto l’occasione dell’incontro fortuito, dell’attrazione casuale, ai fini di una conoscenza. Fu, per inciso, l’approccio che mio padre usò con mia madre quando ella, smarrita turista polacca venuta in vacanza in Italia per sfuggire dal comunismo, cercava invano la strada, girandosi su se stessa e con ciò mostrando evidentemente la sua figura elegante e quelle parti che, anche senza citare Dante, devo ovviamente tacere perché si tratta pur sempre di mia madre. Se lo scopo prefissato di “porre fine agli abbordaggi in strada” fosse stato raggiunto dal femminismo mezzo secolo prima, io non sarei mai nato (questa è la misura di quanto il neofemminismo sia antivitale e anche di quanto io sia per esso un nemico mortale). Vogliono, le donne che “giocano” (non tanto al pc, ma nella realtà, con lo sguardo e le parole al posto dei testi e dei fucili) con questo tipo di finalità rendere potenzialmente reato anche il primo complimento? Perché "non richiesto"? Ma se si deve aspettare che la controparte chieda un apprezzamento si passa la vita muti. Un apprezzamento può avere effetto se è spontaneo (oltre che ovviamente non offensivo). E se si deve pensare prima se può essere considerato molesto o no, si finisce per far svanire il momento dell'ispirazione. E allora non lamentatevi che gli uomini non vogliano più corteggiare (ogni corteggiamento nasce da un complimento: se lanciare un complimento è potenzialmente molestia, la soluzione razionale per l’uomo è rivolgersi esclusivamente alle sacerdotesse di Venere Prostituta).

Si dirà che sto prendendo troppo sul serio un “semplice” videogioco (che si conclude facendo sorgere una lapide laddove si trovava lo sfortunato aspirante corteggiatore fai da te, con su scritta a monito del posteri la frase che ha osato rivolgere alla protagonista), ma nel secolo del digitale tanto ciò con cui si gioca al pc quanto ciò di cui si parla sui social (come dimostra l’ondata del “me too”) ha la stessa valenza sociale e soprattutto psicologica che il mondo “non virtuale” aveva nel trascorso secolo “analogico”. Siamo nel secolo in cui, magari nessuno mi multerà per un verso declamato ad una donzella e nessuna donzella mi farà realmente del male per un complimento, ma in cui comunque tutto questo ha potuto essere diffusamente pensato, culturalmente avallato e socialmente accettato [NOTA 2]. Siamo, insomma, nel secolo del “me too” permanente. [NOTA 3] Anche senza denunce reali e sventagliate di mitra virtuali, quanto ferisce profondamente e fa perdere per il futuro la capacità di sorridere alla vita e al sesso o comunque di esprimere con spontaneità la gioia del (principio di) disio amoroso e di approcciarsi alle ragazze senza vedervi sorgente di perfidia, inganno o tirannia è il fatto stesso di sentire contro di sé (proprio da parte di chi si sta immediatamente, irresistibilmente e profondamente apprezzando, ingenuamente e soavemente mirando, probabilmente amorosamente disiando), disprezzo, rabbia, addirittura odio proprio mentre si apprezza sinceramente (con la parola, lo sguardo, o il gesto), ci si abbandona ingenuamente al disio (senza alcuna intenzione ostile o violenta) e si è mossi almeno da un principio di attrazione amorosa (la quale, almeno per l'uomo, sorge sempre dalla vista, come direbbe Cavalcanti, il più nobile dei sensi: "chi è questa che vien c'ognom la mira, che fa tremar di chiaritate l'aure, e mena seco amor sì che parlare null'omo pote ma ciascun sospira"). E quel disprezzo, quella rabbia e quell'odio non son virtuali, sono il motore di queste leggi e del movimento “me too” che le ha ispirate”. [NOTA 4]

Insomma, se vent’anni fa l’immagine foscoliana della derelitta cagna che raspa fra le ossa del cimitero in cui è sepolto il Parini mi richiamava agli alti temi dei “Sepolcri”, oggi in tale scena vedo soprattutto le sostenitrici del “me too” (nel caso di Asia Argento, poi, l’essere figlia di un regista dell’orrore, ed un orrore estetico-umano ella stessa, la rende perfetta per un contesto lugubre e tetro come quello del cimitero) che rovinano con le loro zampacce le pellicole dei maestri del cinema (un tempo proiettate dalla mia immaginazione ogni volta in cui riuscivo a tentare un approccio, oggi sbobinate e gettate a terra dal “progresso culturale femminista”).
Ma fatemi uscire per un attimo dal cimitero dell’attualità. Lasciatemi ancora rimanere, almeno in queste pagine, nel Novecento (o forse anche nell’Ottocento, per come io concepivo la letteratura e le donne a vent’anni) ancora per un po’.

Appena Nina (così mi disse di chiamarsi, con quella sola prima lettera a differenziarla dalla protagonista del film la “donna più bella del mondo” dedicato a Lina Cavalieri) se ne fu andata, mi resi conto dell’errore
Avevo dimenticato persino di chiederle l’indirizzo! A ciò rimediò la sempre presente Carla, che, evidentemente, aveva capito tutto ed agito nell’ombra proprio come Liu. La sera stessa mi annotai l’indirizzo di Nina, sicuro che avrei iniziato una relazione simile a quella fra Andrea Sperelli ed Elena Muti nel Piacere. La differenza di anni ed anche la tipologia di bellezza femminile erano simili. Eppure fui proprio io a dimenticarmi poi di prendere con me il foglio con l’indirizzo al momento della partenza per il mese di vacanza in montagna. Arrivò quindi settembre, finalmente le scrissi appena tornato, ma non ebbi risposta. Forse il secondo sonetto era riuscito peggio del primo (quindi non lo riporto al lettore). Un giorno vidi nella cassetta delle lettere una cartolina scritta a mano che finiva con “un momento”. Pensai ad una sua risposta letteraria. Invece era la pubblicità di un’associazione basata sulla “carità cristiana”. “Ma va’ in mona!” pensai in perfetto veneziano.

La storia con Nina finì lì, eppure, quando vidi “la Venexiana” con Laura Antonelli e Monica Guerritore (nonché musiche di Ennio Morricone) nei panni di due madonne veneziane che, approfittando del loro status di giovane vedova e di neo-sposa con marito lontano e impegnato, si litigano i favori di un giovane e misterioso straniero (Jules) non potei non pensare a lei. Con l’aiuto di una coppia di servi (è una delle poche commedie dove i signori trombano mentre servi fanno cilecca), Jules, nell’unica notte a sua disposizione, si reca prima dalla vedova (interpretata da una come sempre bellissima Antonelli) e poi, ormai a giorno fatto, dalla neosposa (travestitasi da uomo per poter uscire non riconosciuta e non perdere “l’ultima occasione”).
Di questo film mi colpirono due cose. Una, in relazione a Nina e l’altra alla goliardia che avrei poi vissuto in ambito universitario. La prima è l’attrazione quasi infantile che queste dame apparentemente irraggiungibili subiscono dal giovane e bel forestiero “di passaggio” (ovviamente io avevo sempre immaginato nascondersi in Nina qualcosa di simile nei miei confronti). La seconda sono gli spettacoli osceni di marionette che pure non rovinano ma anzi arricchiscono l’atmosfera ovattata di una Venezia notturna. “Ne li tempi antichi, i cassi eran reputà sapienti”. Il protagonista si ferma ad assistere allo spettacolo fra una fatica amorosa e l’altra. E lo spettatore può godersi per un attimo una serata licenziosa in epoca barocca.
“Un bel giorno, i cassi grosi, d’acordo con le pote bele, misero sul trono un re: Cazzone I” (evidente qui la fierezza della Repubblica Serenissima, ben contenta anche nello scherzo di avere un doge scelto ed eletto per le proprie capacità e non un re dinastico che può essere anche un perfetto imbecille!). “Ma loro non erano d’accordo” “loro chi?” “Ma come chi, i cojoni!”. Risentita adesso, questa storiella dice più di mille dissertazioni sui motivi per cui moralismo e femminismo (con il suo contorno di servi c…) sorgono a disturbare la vita dei gaudenti e degli amanti della bellezza in genere. Dopo una serie di mirabolanti avventura fra il cavalleresco e l’osceno, si arrivava al gran finale. “Allora re Cazzone, per punirli, li mise tutti dentro certi sacchetti, dove ancora oggi stan!”.

Forse il “c….” di questa storia sono stato io, ma allora non me ne rendevo conto più di tanto. Mi concentravo sul fatto che avessi capito il “trucco”: adoperare le armi della cultura e delle parole per incantare le fanciulle. Non avevo mai pensato fosse possibile riutilizzare in tal modo quello che ero stato costretto ad apprendere durante le ore di Italiano e Latino. L’avevo imparato, al tempo, al solo fine immediato di ottenere il massimo dei voti anche in materie per cui mi sentivo meno portato rispetto a quelle scientifiche. Ed ora, che avrei dovuto “dismettere” tutto essendo passato agli studi universitari (per i quali la sola preparazione scientifica era richiesta), stavo trovando il modo di riutilizzarlo. Il mio modello di riferimento divenne quindi Vittorio Sgarbi, a cui, probabilmente in modo improvvido e prematuro, l’insegnante di disegno e storia dell’Arte mi accostava spesso ai tempi del liceo per la mia capacità (a suo dire) di porre in collegamento i quadri e le sculture con la grande storia, la grande letteratura, la grande poesia (che nel frattempo apprendevo dalle rispettive materie di studio).

Nei primi giorni del nuovo anno scolastico, quindi, approfittai della scusa della “nostalgia” per recarmi nel mio ex-liceo a trovare i miei amati docenti. “Se vuoi pescare, devi recarti dove sono soliti radunarsi molti pesci”, consiglia all’apprendista seduttore Ovidio nell’Ars Amandi. Quello che nei suoi tempi erano i portici di Ottavia erano, per me, i corridoi del mio vecchio liceo. Lì, infatti, albergavano numerose fanciulle, popolando classi assai più fortunate della mia in termini di bellezza ed abbondanza di presenze femminili. Scelsi, ovviamente, un giorno in cui sapevo che la mia “ammiratrice”, professoressa Irene, aveva lezione in una delle ultime classi (quarta o quinta). Era stata, ella, in gioventù un’intima amica della mia dottoressa, per cui ebbi a suo tempo con lei anche un’introduzione adeguata. Di origine marchigiana, si era trasferita nel paese in seguito al matrimonio. Dopo il divorzio dal marito, finito oltretutto in carcere ai tempi di tangentopoli, viveva con la figlia in una bella villa dal lato della prima campagna che guarda verso gli Appennini. Inizialmente severa e molto rigida all’apparenza (mi ricordo il dettato di un dizionario di termini artistici in cui, alla voce classico, ci faceva iniziare con “è il miglior stile di vita…”), divenne via via più amichevole fino al punto da lasciarci (nell’ultimo anno) le sue ore per svolgere i compiti delle altre materie. I tempi in cui piangevo perché mi aveva dato un sei-meno-meno a causa di un disegno tecnico non preciso erano lontani. Vicini invece erano quelli in cui, assieme ad un paio di miei compagni, discutevamo con lei indifferentemente di letteratura e di arte, mentre il resto della classe preferiva chiacchierare separatamente di altri argomenti. Uno sguardo superficiale potrebbe bollare questo modi di proporsi in classe come “lassismo”, ma per me fu semplicemente “aristocratico”: i migliori avevano la possibilità di scambiarsi pareri conoscenze (“chi è quel pittore che, da vecchio, ha dipinto suo padre giovane tanto da farlo apparire piuttosto suo figlio, di cui parlava Sgarbi ieri?”), mentre gli altri potevano fare i loro comodi senza disturbare. Non dovrebbe essere sempre questo la “cultura”, piuttosto che un obbligo uguale per tutti che uniformava al minimo e oggi neanche a quello?

Comunque, da “visitatore”, venni accolto così bene che fui invitato (in via ovviamente informale e “abusiva”) a intrattenere i ragazzi sugli argomenti del programma. Feci quindi la prima “lezione” sul barocco (avevo d’altronde madonna Nina in mente!), partendo dall’etimo della parola: la “perla rara” (“barueco”, in spagnolo) dalla forma irregolare che iniziò presto ad indicare anche un modo di ragionare pieno di sillogismi e arguzie.
Feci quindi subito l’esempio del “bagnar co’ soli e rasciugar co’ fiumi” che avevo ovviamente ben in mente per averci costruito sopra il sonetto per Nina, ma passai tosto a quello che gli alunni stavano certamente studiando in letteratura: lessi quindi la prima strofa de“l’elogio della Rosa” di Giambattista Marino:

Rosa, riso d'Amor, del Ciel fattura,
rosa del sangue mio fatta vermiglia,
pregio del mondo e fregio di natura,
della Terra e del Sol vergine figlia,
d'ogni ninfa e pastor delizia e cura,
onor dell'odorifera famiglia;
tu tien d'ogni beltà le palme prime,
sopra il vulgo de' fior donna sublime.

Anche se non si rivelano arguzie a livello della “freddura” di cui sopra, il continuo accostamento, quasi ad ogni verso, fra le bellezze, i colori, le forme, gli odori tipici dell’ambiente naturale (di cui la rosa è regina: terra e sole, ninfe e pastori, le profumate famiglie di fiori e i rossi petali della rosa stessa), da un lato, e attributi propriamente umani, come il riso, il sangue, l’onore, i concetti di popolo (“vulgo”) e signoria (“donna” dal latino “domina”, ovvero signora), addirittura le sensazioni di piacere (“delizia”) e preoccupazione (“cura”), l’idea quasi di “concorso di bellezza” (tenere “d’ogni beltà le palme prime” significherebbe, oggi, arrivare prima a Miss Italia), dall’altro, pare quasi aspirare a “compenetrazioni” e “metamorfosi”, fra mondo umano e mondo vegetale, tutt’altro che “naturali”.

Anche il modo “musicale” di tesser l’elogio della rosa, con allitterazioni “rosa, riso”, rime interne “pregio, fregio”, ritmo “allegro”, dà l’idea di un musicista che inventi molti orpelli per gravare sulle partiture. Siamo lontani dalla “naturalità” armoniosa dell’ottava ariostesca, così come dalla musicalità delicata di quella del Poliziano. Qui la sovrabbondanza di immagini (viene citata addirittura quella dantesca della madonna con il “del Ciel fattura”) è continua e per il gusto rinascimentale sarebbe stata pura e semplice “affettazione”, se mi permettete di citare il Cortigiano del Castiglione.
“Una perla irregolare è qualcosa sì naturale, ma anche di insolito. Possiamo quindi dedurre che, se l’obiettivo del periodo umanistico-rinascimentale era stato quello di ricondurre, in tutte le arti, l’uomo alla natura dopo i secoli di simbolismo, e per certi versi di astrattismo, medievale, il fine del barocco fu quello non di negare, ma, in un certo qual modo di proseguire la natura”.
Avevo iniziato a parlare
“Questa prosecuzione della natura evidenziò subito tutti i tratti, se non del mostruoso, almeno dell’artificioso o comunque dell’estremo. Prendiamo la scena tratta da Ovidio che il Bernini ha scolpito nella “Metamorfosi di Daphne”. Tanto le fanciulle che rappresentavano le ninfe quanto le piante erano ovviamente parte della natura, ma la subitanea trasformazione dell’una nell’altra costituisce proprio quella forzatura nel collegamento fra due entità agli estremi (l’umano ed il vegetale) che dà il brivido, se non della mostruosità, almeno di un divino visto dal suo lato terribile.”

Potevo mettere a frutto un ricordo liceale su cui mi ero preparato

*“La metamorfosi della ninfa in pianta di alloro mentre cerca di sfuggire ad Apollo che la voleva per sé rende dapprima la sensazione della rigidità, ma poi lascia trasparire il tentativo di combattere e di fuggire al destino più forte di lei. Lo scultore ha registrato il primo momento di rigidezza, quando i piedi vengono fissati al terreno perché diventano radici, ma evidenzia il senso di movimento dato dalla tensione del bacino, mentre le braccia iniziano a diventare rami con le foglie. Bernini riesce a cogliere l’azione nella sua durata. Lo scultore deve fermare il tempo e servirsi di altre abilità per rendere il tempo e il moto, rispetto a quelle che adotterebbero dei poeti come Ovidio o D’Annunzio.
Secondo la filosofia Barocca il tempo è il modo della vita (non è un caso se nel suo recente libro Umberto Eco), l’essere è il movimento. Bernini applica alla statua il tempo, dà al marmo il potere della parola, usando fasci di luce, creando effetti che rendono l’intera scena dell’inseguimento, dell’arresto, del dolore e della sofferenza di Daphne. Il Bernini è un virtuoso della materia: affronta il tema della trasformazione di una materia in un’altra, della carne in movimento in vegetazione statica; argomento stimolante per il virtuosismo materico. Facciamo subito una comparazione con quanto avete studiato l’anno scorso: le opere di Michelangelo. La relazione tra Michelangelo e Bernini è di opposizione più o meno netta, anche se Bernini era figlio di un artista seguace del michelangiolismo. Michelangelo blocca il Davide in un momento potenziale, mentre Bernini evidenzia l’atto, crea la dimensione temporale del movimento. Nelle descrizioni di Callistrato l’opera scultorea viene completamente risolta con la parola. La parola si svolge nel tempo e il lettore è costretto a tenere in mente la prima parola fin quando non ascolta l’ultima, deve quindi tenere in mente tutto il discorso. Anche guardando la statua del Bernini bisogna tenere in mente varie cose, proprio per la sua affinità con ciò che potrebbe essere un discorso. Nell’opera non c’è pentimento per amare tipico di altre epoche, viene concessa una certa libertà di amare anche svincolata dal senso familiare. Bernini prestava particolare attenzione agli effetti cromatici conferiti alla statua dalla luce dell’ambiente; poichè desiderava che l’osservatore si trovasse totalmente immerso, sia mentalmente, sia fisicamente, nella scena, in un atmosfera tale da permettergli di cogliere tutti quegli effetti di riflessi e di colori frutto di un attento studio. La visione barocca , rispetto al Caravaggio, rappresenta un totale riversamento, dei valori, v’è ottimismo e trionfalismo; per Bernini non c’è più la tensione, che viene sciolta nel movimento. Il trionfalismo è segno della restaurazione , segno di affermazione della chiesa cattolica su quella protestante. Il dinamismo e la sovrabbondanza del barocco interpreta quindi il momento trionfale. La chiesa non mostra più le terribili minacce (come il giudizio universale di Michelangelo), non mostra più l’inferno, ma il paradiso, la gioia virtuosa, ciò che realmente è l’ “estasi berniniana”.
Bernini suggerisce approcci e suggerimenti nuovi per gli scultori, e, basandosi anche sulla musica alla quale rivolgeva anche un particolare interesse, riesce a far apparire nelle sue opere sensazioni di potenza e vigore. Anche l’architettura segue in pieno questo intento politico: nel periodo barocco l’attenzione si sposta dalla singola statua, dal singolo palazzo, all’insieme, alla scena, all’effetto generato sullo spettatore, che doveva avere l’idea di trovarsi al centro di uno scenario in cui quella Grande Madre della Chiesa Cattolica abbracciava quasi fisicamente i suoi fedeli rendendoli partecipi della gloria celeste. A questo servirono i complessi di piazze e fontane che mai come in quel periodo iniziarono a sorgere in Roma e che così bene sono descritti dalle pagine del Piacere di D’Annunzio dedicate alle passeggiate di Andrea Sperelli nei pressi del suo buen retiro a Piazza di Spagna. L’attenzione per le fontane e i giochi d’acqua sarà poi una costante nella gestione della propria immagine da parte del potere anche nei secoli successivi, basti pensare a Versailles ed alle altre regge coeve in tutta Europa, da Potsdam a Caserta, da Schonbrunn a Vienna alla Venaria Reale in Piemonte”.

Il mio buon umore, il riferimento a Miss Italia, il florilegio di immagini luminose e trionfanti, il richiamo esplicito al “Piacere” ed alle sue trame erotiche e quello implicito al libertinaggio nel XVII secolo e, soprattutto, la scelta di iniziare con un omaggio floreale e di proseguire con una scena di “rapimento della bella” da parte di un dio greco, erano tutti dovuti a colei che, fin dal momento dell’appello, avevo sentito chiamarsi Ilaria.
Vestiva non diversamente dalle altre coetanee, in jeans e maglietta, ma la sua figura slanciata spiccava decisamente. Anche attraverso i jeans chiari e stretti si poteva comunque cogliere la statuaria bellezza di due gambe lunghissime, così come le rotondità del petto, pur discrete come si conviene ad una “miss”, erano ben immaginabili sotto la leggera maglietta (era appena l’inizio dell’autunno). Era bionda con i capelli lisci e due occhi marroni che parevano fissarmi profondamente. Per la verità, mentre i maschi erano distratti da attività collaterali, quasi tutte le femmine mi stavano seguendo. Non so se inizialmente per la novità “sociale” di un ragazzo più grande in classe o per effettivo interesse verso la materia, ma posso dire di aver avuto un pubblico femminile piuttosto attento in quell’occasione.

Decisi quindi di ritornare qualche tempo dopo, quando era prevista l’introduzione al Roccocò. Questa volta tutta la classe fu attenta dall’inizio, forse perché, anziché iniziale con il Marino, spiegai semplicemente che “se il barocco aveva a volte esagerato nel florilegio di immagini e nell’artificio continuo per esasperata volontà di proseguire la natura in modo insolito ed estremo, il roccocò può essere visto come un movimento di riflusso, che pone al centro non più i concetti di arguzia e di ricerca della perla rara, bensì quelli di leggerezza ed eleganza.“
Feci ripetere di quando in quando le parole chiave del discorso agli alunni per avere la loro partecipazione. Come corrispettivo letterario, citai l’Arcadia, ovvero l’accademia nella quale ogni adepto doveva scegliere il nome di un pastore, dare alle proprie amate quello di una ninfa e seguire in poesia il modello dell’omonimo poema del Sannazzaro, dove l’umanità poteva tornare allo stato di felicità edenica tramite la riconciliazione con la vita naturale di campi contrapposto a quella “artificiale” delle città. L’Accademia stessa, difatti, era nata con il preciso intento teorico di contrapporsi al “malgusto” barocco (“romper guerra alle gonfiezze del secolo, e ritornare la poesia italiana per mezzo della pastorale alle pure e belle sue forme”). Per dare un’idea della contrapposizione con il periodo precedente, lessi qualche verso da “Solitario bosco ombroso” di Paolo Rolli (che sapevo perfettamente stavano studiando in Italiano, non essendo cambiato il docente):

“Solitario bosco ombroso,
a te viene afflitto cor,
per trovar qualche riposo
fra i silenzi in questo orror.”

Lodai la nobile semplicità di questi versi, stilizzati proprio come un elegante soprammobile settecentesco, che, abbandonando l’artificiosità e l’affettazione, riprendevano il tema tipicamente petrarchesco della natura solitaria in cui il poeta cerca conforto dai tormenti interiori e dalle pene amatorie. Come da consiglio ovidiano, stavo insomma usando il racconto di infelici amori altrui per propiziare un felice inizio ad un’avventura amorosa mia.
A quel punto, anziché citare anche l’altra corrente dell’Arcadia, quella “classicheggiante” massimamente rappresentata da Pietro Metastasio (vero e proprio dominatore culturale del Settecento, poeta di corte a Vienna, autore di innumerevoli libretti d’opera e soprattutto di un intero mondo poetico, trasversale alle arti e travalicante i confini nazionali, fatto di mitologia greca, destinata poi a confluire in parte nel neoclassicismo ed inopinatamente ridotto, dal De Sanctis, nella sua storia, al rango di “minore” per volgari e contingenti motivi di propaganda politica: al primo storico della nostra letteratura, nonché primo ministro della nostra pubblica istruzione, erano più funzionali i “patriottici” Leopardi e Foscolo rispetto al “cortigiano” filoasburgico e fu così che, giudicando il settecento con i criteri dell’ottocento, si fece, e si fa ancora, torto alla storia della letteratura), passai al corrispettivo musicale dell’epoca.

Davanti alle grazie di Ilaria, scelsi di citare “l’Orfeo ed Euridice” di Gluck. Non potendo mettermi a cantare l’aria “ Che farò senza Euridice?/ Dove andrò senza il mio ben?” (non avevo intenzione di fare la voce bianca…), raccontai la storia. Come noto dal mito greco, il cantore e musico Orfeo possedeva un’arte talmente sublime che ammansiva le belve più feroci e veniva seguita persino dai sassi (addirittura si diceva che addirittura gli alberi delle foreste si disponessero secondo uno schema delle sue danze). Quando, al ritorno dall’impresa assieme agli Argonauti, sposò la ninfa mortale Euridice, scelse con lei di stabilirsi fra popoli selvaggi per godere dell’isolamento dal mondo. Un giorno, però, correndo nella foresta, Euridice venne morsa da un serpente velenoso e morì. Orfeo, non potendo sopravvivere senza di lei, discese negli inferi e, grazie alla sua musica, convinse perfino i più terribili mostri dell’averno ad aprirgli le porte per ricongiungersi con Euridice. Gli dei inferi, però, precisarono che avrebbe potuto riportarla con sé la sua bella, che però sarebbe morta per sempre se si fosse voltato a guardarla. Fu così che, dopo un’iniziale fase di gioia per essere tornata alla vita, Euridice iniziò ad accusare il marito di trascurarla (non sapendo del patto infernale che Orfeo aveva giurato di tenere segreto). Non potendo resistere a questo, Orfeo si voltò ed Euridice venne riportata per sempre nell’Ade. Qui finirebbe il mito greco tragico, ma il settecento italiano, che amava le feste (oggi si direbbe le “serate eleganti”), voleva un nuovo finale. Così, nell’opera, interviene il “deus ex machina”, in questo caso “Amore”, che trattiene il braccio di Orfeo intento a suicidarsi e fa resuscitare Euridice una seconda volta, fra il coro di giubilo “Trionfi amore/ il mondo intero/ servi all’impero/ della beltà”.

Era chiaro che, per una volta nella mia vita, non aspiravo all’amore infelice e più o meno romantico, ma a quello concreto basato sul godimento terreno e, perché no trattandosi della storia in fondo di due sposi, sulla fedeltà. In realtà pensavo più prosaicamente a qualcosa di simile ad un fidanzamento, ma questa volta fondato non (come nel caso dell’innominata, che narrerò in seguito alla voce “amori”) sull’illusione di aver trovato una presunta anima gemella con cui condividere un’esistenza “leopardiana”, bensì sull’evidenza di aver innanzi una giovine donzella di bellezza magari non siderale, ma comunque tale da poter partecipare alle selezioni di Miss Italia puntando a diventare “miss gambe” (o, almeno, così mi confermarono in seguito).
Ero, forse per la prima volta in vita mia, consapevole di poter offrire, in cambio di quella bellezza corporea, la facoltà, chiamata prosa, di raccontare storie, miti e avventure per dire l'indicibile di sé, per parlare con parole più brucianti delle più brucianti carezze, per comunicare all'altra anima con un flusso più continuo dello scorrere di un torrente, e quant'altro può essere espresso con la capacità e l'ordine del dire, con la modulazione della voce, la scelta dei vocaboli, le sfumature degli aggettivi, e i sottesi delle storie, i silenzi più eloquenti delle più eloquenti parole. E, da come ella era attenta alle mie parole, io vedevo che quella bellezza non corporale non le era indifferente. Non mi era mai capitato con una tale evidenza da poter essere colta (anche da parte di un uomo distratto come me!) negli sguardi ora insistiti ora sfuggenti ma comunque mai indifferenti verso di me.

Con l’ultima lezione, però stavo rischiando di sembrare un cicisbeo settecentesco ed avrei corso seriamente il rischio di ottenere soltanto di “frequentarla in bianco”, come capitava a certi gentiluomini di quell’epoca stravagante ed effemminata, i quali quasi mai arrivavano a possedere carnalmente la dama cui tenevano compagnia. Ecco quindi che per il mio terzo intervento, incentrato sul Neoclassicismo, cambiati totalmente tematica e puntai su qualcosa di assai più decisamente “virile”.

Scelsi il celebre quadro del “Giuramento degli Orazi” per farne il perno della mia lezione. Parlai dello scatto all’unisono dei tre protagonisti maschili, con le donne abbattute e piangenti sullo sfondo, come della determinazione dei rivoluzionari ad accettare il superamento di ogni “fralezza umana” pur di servire l’ideale fino alla morte. Non sapevo che, al contrario della mia, quella classe aveva per “ideali rivoluzionari” non più quelli “rossi”, bensì quelli “neri”. Quando dissi del comune costume repubblicano, che dagli ultimi anni del XVIII si sarebbe esteso per tutto il XIX (arrivando, con i suoi ultimi echi, alla Tosca di Puccini, dove il Cavaradossi si chiama “Mario” ad onore della fazione “popolare” in lotta contro gli “optimates” di Silla) di riprendere persino i nomi dagli eroi “politici” romani, sentii qualcuno commentare (“io chiamerò mio figlio Benito”). Involontariamente, avevo, per una volta, ottenuto l’attenzione anche dei maschi di quella classe. Dissi chiaramente che i giacobini riprendevano, in modo apertamente propagandistico, ma non per questo “inautentico”, dalla storia dell’antica Roma certi miti-chiave per farne meta e modello per il futuro. A differenza del quadro di Delacroix (“la libertà sulle barricate”), che sarà già romantico, qui l’idea politica ha principalmente un aspetto virile (applausi). Siamo ancora nell’era illuminista, in cui si credeva che la sola forza della ragione avrebbe potuto rivoltare il mondo.

“Non siamo ancora alla disillusione della Restaurazione, quando, dopo la parentesi napoleonica, si capì che la libertà avrebbe potuto essere raggiunta solo valorizzando quanto di più passionale, e di specifico, esista nei diversi popoli. Se per Manzoni la nazione è “una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue, di cor”, per i giacobini essa è ancora un “archetipo universale” che per accidente è sorta prima in Francia ma che può, come si pensò con la dichiarazione di guerra del 1793 e con la successiva epopea Napoleonica, esportare “sulla punta delle baionette” (altri applausi) in tutto il mondo civilizzato. Ecco quindi che i tre fratelli che giurano di combattere fino alla morte con i tre corrispondenti Curiazi rappresentano l’idea maschile e “neoclassica” di azione ineluttabile guidata dalla “necessità logica” (il duello è stato ragionevolmente stabilito per evitare una sanguinosa battaglia fra le due fazioni che avrebbe reso il vincitore facile preda dei vicini Etruschi) e dalla “ragione universale” (come “universali” sono le materie scientifiche che piacciono massimamente a noi maschi), mentre la donna a seno nudo di Delacroix, che incita il popolo alla rivolta brandendo il tricolore francese con impeto passionale, raffigura al contrario l’idea femminea e romantica di nazione come “madre del sangue”, del corpo, di tutto quanto è specifico, soggettivo, sentimentale (come, insomma, la correzione di un tema).”

Probabilmente Nietzsche avrebbe preferito invertire l’associazione fra i termini del dualismo ragione/sentimento e quelli relativi alla psicologia dei sessi, ma, poiché i rispettivi pittori avevano fatto la scelta più “scontata”, da tempo avallata dal facile ed ottuso senso comune, mi adeguai pur senza rinunciare alla necessaria ironia contro il proverbiale arbitrio delle donne nel correggere i compiti in classe che tanto mi aveva fatto penare in gioventù. La professoressa Irene mi rimbrottò solo bonariamente.
In ogni caso, avevo con quest’ultimo discorso raggiunto un tale livello di popolarità “locale” che la bella Ilaria vedeva ormai in me un “personaggio” fidanzandosi con il quale avrebbe potuto appagare la propria “vanità sociale”. Era sparita dal suo sguardo, infatti, la benché minima traccia di stronzaggine tipica della “melanzana figa” che se la tira. Rimaneva però un ostacolo. Come fare ad invitarla ad uscire? Non potevo certo chiederle il numero di telefono davanti alla classe o cercarlo nel registro!

Ero talmente inesperto in fatto di “cuccaggio” che, dopo esser riuscito a far abboccare il pesce seguendo le istruzioni di Ovidio, non sapevo come dovessi usare la canna da pesca per portarlo a me. Ai tempi di Ovidio, infatti, si faceva tutto tramite messaggi segreti su pergamena e passaparola di servi. Ai miei tempi entrambe le cose erano purtroppo cadute in disuso. Risolsi l’indecisione non facendo semplicemente più nulla.

Forse avevo scoperto di non essere tanto interessato a lei. Dopotutto, per quanto abbastanza bella anche di viso, non rispettava a rigore gli accostamenti cromatici su cui fin da fanciullo ero fissato, secondo i quali agli occhi azzurri avrebbero sempre dovuto corrispondere i capelli biondi (come nel caso della fatale Elena dei miei nove anni) e agli occhi neri i capelli neri (come nel caso “recente” di Nina). E, fra le diverse combinazioni possibili, la sua era la meno auspicabile: se gli occhi azzurri attorniati da capelli scuri sono una perla, occhi marroni su capelli biondi sono qualcosa più da “finta bionda” dell’omonimo film di Vanzina che non da musa per un poeta barocco o arcadico. O forse ella mi interessava proprio perché. soddisfacendo un ideale estetico non “mio” particolare, bensì “comunemente sentito”, già per il solo fatto di apprezzarmi (senza bisogno di arrivare ad rapporto intimo o ad un fidanzamento) mi toglieva la nomea di “sfigato” e mi riconciliava con quel genere di “gnocca” il cui disinteresse nei miei confronti (dovuto ad una mancanza di interessi comuni) era sempre stato da me ricambiato con l’avversione (fin dai tempi in cui, alle medie, bisticciavo con mia cugina ventenne). O forse, ancora, pensavo che l’occasione sarebbe capitata “naturalmente” data ormai la comunanza delle conoscenze (i maschi della classe consideravano quasi un “ras locale”) e per questo non volevo rischiare di compromettere tutto con manovre frettolose ed avventate.

La cosa sorprendente è che in quel periodo (si era, lo ripeto, agli sgoccioli dell’ultimo anno del novecento) mi sentivo felice come se avessi ottenuto un incontro intimo per il solo fatto di poter fantasticare motivatamente sulla possibilità di invitarla. Ero tornato a tenermi in forma grazie alla palestra, mi radevo più spesso usando poi nuovi raffinati dopobarba e mi facevo accompagnare da mia madre a spendere in modo opportuno denari per vestiti (come se mi dovessi preparare ad un appuntamento). Dulcis in fundo, stavo attendendo arrivasse (e sarebbe arrivata nella prima settimana del 2000) la mia nuova BMW serie 3, duemilaecinque benzina sei cilindri, nero metallizzato con interno chiaro e cerchi in lega originali BBS a raggi. Era talmente bella che la gente si fermava ad ammirarla in concessionaria durante la consegna. Anche le prima volte in cui uscivo la sera, mi pareva sentire le ovazioni. Qualche figlia di amiche di mia madre arrivò addirittura a farmi i complimenti per il buon gusto nella scelta degli accessori e degli accostamenti cromatici. Pareva un modello progettato “per portare in giro le belle ragazze” (disse mia madre la prima volta che vi salì).
Eppure non riuscii mai a farci salire Ilaria. Quando la rividi una sera d’inverno presso amici comuni capii che sarebbe stata perfetta. Finalmente in minigonna, mostrava a propria gloria due gambe stupende (che fino ad allora avevo solo intuito) ed indossava un raffinato accostamento fra il verde di gonna e top ed il bianco delle calze velate e degli stivali. Pareva un confetto con cui inaugurare qualcosa di importante per la propria vita estetico-sentimentale (come l’automobile, appunto). E più la vedevo perfetta per me, più ero lontano dall’avvicinarla. Mi guardava ancora, anche se parlava poco. Pareva quasi scocciata della propria compagnia e desiderosa di cambiare in meglio. Eppure non seppi approfittare.

Avevo tutto, allora, per poter ragionevolmente sperare in un successo: era, si direbbe oggi, dello stesso “social circle”; avevo su di lei una sorta di “supremazia culturale” essendo stato, anche se un po’ per scherzo, un suo “insegnante di storia dell’arte”; mi aveva conosciuto in una situazione in cui subito avevo potuto apparirle in una veste interessante (lo avevo capito dalla sua attenzione alle mie parole in aula); avevo il “prestigio sociale” dato dalla “fama” di cui godevo fra i suoi professori (che ancora parlavano di me e mi portavano immeritatamente ad esempio imperituro); avevo l’aurea dell’artista per le mie “performance” da “Vittorio Sgarbi de noialtri”; avevo la “giusta” (secondo i criteri delle ragazze dell’epoca, che sceglievano sistematicamente fidanzati più grandi di loro) differenza d’età a mio favore (ed era la prima volta: in precedenza avevo mirato solo a coetanee o a ragazze più grandi); avevo la nomea di giovane facoltoso confermabile con la mia fiammante BMW; avevo la prospettiva di una buona carriera donata dai miei iniziali successi nello studio in una facoltà all’epoca giustamente ritenuta prestigiosa e quasi “inespugnabile” come l’ingegneria. Avevo, in quel tempo (e non era così frequente), persino il “fisico” (avevo appena ripreso la palestra dopo un’estate di attività fisica).

Raramente si concentrano insieme tanti fattori positivi. Ovidio avrebbe potuto aspettare giorni e notti con la canna da pesca in mano e non avrebbe potuto trovare momento migliore nella vita. Sono ancora irato con me stesso quando cerco di capire perché non ci abbia provato.
La incontrai ancora una volta per caso, poco tempo, dopo, ad una festa organizzata da amici comuni. Era in compagnia dei suoi compagni di classe, ed il più sveglio fra essi, non sospettando nulla delle mie mire, confessò ad un mio amico: “sembra tirarsela, ma è molto buona oltre che bona”. Il frastuono non mi fece capire altro che “…e lei sempre più nuda…” detto con l’aria di chi è in vena di confidenze amichevoli per vantarsi. Dal tono, deducevo che erano in corso movimenti avanzati ma non conclusi. L’interessata era davanti a noi, un po’ in disparte, con gli altri. Questa volta era vestita di nero, con una minigonna ed un top che ben poco lasciavano all’immaginazione. Si vedeva il suo pancino nudo, piatto e levigato come in una statua, e statuarie come sempre erano le sue gambe, rese mitologiche da un paio di lunghi stivali da cubista. Pareva una ragazza immagine e questo la rendeva definitivamente attraente ai miei occhi. Sessualmente, infatti, dopo l’adolescenza non sono mai stato attratto dai tipi intellettuali. Lo ero (e lo sono) invece da quella tipologia di ragazza che si direbbe non dico oca, ma, almeno, “leggera”, “banale”, totalmente dedita alla moda, allo shopping, alla modernità superficiale e giovanilistica, ai divertimenti mondani, alla musica da discoteca e a tutto quanto, in genere, io non amo. E’ proprio la lontananza di interessi a rendermi la figura di una bella ragazza ancora più irraggiungibile (e quindi desiderabile) di quanto non possa già fare la stessa bellezza.

Stabilire con certezza perché non ci abbia provato è un problema paragonabile all’alt della macchina di Turing: una macchina non può sapere in anticipo se si fermerà o meno (è il tipico esempio di problema indecidibile). Solo un’altra macchina (in questo caso la mente del lettore) può capire perché io mi sia inceppato.
Forse non sono semplicemente nato, almeno in ambito amoroso, per rincorrere prede. Forse, al di là di tutte le parole e tutte le letture possibili dell’ars amandi di Ovidio, non sono capace di percepire le belle fanciulle come prede da cacciare o come pesci da pescare. Forse sono troppo innamorato della bellezza per non desiderare di essere piuttosto predato da essa. Se con un minimo di intraprendenza moderna si fosse fatta avanti Ilaria per prima (magari anche solo attaccando discorso per caso o chiedendo un passaggio con una scusa) sarei stato felicissimo di assecondarla e diventare a mia volta più audace. Pianificare però da principio il tutto restando di fronte all’immobilità della controparte è qualcosa che esce dal mio concetto di desiderio perché implica una strategia, una prevedibilità di eventi, una catena di cause ed effetti, ovvero tutto quanto è estraneo al sogno. Forse proprio perché la donna resta per me un sogno, se vuole restare tale non può essere la mia preda.
Insomma, qualcuna direbbe che sono nato gazzella.

Qualche anno dopo, in un triste pomeriggio di settembre, si tennero i funerali della professoressa Irene, celebrati da quello che era stato il nostro professore di religione (il prete a cui io e Matteo provammo, fin dal primo giorno, di dimostrare l’inesistenza di Dio). Fu l’unica volta in cui la chiesa mi parve umana: aveva concesso questa “delicatezza” a noi studenti, che potemmo, nell’omelia, ascoltare da una voce amica i ricordi comuni su una persona che, pur con tutti i distinguo del suo ruolo, ci era stata amica.
“Ma rapida passasti; e come un sogno/ fu la tua vita.” Quello che Leopardi diceva di Nerina io posso dire di quel breve lasso di tempo in cui (galeotta fu la prof) mi sono sentito un po’ seduttore nei confronti di Ilaria. Non so se la bionda miss dagli occhi marroni abbia perso un potenzialmente apprezzabule fidanzato o solo l’ennesimo scocciatore. So che ha almeno guadagnato un sonetto:

“Angelica Ti mostri ed elegante,
O Bionda creatura che hai nome Ilaria:
Qual fossi una parvenza straordinaria
Lo sguardo scorre, stupito e adorante,

Per le linee del tuo corpo svettante;
Alta, bella e di figura statuaria
Tu sorgi come una stella nell’aria
Con il candore delle cose sante,

Ammaliato dalla tua breve gonna
Bramo cantare in versi il tuo splendore
Con quei toni supplichevoli e lievi

Ch’hanno i Devoti innanzi alla Madonna,
Fino a sciogliermi in un bianco languore
Come sull’acqua i fiocchi delle nevi.”

NOTE ANTIFEMMINISTE A PIE’ DI PAGINA

[NOTA 1] Se la definizione del confine fra lecito e illecito è lasciata alla arbitraria interpretazione e alla irriproducibile (e spesso inconoscibile) sensibilità della presunta vittima, come sarà possibile anche per chi non ha fatto nulla di male dichiararsi innocente? Se una donna dichiarerà di essersi sentita molestata, come farà l'uomo accusato a sostenere il contrario, non essendo nelle sue facoltà entrare nella psiche della controparte e mostrare che non vi è stata sensazione di molestia? Che la donna menta o meno, l'uomo potrà soltanto dire di non aver avuto intenzione di molestare e di non aver compiuto nulla di oggettivamente molesto. Se però l'oggettività del diritto è sostituita dalla soggettività femminile la condanna risulterà sistematica (poiché il reato verrà definito a posteriori e a capriccio della presunta vittima). Bella prospettiva per uno stato di diritto.

[NOTA 2] Se proseguirà questa deriva (che la lobby della finanza senza patria di cui Macron è campione sta sospingendo da decenni ormai) di leggi e costumi circa la cosiddetta “molestia sessuale” nessun uomo dabbene mai più corteggerà. Come si fa infatti a sapere a priori se un complimento, un atto, uno sguardo sarà considerato molesto o meno? Nel dubbio un uomo savio non farà assolutamente nulla. Non ci si lamenti allora se gli uomini non vogliono più corteggiare: ora alla naturale timidezza, alla razionale considerazione di non convenienza (nel dare tutto in pensieri, parole e opere per ricevere come funzione di variabile aleatoria), all'emotiva ritrosia a doversi sentire "sotto esame", al rifiuto psicologico a trovarsi nella condizione del cavalier servente pronto a tutto per un sorriso e potenzialmente vittima d'ogni tirannia, umiliazione e inganno, si aggiunge pure il pericolo di essere multati e la consapevolezza di venire trattati (sia pure per ora solo amministrativamente) con la violenza psicologica e l'odio spettanti semmai a veri violentatori, o comunque di venire considerati "molesti" per il fatto stesso di aver espresso (senza alcuna intenzione violenta o molesta) il proprio disio di natura (e quindi di essere condannati o all'eterno disprezzo dall'altro sesso o ad un continuo nascondimento di sè), anche quando non si sono usate parole volgari o offensive (non lo sono né "dio ti benedica", né "come sei bella", utilizzate come esempio di “motivi per essere mitragliata da una giustiziera in gonnella” in questo demagogico videogioco “antimolestie” di qualche anno fa). Magari certe multe (come certe smitragliate) resteranno pure virtuali, ma l'uccisione della spontaneità nei maschi è ormai reale. Come si può pretendere che un uomo addirittura corteggi, quando anche solo la prima naturale espressione (più o meno raffinata, più o meno poetica, più o meno esplicita a seconda delle inclinazioni, degli stili e delle conoscenze di ciascuno) del suo desiderio per le grazie femminili può essere ad esclusivo arbitrio della presunta vittima reputata un’infrazione alla legge? Questo porterà ad una uccisione sul nascere della spontaneità di ogni uomo (soprattutto se giovane) in ogni rapporto con le donne e un conseguente progressivo allontanamento di ogni uomo dotato d'intelletto dal genere femminile. Sarà anche vero che la maggioranza delle donne non denuncerà un ammiratore per un complimento osé, e si limiterà a segnalare i casi davvero molesti, ma se si supponessero tutte le persone buone e giuste non servirebbe neppure la legge.

[NOTA 3] Quanto rende queste “iniziative culturali” (che divengono poi giudiziarie) abominevoli è il fatto di permettere a quel sottoinsieme di donne false e perfide di denunciare chicchessia per capriccio, vendetta arbitraria, ricatto, interesse o gratuito sfoggio di preminenza erotico-sociale (nel poter far finire nei guai un uomo con l'arma dell'attrazione sessuale e nell'esser creduta a priori mentre l'altra parte è tenuta a tacere e se parla reputata indegna d'ascolto e degna solo o del riso o del disprezzo). Non sto dicendo che le donne siano tutte perfide e sadiche, sto solo esprimendo il mio sdegno per una subcultura ed una giurisprudenza tali da permettere a chi lo sia di infierire massimamente sul primo uomo incontrato per strada. Sarebbe come una giurisprudenza che permettesse agli stupratori di infierire sulle vittime (le donne se ne lamenterebbero anche senza considerare tutti gli uomini stupratori).

[NOTA 4] Care (si fa per dire, a meno che non facciate le escort), eventuali, lettrici, non fraintendetemi apposta con menzogna ideologica femminista: non sto affatto sostenendo sia in qualche misura “accettabile” che una donna, vestita come le pare, sia fatta oggetto di molestie o addirittura violenze (o comunque intimidazioni), bensì che non posso accettare consideriate “molestia” un semplice complimento (almeno fino a quando non contiene elementi di offesa o minaccia chiaramente voluti). Posso capire che non tutti gli apprezzamenti possano risultare graditi quando vengono dal primo che passa, ma voi dovete capire che nessuno può sapere cosa davvero voi vi aspettiate da uno sconosciuto ammiratore (e tutti coloro che prim vi mirano sono giocoforza all'inizio sconosciuti) per concedergli l'opportunità di mostrare in un incontro solus ad solam l'eventuale eccellenza nelle doti da voi ritenute importanti per un eventuale rapporto. Se non è manifesta l'intenzione offensiva e prepotente non avete alcun diritto a lanciare virtualmente sventagliate di mitra e a comportarvi realmente da stronze e avete invece a mio avviso il dovere di ringraziare comunque, declinando. E non potete pretendere che l'uomo, prima di aprire bocca o spalancare lo sguardo, si metta a “pensare” cosa possa essere considerato gradito e cosa molesto. Non solo perché impossibile, ma anche e soprattutto ucciderebbe la spontaneità. Un complimento, un invito, un guardo, un verso o un'espressione qualunque, implicita o esplicita, poeticamente vaga o banalmente diretta che sia, di desio, valgono (come possibile inizio di un rapporto eventualmente amoroso) solo quando sorgono spontaneamente, dal profondo del proprio essere, senza mediazione razionale. In caso contrario rappresentano solo o affettata galanteria o perfido calcolo di seduttore (o addirittura pedante educazione) e giammai possibilità di instaurare un primo rapporto empatico eventualmente sfociante in desiderio reciproco di conoscenza amorosa. Rendere manifesto quel disio che sorge con la rapidità del fulmine e l'intensità del tuono pone l'uomo in una condizione di debolezza, o comunque di potenziale disagio emotivo, perché ammette ella è immediatamente mirata, disiata e accettata per quello che è (bella), mentre lui è costretto a “fare qualcosa” per mostrarsi alla di lei altezza, o comunque a restare sotto esame mentre lei può valutare con calma e scegliere se divertirsi con lui o su di lui. Se un uomo pensa, pensa anche a ciò e allora non rivolge più alcun complimento. E voi, innanzi a chi comunque si fa avanti per cercare di carpire i vostri favori (ponendovi di fatto con ciò su un piedistallo checché ne dicano le menzogne femministe pronte a confondere donna-oggetto con persona oggetto di desiderio), ponete le immagini proposte da questo videogioco? Non ho più parole. Ho fatto bene a lasciarvi perdere. Io stesso, prima di essere psicologicamente violentato dalla propaganda mediatica femminista, ero ancora tanto ingenuo da lasciarmi andare ogni tanto a complimenti rimati, anche nei confronti delle sconosciute (ricevendo per la verità sempre atteggiamenti, anche da parte di coloro cui non interessavo affatto, assai più gentili di quelli sostenuti come giusti nelle discussioni sui forum e sui social di oggi). Ora che nel mio inconscio si è iscritto il vostro “vendichiamoci di chi ci approccia con complimenti a sfondo sessuale” (anche il canzoniere di Petrarca è a “sfondo sessuale”), la mia reazione è stata quella di tramutare i “o soave fanciulla, o dolce viso di mete e circonfusa alba lunar” e i “cortese damigella il prego mio accettate, dican le dolci labbra come vi chiamate” in “vanagloriosa tiranna che attiri chi vuoi respingere, infierisci su chi ti mira e tratti con malcelata sufficienza quando non con aperto disprezzo chiunque tenti un approccio verbale o visivo, non meriti la benché minima attenzione da me, meglio le puttane dichiarate” e in “stronza occidentale, che con con tale sprezzo dell'uomo fai uso della tua libertà, meriteresti di vivere in Afghanistan” . Forse le donne reali sono migliori di quelle virtuali, o forse no. In ogni caso, a tutte voi che passate per strada con le vostre forme più o meno belle in bella mostra, addio. Neanche più un verrso avrete da me. Al massimo, queste note a piè pagina!

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QUARTO GRADO: DA MARSILIO FICINO A FRIEDRICH NIETZSCHE (10/18)
Ovvero: "LE DONNE, I CAVALLIER, L’ARME, GLI AMORI, LE CORTESIE, l’AUDACI IMPRESE"
Parte 11 di 18 : “Le donne: Elisa”

Nel giorno di San Valentino di diciotto anni fa, mi accingevo a scrivere una lettera. Erano passati quasi cinque anni dall’incontro con Elisa, la mia “amata immortale” e ancora non avevo veduto niuna donna degna di paragonarsi a lei o, comunque, in grado quanto lei di ispirarmi amorosa passione. Ebbi quindi la prima conferma (ma io ne ero stato sicuro fin da quella “prima notte di quiete” che era stata la vigilia della sua partenza da quel di Giulianova) del fatto che non l’avrei mai potuta dimenticare, in altre parole, della sua “immortalità”, almeno nella mia memoria.
“Dolce ne la memoria” mi aveva insegnato il Petrarca durante quel terzo anno di liceo che precedette le vacanze d’estate del 1996 in cui la incontrai. Avrei voluto aspettare dieci anni, per avere una cifra tonda, una decade, con cui misurare la lunghezza temporale del mio “amor platonico”, ma già l’avvicinarsi del primo lustro di malinconia mi rendeva, all’inizio dei quel 2001, propenso ad abbandonarmi al suono delle mie stesse parole come l’autore di “Voi che ascoltate in rime sparse il suono” (Petrarca sa che i propri “rerum vulgarium fragmenta”, al cui incipit è ha scelto proprio di porre quel sonetto, più che ai lettori si rivolgono a lui stesso).
Decisi dunque di scrivere la mia prima vera (e quindi anche unica) lettera d’amore.

Elisa,
Scrivo a te dopo un lustro col tono grave e soave con il quale, mi immagino, Cloridano e Medoro invocano, in una delle più belle pagine dell’Ariosto, la purissima grazia della Luna per pregarla di illuminare a giorno il campo nemico, così da riconoscere il corpo del loro signore e riportarlo, a rischio della propria vita, al suo accampamento, per tener fede fino all’ultimo al giuramento di fedeltà. Mi rivolgo a te con quel tono con cui ci si richiama ad un vincolo antico e potente, più alto delle relazioni che intercorrono nella vita comune degli uomini e delle donne, più nobile dei lacci che legano le azioni e i pensieri alla dimensione quotidiana, un legame più silenzioso dei più taciti pensieri, più segreto dei più chiusi desideri, troppo delicato per essere espresso dalle parole, troppo forte per essere taciuto dalla mente.
Ti parlo con l’animo pervaso dall’ebbrezza lieta e fuggevole del sogno lontano (dolce ne la memoria), dolce come nel cielo il novilunio di settembre, lieve come il silenzioso viso esangue della creatura celeste che ha nome luna, con una collana sotto il mento sì chiara che l’oscura, e trasparente come la medusa marina, come la brina nell’alba labile come neve sull’acqua la schiuma sulla sabbia, pallido come il piacere sull’origliere, di quel sogno “gravis dum suavis” che il mare, più soave del cielo nel suo volume molle, culla col suo lento ploro quando “non canto non grido non suono pel vasto silenzio va”.
Ti vorrei parlare con le parole che esalano al mare gli aneliti brevi di foglie, i sospiri di fiori dal bosco, con la melodia della terra, la melodia “che i flauti dei grilli fan nei campi tranquilli, che le rane fan ne le pantane morte” per dire quanto sian dolci sulla sabbia l’ombre de’ voli, pria che la falce dell’estate, il suo spirito di alghe di resine d’alloro, trapassi, (“dopo che tanto l’amammo, dopo che tanto ci piacque”), pria che la sua canzone di aromi, di silenzi di auree e di ombre si taccia per sempre.
Elisa, Tu sei bella come il mare del novilunio placido di settembre, sei soave come un giorno senza fiamme e una notte senza ombre, sei profonda ne gli occhi tuoi come “il mar che non ha fondo e non ha lido”, rifletti, nelle tue sembianze di divinità castana, un sospiro d’eternità, come quell’ora breve in cui “il Giorno e la Notte commisti sul letto del mare, non lieti, non tristi, effondono, ancora, una tal chiarità che tu puoi vedere, ancora, le onde del vento sulla sabbia, le conche vacue, le orme dei fanciulli, le alghe argentine, gl’ossi delle seppie, le guaine delle carrube”.
Elisa, tu sei la mia Estate e sei bella, come l’anima fatta bella dal suo pianto, la terra abbeverata lungo l’affrico nella sera di giugno dopo la pioggia, come il plenilunio quando si specchia sull’onde d’argento del mare, sei liscia, ne la tua pelle delicata, come la molle sabbia dorata del mattino nelle sue conche vacue quando l’onda lasciva l’accarezza lieve e subito si ritrae, e pura, nelle tue vesti aulenti, come il commiato lagrimoso della primavera sugli olivi “che fan di santità pallidi i clivi e sorridenti. Le divine lunghezze del corpo e lo slancio delle membra scolpite da un ottimo e divino artefice su un marmo vivente, rosato come il volto vago della riva al tramonto, elevano lo sguardo ad adorare ogni bellezza sotto le stelle scorrenti del cielo alle luminose piagge della luce; le tue forme d’Eliso racchiudono ogni segno vago, ogni forma fuggente, ogni parvenza ne l’ora breve: tu sei donatrice di beatitudine, come una cristallina fonte nella canicola d’agosto, sei mite come l’oro in bocca all’estate, sei gioiosa come le risa dell’acqua sulla riva soleggiata.
Elisa, tu sei bella come Colei che nacque dalla spuma del mare greco, come la rosa fresca aulentissima dischiusa dal sen de la Bellezza: nel tuo sorriso risplende una serenità più che terrena, nel tuo viso, attorniato da riccioli castani simili a chiare ginestre e aulenti, rivive, più che nei marmi divini, l’ideale classico. Nella linea scultorea del naso da dea greca rifulge il tocco perfetto della mano di Fidia, nella spontaneità delle movenze quella gioia naturale e pagana che certo ebbe Venere quando nuda uscì dalle onde.
Nella tua alta figura di dea rivive più di una speranza, più di una promessa, più di un piacere, più di un sogno: rivive il mito della felicità edenica, dell’innocenza primigenia, il mito dell’età dell’oro, una beltà più che terrena, “quell’aurea beltà ond’ebber ristoro unico a’ mali/ le nate a vaneggiar menti mortali”.
Appena ti conobbi vidi restituita al corpo di Venere quella divina lunghezza che le copie terrene dimenticano di tramandare e, sopra ogni cosa, quel calore di sabbia d’oro baciata dal sole, quella pienezza di vita, quel colore divino d’ambra tersa e pura alla mattina, quel senso palpitante di felicità che il marmo non può trasmettere. Una gioia di esistere era dipinta in te che forse soltanto Leonardo ha saputo figurare ne “la Gioconda”.
Come nelle notti d’incanto la montagna esprime dalle sue mamme delicate un latteo manto di nuvole sparse, simili a talami in cui le essenze della terra si giacciano con le bellezze del cielo, così, mentre volgevo gli occhi al cielo per mirare l’altezza della tua figura, mi apparisti come “copula mundi” tra le bellezze inferiori, che sono terrene e quelle superiori, che sono divine.
Ammantata dalla tua veste bianca, parevi il velo che al sospirar dei venti la luna distende sull’acque deserte, sulle colline lontate e sulle cime dei pini, laddove una santità d’argento sembra proteggere da labbra impure la fresca polpa soave di frutti divini e terreni.
Cosi’ prima Ti vidi.
Quando, sia pure per celia, mi venne concesso dal Cielo di tangerti in una sorta di danza mi si schiuse dall’animo un’ebbrezza nuova, non mai provata, una sorta di rapimento estatico, come immagino abbia provato Icaro quando iniziò a staccarsi da terra e a esplorare le altitudini del cielo.
Come a quell’improvvido aviatore la terra e il cielo non parvero più come li aveva sempre visti, così a me tutti gli aspetti della vita, anche quelli più comuni e quotidiani che avevo sempre disprezzato, si presentarono in una nuova prospettiva: l’intera vita m’apparve mutata da una nuova luce.
Lingua mortal non dice quel ch’io aveva in seno.
Dipinto era in te il colore della gioia “di essere forte di essere giovane, di mordere i frutti terreni con saldi e bianchi denti voraci, di por le mani audaci e cupide sovra ogni dolce cosa tangibile, di tendere l’arco verso ogni preda novella che il desio miri.

“Nel vago tempo di sua verde etate,
spargendo ancor pel volto il primo fiore,
né avendo il bel Iulio ancor provate
le dolce acerbe cure che dà Amore,
viveasi lieto in pace e 'n libertate;
talor frenando un gentil corridore,
che gloria fu de' ciciliani armenti,
con esso a correr contendea co' venti:”*

Come, prima di incontrare Simonetta, il giovane Giulo delle “Stanze” del Poliziano viveva, nel suo cuore solitario e selvaggio, in una vita maschia e attiva, tra interminabili cavalcate e battute di caccia, così io, fino a quel momento, ero cresciuto e vissuto in un mondo di idee e di pensieri, alieno da ogni interesse mondano, scevro da ogni banalità terrena, dagli inganni dell’età, dai divertimenti comuni, dagli scherzi fra coetanei, delle inutili uscite serali.
Dov’era dunque la mia felicità se non in quell’istante in cui, terminati gli studi, contemplavo, dall’angustia della mia stanza, dalla ristrettezza dei quotidiani affanni, l’immensità dell’orizzonte, l’infinito de’ sentimenti? Quale maggiore letizia di un roseo tramonto in sintonia con i moti della sua anima che lentamente volgevano alla quiete? A quale più intensa gioia guardavano i miei occhi sognanti perdendosi nella vastità della pianura, confondendosi fra le nubi rosate da un sole morente, vagando tra i dolci pendii delle prime colline velate da un’effimero luccichìo? Non sapevo forse che una nuova alba attendeva, e un’altra grigia giornata, e un ennesimo arido meriggio, e così fino al definitivo tramonto oltre il quale v’è solo una fredda e lunga notte da dormire? Non importava: trascorrendo la gioventù tra le sudate carte, appagandomi dell’infinità del tramonto, nutrendomi del piacer figlio d’affanno, sdegnavo tutte le azioni comuni e banali, tutte le gioie imperfette, tutti gli affetti e gli amorini tanto semplici quanto passeggeri come Giulo disprezzava le ninfe e i sospiri.

Poi, quando già nel ciel parean le stelle,
tutto gioioso a sua magion tornava;
e 'n compagnia delle nove sorelle
celesti versi con disio cantava,
e d'antica virtù mille fiammelle
con gli alti carmi ne' petti destava:
così, chiamando amor lascivia umana,
si godea con le Muse o con Diana.

E se talor nel ceco labirinto
errar vedeva un miserello amante,
di dolor carco, di pietà dipinto,
seguir della nemica sua le piante,
e dove Amor il cor li avessi avinto,
lì pascer l'alma di dua luci sante
preso nelle amorose crudel gogne,
sì l'assaliva con agre rampogne:

"Scuoti, meschin, del petto il ceco errore,
ch'a te stessi te fura, ad altrui porge;
non nudrir di lusinghe un van furore,
che di pigra lascivia e d'ozio sorge.
Costui che 'l vulgo errante chiama Amore
è dolce insania a chi più acuto scorge:
sì bel titol d'Amore ha dato il mondo
a una ceca peste, a un mal giocondo.

Ah quanto è uom meschin, che cangia voglia
per donna, o mai per lei s'allegra o dole;
e qual per lei di libertà si spoglia
o crede a sui sembianti, a sue parole!
Ché sempre è più leggier ch'al vento foglia,
e mille volte el dì vuole e disvuole:
segue chi fugge, a chi la vuol s'asconde,
e vanne e vien, come alla riva l'onde.

Prima ancora di viverli di persona, avevo tratto dai romanzi e fatto propri tutti i trasporti, le speranze e le disillusioni della passione. Con l’animo di chi molto ha vissuto e sofferto, desideravo dal mondo qualcosa di più puro e rarefatto, simile allo stile del Petrarca, e bramavo (ah, quanto si fallava il pensier mio!) di porre in grembo a Venere Celeste ciò che nudo in Grecia e nudo in Roma nacque, di rinchiudere cioè ogni mio più puro slancio alla dimensione del pensiero, scavando così in me un solco incolmabile tra il mondo della Natura e quello dello Spirito. Ritenendo la passione amorosa (come dopo avrei saputo da Schopenhauer), la più spietata delle leggi della Natura Onnipossente, l’inganno estremo della specie, la mia mente ricercava nella donna esclusivamente una interlocutrice per le sue speculazioni filosofiche, disprezzando la sua valenza mondana.
Rinchiudendomi nel mondo del pensiero come Giulo si era chiuso nelle sue attività, deridevo con medioevale misoginia coloro che trascorrevano il giorno a corteggiare le belle pulzelle, in quanto in esse vedevo l’effigie e quasi il simbolo della vita di natura con la quale non volevo riconciliarmi.

“Giovane donna sembra veramente
quasi sotto un bel mare acuto scoglio,
o ver tra' fiori un giovincel serpente
uscito pur mo' fuor del vecchio scoglio.
Ah quanto è fra' più miseri dolente
chi può soffrir di donna il fero orgoglio!
Ché quanto ha il volto più di biltà pieno,
più cela inganni nel fallace seno.

Con essi gli occhi giovenili invesca
Amor, ch'ogni pensier maschio vi fura;
e quale un tratto ingoza la dolce esca
mai di sua propria libertà non cura;
ma, come se pur Lete Amor vi mesca,
tosto obliate vostra alta natura;
né poi viril pensiero in voi germoglia,
sì del proprio valor costui vi spoglia.

Quanto è più dolce, quanto è più securo
seguir le fere fugitive in caccia
fra boschi antichi fuor di fossa o muro,
e spiar lor covil per lunga traccia!
Veder la valle e 'l colle e l'aer più puro,
l'erbe e' fior, l'acqua viva chiara e ghiaccia!
Udir li augei svernar, rimbombar l'onde,
e dolce al vento mormorar le fronde!

Quanto giova a mirar pender da un'erta
le capre, e pascer questo e quel virgulto;
e 'l montanaro all'ombra più conserta
destar la sua zampogna e 'l verso inculto;
veder la terra di pomi coperta,
ogni arbor da' suoi frutti quasi occulto;
veder cozzar monton, vacche mughiare
e le biade ondeggiar come fa il mare!

Nel ristoro mio primo dalle fatiche della scuola, da me affrontate con l’intensità propria di un interminabile campionato di Automobilismo costellato di impegni importanti e sfide decisive, nel tempo in cui le cure si placano come un fiume sul mare, nel giorno esatto del mio diciassettesimo compleanno, (ah come va fortuna cangiando stile), con una coincidenza che pare tratta dalla vita nova di Dante, incontrai te. Allora la nobile terra d’Abruzzo, natale a D’Annunzio e Ovidio, i due Sommi Poeti dell’Ars Amandi, parvemi la selva in fiore della Toscana, popolata di veneri e amorini, nella quale Iulo primieramente conobbe Simonetta, e solo la raffinata lira del Poliziano può rievocare, nel suono armonioso dell’ottava, quel che successe nel cor mio sanza offendere la delicatezza del sentimento o la fralezza de’ sensi.

Tosto Cupido entro a' begli occhi ascoso,
al nervo adatta del suo stral la cocca,
poi tira quel col braccio poderoso,
tal che raggiugne e l'una e l'altra cocca;
la man sinistra con l'oro focoso,
la destra poppa colla corda tocca:
né pria per l'aer ronzando esce 'l quadrello,
che Iulio drento al cor sentito ha quello.

Ahi qual divenne! ah come al giovinetto
corse il gran foco in tutte le midolle!
che tremito gli scosse il cor nel petto!
d'un ghiacciato sudor tutto era molle;
e fatto ghiotto del suo dolce aspetto,
giammai li occhi da li occhi levar puolle;
ma tutto preso dal vago splendore,
non s'accorge el meschin che quivi è Amore.

Non s'accorge ch'Amor lì drento è armato
per sol turbar la suo lunga quiete;
non s'accorge a che nodo è già legato,
non conosce suo piaghe ancor segrete;
di piacer, di disir tutto è invescato,
e così il cacciator preso è alla rete.
Le braccia fra sé loda e 'l viso e 'l crino,
e 'n lei discerne un non so che divino.

Candida è ella, e candida la vesta,
ma pur di rose e fior dipinta e d'erba;
lo inanellato crin dall'aurea testa
scende in la fronte umilmente superba.
Rideli a torno tutta la foresta,
e quanto può suo cure disacerba;
nell'atto regalmente è mansueta,
e pur col ciglio le tempeste acqueta.

Folgoron gli occhi d'un dolce sereno,
ove sue face tien Cupido ascose;
l'aier d'intorno si fa tutto ameno
ovunque gira le luce amorose.
Di celeste letizia il volto ha pieno,
dolce dipinto di ligustri e rose;**
ogni aura tace al suo parlar divino,
e canta ogni augelletto in suo latino.

Con lei sen va Onestate umile e piana
che d'ogni chiuso cor volge la chiave;
con lei va Gentilezza in vista umana,
e da lei impara il dolce andar soave.
Non può mirarli il viso alma villana,
se pria di suo fallir doglia non have;
tanti cori Amor piglia fere o ancide,
quanto ella o dolce parla o dolce ride.

Sembra Talia se in man prende la cetra,
sembra Minerva se in man prende l'asta;
se l'arco ha in mano, al fianco la faretra,
giurar potrai che sia Diana casta.
Ira dal volto suo trista s'arretra,
e poco, avanti a lei, Superbia basta;
ogni dolce virtù l'è in compagnia,
Biltà la mostra a dito e Leggiadria.

Ell'era assisa sovra la verdura,
allegra, e ghirlandetta avea contesta
di quanti fior creassi mai natura,
de' quai tutta dipinta era sua vesta.
E come prima al gioven puose cura,
alquanto paurosa alzò la testa;
poi colla bianca man ripreso il lembo,
levossi in piè con di fior pieno un grembo.

Non nella selva eravamo, ma nel giardino di un albergo in una notte d’estate.
Non come una ninfa schiva che tema la fiera, ma senza alcuna paura ti volgesti a me con una morbidezza lieve, un velo leggerissimo di grazia e di leggiadria.
Tanto vago era il tuo sorriso che se avessi trovato dentro di me l’ardire di rivolgerti la parola avrei favellato:

"O qual che tu ti sia, vergin sovrana,
o ninfa o dea, ma dea m'assembri certo;
se dea, forse se' tu la mia Diana;
se pur mortal, chi tu sia fammi certo,
ché tua sembianza è fuor di guisa umana;
né so già io qual sia tanto mio merto,
qual dal cel grazia, qual sì amica stella,
ch'io degno sia veder cosa sì bella".

Mentre bramavo di rivolgerti la parola fosti tu (tale era in me la timidezza!), forse lieta, forse pietosa del mio gran martire, a parlarmi per prima. Mai gaiezza fu in me sì lieta! Quando spiran liete le onde sulla riva non fan suono più soave: fu un ristoro sonoro al mio meditare silenzioso e nascosto. Fu come il “dolce color d’oriental zaffiro” di cui parla Dante nel Purgatorio che s’apre all’orizzonte dopo una notte di patimenti, e vedere il tuo sorriso fu come conoscere “il tremolar de la marina”.

Volta la ninfa al suon delle parole,
lampeggiò d'un sì dolce e vago riso,
che i monti avre' fatto ir, restare il sole:
ché ben parve s'aprissi un paradiso.
Poi formò voce fra perle e viole,
tal ch'un marmo per mezzo avre' diviso;
soave, saggia e di dolceza piena,
da innamorar non ch'altri una Sirena:

Indi ti conobbi. Come Dante con Beatrice cercai di schermirmi, per inesperienza del caso, per ignoranza del male, delle sventure, dei patimenti che avrebbero potuto offuscare quella pura gioia, ma soprattutto per paura, per timore di dissolvere nel turbine delle vicende materiali quall’aurea di idealità armoniosa e beata, quell’alone di luce diffusa che circondava la tua figura e il mio sentire.
Dolce e caro era per me il pensare che stavamo leggevamo il medesimo testo. Io così ti contemplavo con gli occhi dell’anima, parlandoti in un linguaggio silenzioso, più nobile e più alto di qualsiasi suono, mentre udivo dalle onde lontane del mare il tuo divino e vicinissimo respiro.
Quando ero in barca con te mi sentivo come in quella fantasia di Dante “Guido, come vorrei che tu Lapo ed io” preso come per incantamento nel mare senza fondo e senza lido dei desideri. “Trasumanar significar per verba non si poria”. La gioia incredula, con la quale il Padre della Lingua Italica udì in Paradiso “io son Beatrice” non ha potuto, sono certo, superare quella ch’io provavo nel raccontarti le storie che la sera mi figuravo e che avrebbero, nel mio ascetico e ingenuo pensiero, dovuto rivelarti l’anima. Ma, come dice Petrarca “quando piace al mondo è breve sogno”.
Continuavo a fingere che i momenti di incontro con te fossero frutto del caso o della cortesia. Schivavo, come mio solito, i ritrovi numerosi, almeno quelli in cui non potevo sfoggiare la capacità e l’ordine del dire, e persi le tante occasioni di rimanere teco. Volli restare fedele fino alla follia al mio costume e persi. Venne il momento della partenza e fu per me come il trascolorare dell’estate, il trapasso di luce dal giorno alla notte:

Poi con occhi più lieti e più ridenti,
tal che 'l ciel tutto asserenò d'intorno,
mosse sovra l'erbetta e passi lenti
con atto d'amorosa grazia adorno.
Feciono e boschi allor dolci lamenti
e gli augelletti a pianger cominciorno;
ma l'erba verde sotto i dolci passi
bianca, gialla, vermiglia e azurra fassi.

Che de' far Iulio? Ahimè, ch'e' pur desidera
seguir sua stella e pur temenza il tiene:
sta come un forsennato, e 'l cor gli assidera,
e gli s'aghiaccia el sangue entro le vene;
sta come un marmo fisso, e pur considera
lei che sen va né pensa di sue pene,
fra sé lodando il dolce andar celeste
e 'l ventilar dell'angelica veste.

E' par che 'l cor del petto se li schianti,
e che del corpo l'alma via si fugga,
e ch'a guisa di brina, al sol davanti,
in pianto tutto si consumi e strugga.
Già si sente esser un degli altri amanti,
e pargli ch'ogni vena Amor li sugga;
or teme di seguirla, or pure agogna,
qui 'l tira Amor, quinci il ritrae vergogna.
La sera prima della tua dipartita capii l’errore.

Avevo sperato di poterTi conquistare con il mio sciocco costume schivo ottocentesco e mi sbagliavo. Avevo pensato che quel ritegno cupo e meditativo, quell’aria un po’ triste e malinconica che mi dipingevo ne gl’occhi celandola con un’apparente spensieratezza e cortesia di modi avrebbe potuto rappresentare una qualche attrattiva per te.
Con quel mio ostentato disinteresse per le faccende mondane che non interessassero la sfera automobilistica, con quel mio ascetismo moderno “suoi generis” speravo di ammantarmi di quel fascino solitario e selvaggio tipico degli eroi dell’Alfieri e del Foscolo.
Con quel mio ascetismo moderno tutto letterario e filosofico, con quel mio fare un po’ sdegnato e altezzoso (tanto simile a quello di Guido Cavalcanti quando, preso in mezzo da un gruppo di coetanei risponde: “i privi di sentimento sono peggio di uomini morti”), con quel mio ostentato disinteresse per le faccende mondane che non riguardassero la sfera automobilistica, speravo di ammantarmi di quel fascino solitario e selvaggio tipico degli eroi tragici dell’Alfieri e del Foscolo.
Ahi quante volte, dopo quella sera tornai con la mente alle mie azioni, ai miei silenzi, ma soprattutto ai tuoi sguardi, ai tuoi assensi e ai tuoi rifiuti, a quel tuo lagrimare sul palco, durante le note della sigla d’addio, nell’ultima notte, che finsi così bene di ignorare.
Rasentai la perfidia quando dissimulai gesti di derisione. Quella sera camminai insino al porto. Mi parla da allora l’anima infelice di Torquato Tasso, le cui rime, nel loro languore infinito, sono le sole parole atte a narrare i tormenti malinconici e le soavi inquietudini di quell’ora.

“Ne l’aria i vaghi spirti,
han l’onde del mar quiete,
ogni fiume è più tacito di Lete;
ima valle, alto monte o verde selva
non ode augello o belva;
sol io con vani accenti
spargo il mio duolo al cielo, a l’onde, a’ venti.”
Come respirava sicuro il mare nelle sue acque odorate! Come luccicava nelle sue onde più lontane!

Calma e placida era la notte, e senza vento. Il luccichìo del paesello giungeva debole da oltre siepe, mentre in lontananza la lanterna del molo rifletteva sull’acqua il suo labile raggio di luce. Taceva il verde fatto cupo dei monti, tacevano le cime degli alberi lontani, tacevano gli orti e i giardini non più baciati da sole, tacevano le ville maestose e solitarie tristemente vuote. Sotto il limpido cielo stellato si potevano udire solo le fioche voce dei fanciulli che con gli occhietti luccicanti dal desiderio pregavano ora l’uno ora l’altro di quei brillanti lassù. Camminavo a capo chino in riva al mare, meditando sull’addio. La risacca marina accompagnava il mio passo, accarezzava il mio sguardo, cullava i miei pensieri, mentre il pallido chiarore della luna piena gli segnava il tragitto.
Il velo del tempo e della nostalgia avrebbe elevato la bellezza della tua figura a meta ideale e perfetta per i moti che puri gli sgorgavano dall’anima. I flutti del torrente in piena dei suoi sentimenti finalmente si placavano sfociando nel mare della perfezione. Dunque, dopo tante battaglie, dilaniato e stremato dai conflitti interiori, mi dilettavo ora a lasciarmi abbandonare a una quiete consolatrice tra le acque non già della mia anima straziata, ma di quella dell’amanza. Che soave melodia udire in quelle onde il respiro di te, ignara nel tuo sonno come il mare lo è dei fiumi che vi riversano ogni ragion d’essere, ogni sforzo, ogni vitalità! E allora perché avresti dovuto sapere ch’io ti faceva affluire tutti i moti dell’anima, tutti i sentimenti più puri, tutti gli atti vitali?
Con il passo segnato da tali domande avevo oltrepassato la zona costeggiata dalle palme del lungomare, avevo lasciato alle spalle le file di ombrelloni fra le quali gli pareva ancora di sentire i quotidiani romorii che avevano accompagnato i miei taciti incontri ed ero ormai giunto al molo. Rimembravo il tempo in cui, supino sullo sdraio accanto al tuo, ti contemplavo senza parlare, senza guardare, solo con gli occhi dell’anima, temendo gli altrui sguardi. Oh come mi palpitava il cuore al solo pensiero che tu, ad onta del mio contegno, avresti potuto accorgertene! E se proprio per questo tu m’avessi rivolto spontaneamente la parola, se proprio per ammirazione di quel mio sentimento così ingeuo, così innocente, così colmo di dignità, così diverso da quello degli altri ragazzi, tu avessi scelto me per ballare, se a me avessi indirizzato sinceri quei gaii sorrisi e ora stesse soffrendo in attesa di un segno d’affetto da parte mia, destinato a non arrivare mai? Mille strali mi colpivano il cuore quando concepivo che il mio dolore interiore poteva suscitarne uno maggiore nella persona a me tanto cara. Mi fermavo, rabbrividendo in quella calda notte d’estate, quasi chinandomi su me stesso a proteggermi il petto, e mi sentiva evaporare lo spirito, anelante di dissolversi nell’aere abruzzese che tu, per l’ultima sera, respiravi. Indeciso se fermarti la dimane prima della partenza e dichiararti come non ti avrei più dimenticata, immaginavo quanto sarebbe stato dolce farmi messe ondeggiante al vento per abbracciarti fino ai ginocchi, farmi aria per parlarti nel profondo non con parola umana e ma con quella brezza tremante di luce là per l’acque deserte, farmi onda per avvolgerti con mano più pura e più carezzevole.

“Taccion i boschi e i fiumi,
e ‘l mar senz’onda giace
ne le spelonche i venti han tregua e pace
e ne la notte bruna
alto silenzio fa la bianca luna:
e noi tegnamo ascose
le dolcezze amorose:
amor non parli o spiri,
sien muti i baci e muti i miei sospiri.”

Come avrei potuto, a quel punto, parlarti apertamente, svelare i più riposti sentimenti, cambiare il comportamento, rischiando anche di ferirti, se avevo paura persino di sederti accanto (ricordi, la prima sera, quando rimase tra noi una sedia vuota?), se trasalivo al minimo contatto materiale (deh, quale rossore interiore quando capitò di sfiorarci con la punta dei piedi in canotto o quando dovetti tangerti con le labbra sulla guancia nel cerimonioso addio), se temevo di dissolvere la soave immagine con il solo sguardo? La natura del mio amore intellettivo era puramente contemplativa, per questo giammai avevo voluto forzare la mano al destino: avevo sempre desiderato che c’incontrassimo naturalmente, come due goccie che scivolano su un medesimo piano. Nulla avevo mai fatto per attrarti a me: se ci eravamo parlati, se ci erano trovati vicini in spiaggia e nel giardino, se ogni volta in sala da pranzo trovo innanzi a me il tuo viso (e da quello, non dal cibo, traevo nutrimento vitale), era solo, così pensavo colmo di giubilìo, per volontà divina.
Sarebbero bastati una parola, un gesto, un cenno a far svanire quella magica atmosfera.
Probabilmente l’amicizia, la cortesia, i sorrisi che tu mi avevi offerto erano frutto del tuo gentile comportamento innato. Forse dedicavi a tutti quella gaiezza, quella gioia di vivere; splendeva per il mondo intero la tua solare bellezza, giammai per me solo, come aveva creduto prima in un soliloquio chimerico. Non solo sarebbe sembrato singolare, assurdo, inopportuno nonchè degno dell’altrui derisione una sorta di dichiarazione d’amore così plateale ed improvvisa, ma mi avrebbe altresì fatto apparire agli occhi tuoi banale come tanti altri spasimanti.
Ammesso per assurdo che anche tu provassi simili sentimenti, ammesso che all’ultimo momento, prima di partire, mi avessi concesso un amoroso segnale, cosa avrebbe a noi riservato, pensavo, la realtà? Una relazione convenzionale avrebbe presentato non pochi problemi: la lontananza, il tempo, gli impegni scolastici. Certo, avremmo potuto mantenere una relazione epistolare, risentire di quando in quando le nostre voci per telefono, ma per quanto tempo? Dopo una lunga annata di studi, di amicizie strette e abbandonate, ti saresti ricordata di me, non mi avresti considerato soltanto una parentesi estiva, come ragione suggeriva? A tratti tali interrogativi parevano pretesti per la mia ignavia, ma d’altronde agire avrebbe significato violare l’incantevole immagine di beatitudine che circondava la tua figura di donna, sconvolgerla inevitabilmente e per sempre con l’impeto dei sentimenti.
Se fosse successo come l’anno prima, come due anni fa, se, dopo un ennesimo anno di affanni, speranzoso di rivedere la meta dei suoi flutti sentimentali, avessi scoperto che non per me gioivano quegli occhi, non me ridevano quei riccioli, non per me aleggiavano le soavi parole, avrei sopportato nuovamente il dolore? Come avrei potuto assistere a veder rivolta ad altri la grazia eletta a ragione di vita?
Se invece, al di là di ogni mia speranza, fra un anno ci fossimo rivisti, memori entrambi l’uno dell’altro, un rapporto reale avrebbe svilito il sentimento, inesorabilmente dissolto quel velo radioso che circondava la tua bellezza. Cosa volevo dunque, affrontare con te le meschinità di questa vita sensibile, abbassarti alle convenzioni umane, cosa volevo, forse, giugnere con le labbra alla polpa soave di il frutto terreno e divino che mi parevi, schiudere in un bacio infinito ogni desiderio di beatitudine? No, Io guardai la luna e ti rividi nella tua forma ideale e perfetta, resa sublime dall’alone luminoso dell’irraggiungibilità. Voleva lasciarti lassù, come m’eri parsa innanzi la prima volta, fasciata dalla tua candida veste. Con quell’angelica visione scolpita nelle pupille dei miei occhi proseguì addentrandosi verso il mare. Guardando ora a destra ora a manca l’impalpabile spumeggiare dei flutti, mi volteggiavano nella mente i ricci capelli del tuo capo greco, leggiadri come la purezza di un’antica età dell’oro in cui l’uomo, alieno da ogni struggimento nel proprio o nell’altrui core, poteva fondersi, in una pace senza fine, con l’inconsapevole eternità della natura. Mentre le calme onde rumoreggiavano sulle scogliere in quei suoni io riudivo il riso bianchissimo della tua bocca, un riso innocente, spontaneo, ignaro di ogni travaglio, un riso soave come il sonno. Compresi da quel suono che tu stavi ancora dormendo beata, e a me, sperduto in quel mare luccicante e solitario, sembrava di ascoltarti da vicino come mai in vita avrei potuto o osato.
Com’eri bella così, “dulce ridente dulce dormiente”, perchè svegliarti?
Il cielo oscuro e misterioso mi ricordava la brillante profondità dei tuoi occhi castani dai quali spesso avevo cercato di carpire uno sguardo. Ma le stelle non rimangono forse immobili nella loro perfetta beltade, splendidamente incuranti dei desideri che a loro si levano dalla terra? E la candida speranza del fanciullino non è essa stessa la vera felicità?
Ero arrivato al termine estremo del molo, oltre v’era solo il mare nella cui risacca riudivo sempre più il tuo respiro. Non rimaneva che tornare indietro, ma la luce dei fari lo impediva.
Piangevo, e non potevo avere felicità maggiore di quel sentimento
All’apparir del vero non volevo sapere se m’avessi amato mai, non volevo sapere se amassi un altro uomo, non volevo sapere se oltre al mio torrente emotivo anche altri fiumi riversassero i propri flutti in quel mare, non volevo sapere se m’avresti dimenticato, desideravo solo prolungare per il resto dei miei giorni quella dolcissima incerta attesa. Lo scioglimento del dubbio che pur tanto mi tormentava avrebbe dissolto, nel bene o nel male, la speranza.
Come aveva ragione il Leopardi quando sosteneva che la poesia è nel vago!
Ora volevo rendere eterna la vigilia poiché sapevo che, anche con il raggiungimento della meta tanto agognata e sofferta, l’intensità emotiva non sarebbe stata più tale, l’atmosfera mai più così carica di sentimento, il volto tuo santo mai più tanto radioso.
Avevo già deciso come comportarmi la dimane: nulla avrei lasciato trapelare dei miei sentimenti, poichè, credevo, che avessi accolto o meno l’amore, saresti in ogni caso divenuta una ragazza, splendida come prima, ma mortale. Ed io non volevo farti scendere dal cielo nè per odiarti nè per baciarti: dove avrei ritrovato, “ubicumque terrarum”, un’altra creatura simile? Tu impersonificavi la forma dei miei moti dell’anima, eri l’ideale di perfezione per cui tanto avevo penato, ancor prima di conoscerti, al tacito morir di ogni giorno d’affano. Ecco cosa cercavo di scorgere all’orizzonte tra quelle arrossate nebbie sfumanti! Andavo ora comparando il rosso di quei tramonti con il fuoco della mia anima che, anelandoti inconsciamente, divampava di silenziosa e ardente passione. Ora, trovata la causa finale di quello struggimento, non volevo rischiare di perderti nei meandri di questa vile esistenza, ma proteggere la tua immagine nel laghetto della mia interiorità, un locus amenus in cui custodirla lietamente e in eterno contemplarla. E in questo lago volevo piangere, tacito e solitario, ammirando la tua immagine nella perfezione del cerchio descritto dalle lacrime cadenti. Per questo non ne avrei fatto parola con nessuno: ti avrebbe risparmiato ogni derisione, t’avrei difesa dalle facili ironie, in te avrei riversato ogni virtù, a te avrei dedicato ogni gesto non vile della mia esistenza, per te sarei stato disposto a soffrire per il resto dei miei giorni, poichè è più degno dell’uomo morire per qualcosa che vivere per niente. Gli anni non sarebbero più bruciati “senza un grido, senza un lamento levato a vincere d’improvviso un giorno”, avevo trovato una ragion d’essere, una creatura degna di dare un nome alle morte stagioni: nel ricordo di te persino l’infinito dolore dell’anima, pensavo, mi sarebbe divenuto assai caro. Quanta sublime letizia in quel pianto liberatore! Quale maggior gaudio potevo desiderare da questa vita? Forse passeggiare con te, giacere con te, vivere con te, quelle banalità materiali destinate a finire con gli uomini e sovente anche prima? Poichè “quanto piace al mondo è breve sogno”, se di te si doveva trattare, meglio soffrire in eterno che gioire per breve tempo. Comprendevo così come l’immagine delle tue forme, cristallizzata nel ricordo e attorniata dalla speranza, sarebbe rimasta immutata nella suo perpetuo splendore. Non è dato all’uomo di essere felice, ma solo di sperarlo o di ricordarlo, m’ero sempre detto; ora però una soavità novella mi si schiudeva dal profondo assieme alle lacrime, più dolce ancora della speranza e della nostalgia armoniosamente fuse. Ecco la vera essenza della felicità, lieve e profonda, impalpabile e granitica, fuggevole e imperitura! Ecco da quel mare luccicante per i faretti del porto e limpido come di pianto intensificarsi il vento che mi accarezzava, mi avvolgeva, mi trasportava. Non importava che con esso fuggisse anche il soffio vitale dei desideri, delle aspirazioni, della giovinezza: ora, a quella “balaustrata di brezza”, ero finalmente appoggiato anch’io.
Promisi a me stesso che quegli occhi ora colmi di lacrime sarebbero stati solo per te: le altre bellezze avrebbero ferito quell’anima a cui era stato concesso di vedere la propria beatitudine fatta sensibile. Proprio dalla tensione emotiva di quel breve istante si riformava nel dolce soffrire la tua immagine: ma se tanta soavità fosse dipesa solo dal piacer figlio d’affanno, ovvero dai sentimenti che io provavo prima di incontrarti, se si fosse perciò dissolta assieme ad essi? Sarebbe caduta con le prime foglie d’autunno?
Così ragionavo.
Da quella sera tu diventasti l’Eccelsa, l’effigie benedetta attraverso la quale tornare a vivere nella vita reale, a immischiarsi con l’anima nelle umane vicende
Attraverso di te anche le banalità più impoetiche di questa vita mi parvero pregne di una dolcezza non mai provata, e mi sforzai di attingere alle più nobili virtù degli umanisti per sentirmi degno d’esser uomo per te.
Studiai non più soltanto per il voto, ma soprattutto per forgiare un pensiero virile, per trarre dall’antiqua vera docta religio il germe della Sapienza. Ho dibattuto con Guinizelli come “al cor gentil rempaira sempre amore”, ho inveito con Dante (“Ah, serva Italia di dolore ostello, nave sanza nocchier in gran tempesta non donna di province ma bordello”) nei pomeriggi di studio, ho esclamato con Cavalcanti “Chi è questa che ven ch’ognom la mira”, ho pianto con Petrarca “i capei d’or a l’aura sparsi”, ho vagheggiato con Poliziano la figura di Simonetta, simbolo lieve e fuggevole della primavera, ho discusso col Bembo sull’essenza dell’amor platonico, ho pensato con Machiavelli al superiore interesse dello stato nei confronti del moralismo de’ singoli e de’ preti (“poiché a ciascuno puzza questo barbaro dominio”), mi sono lasciato cullare dal languore delle rime del Tasso, ho elogiato con Marino le grazie delle dame, ho sospirato con Metastasio “dolce memoria al mio pensier sarai”, ho deriso con Parini la stolta superbia de’ nobili di sangue, mi sono sdegnato con Alfieri, le cui ossa “fremono ancora amor di patria”, ho rievocato con Foscolo “l’aurea beltà ond’ebber ristoro unico a’ mali le nate a vaneggiar menti mortali”, ho celebrato con Carducci le tradizioni romane e classiche della patria, ho auscultato con Pascoli la parola arcana della natura, ho vissuto con D’Annunzio il trapasso dell’Estate nella figura eterea e impalpabile, eppure divina, di Ermione. Capii, come dice Seneca, che nonostante la brevità della vita, si può vivere molto e a lungo, poiché attraverso la scrittura “nullo nobis saeculo interdictum est: Disputare cum Socrate licet, dubitare cum Carneade, cum Epicuro quiescere, hominis naturam cum Stoicis vincere, cum Cynicis excedere”. Persino le versioni di latino, fino ad allora teatro di travagli e meschine rivalità con i compagni, mi parlarono con voce più franca e più umana.
Più belle mi parvero le sfide sportive, e persino più avvincenti i gran premi, che già mi piacquer tanto, più nobile la mia “battaglia” scolastica, perché pensavo a te.
Accettando l’etica della rinuncia trovai la mia riconciliazione con la vita.
Sembra una contraddizione e non lo è.
Presi a curare assieme all’anima anche il fisico, per avvicinarmi a te nella mia completezza, in una visione perfettamente classica all’insegna del motto “mens sana in corpore sano”, in una costante tensione verso un ideale di uomo rinascimentale e modernamente dannunziano.
Dall’apprezzamento dei classici e dalla lettura dei romanzi dannunziani provo da allora di trarre quell’amore, ereditato direttamente dagli Antichi, per la magnanimità e la grandezza, quella tensione, espressa nel “Trionfo della Morte”, verso l’assoluto della melodia, quel desiderio insopprimibile di lotta e di sfida, di velocità e ardimento magnificato in “Forse che sì forse che no”, e soprattutto, come Andrea Sperelli, quel senso dell’unicità e dell’eccellenza, quel gusto estetizzante per la romanza e il sonetto, quel culto della forma che ricopre ogni aspetto della vita di un’aurea di idealità artistica.
Ricordi quando ti risposi di non scrivere poesie?
Intendevo disprezzare quella turba di ragazzi che danno uno sfogo qualsiasi ai propri sentimenti e lo chiamano poesia, tributando magari lodi alle “dissonanze”, alle rime “aspre e chiocce” di Montale, alla dissoluzione della forma di certi autori barbarici.

Non solo al personaggio di Andrea Sperelli ho cercato di avvicinarmi, ma anche a quello di Paolo Tarsis. Ho iniziato ad allenarmi seriamente per diventare un pilota, ho disputato qualche gara per rivivere nella competizione quell’ardimento temerario che segna la storia del protagonista di “Forse che sì forse che no”.
Soprattutto, dal temperamento Dannunziano ho tratto il desiderio di donare, la coscienza che la vera ricchezza risiede nel regalare alle amanti, agli amici, ai posteri. Tutto ciò che di bello pare al mondo, l’Arte, l’amore e la gloria, può essere soltanto donato, non posseduto o guadagnato. La grandezza e, oserei dire, l’intima essenza di un Uomo risiedono nell’eredità di affetti e nell’opera ch’egli ha lasciato al mondo: “Io ho quel che ho donato”.
Per questo ricerco una Donna nella quale la naturale sensualità, diffondendosi a ogni atto del pensiero, a ogni movenza lieve, a ogni scelta dei vocaboli, dei balsami e dei vestiti si elevi alla sfera dei sentimenti, pervada l’intima essenza del suo essere, l’intera dimensione estetica e vitalistica, fino a divenire Voluttà. In Lei la ricerca del Piacere in ogni singolo atto deve affinare il gusto verso lo stile puro e rarefatto del Petrarca (“quanto piace al mondo è breve sogno”), verso quello gentile ed elegantissimo del Poliziano costellato di ninfe e di simboli viventi della primavera e della giovinezza fuggevole, verso quello armonioso e leggiadro dell’Arcadia disseminata di veneri e amorini, verso quello musicale e vario, pieno di chimere e di allusioni di D’Annunzio.

Quella Donna non puoi essere che tu.
Nivale nella tua veste breve, alta nelle tue forme elise mi sei apparsa pura come un’effigie benedetta elevata sull’altare e soave come la polpa dischiusa dei frutti terreni: un segno di comunione tra la natura e lo spirito, una riconciliazione definitiva tra corpo e anima.

“L’alta bellezza tua è tanto nova” (Sennuccio Salimbene): questo antico verso mi riconduce all’altezza dell’immagine tua quale io la vidi effigiata nella luna, ne la notte in cui per me “incipit vita nova”.
Simile era la mia felicità per i brevi momenti trascorsi accanto a te alla giovinezza, mia e del mondo: il senso di caducità la rendeva straordinariamente intensa, come mai nulla di immortale può essere. Il respiro del mare mi asciugò le lacrime. Io mi sentii di nuovo palpitante di vita e cominciando a marciare con passo svelto verso riva sentii una bellezza sorgente non dall’immutabilità del proprio essere, non dall’essenza stessa della persona, non dall’immortalità dell’anima, ma soltanto da un sottile raggio di luce, da una lieve folata di vento, dallo spumeggiare di un rivoletto sorto dopo la pioggerella di maggio e destinato a svanire. Ma se proprio per questo era inesorabilmente soggetta alla corruzione della morte, all’aridità del tempo, cosa rimane dunque all’uomo di tanta beltade? Cosa rimane (come disse il poeta) delle nevi dell’anno prima? Nulla, solo il ricordo. Ma potevano morire quei riccioli, potevano morire quegli occhi, potevano morire quelle labbra che risuanavano nella sua mente dolci parole? Ecco quindi che anche “morte bella parea in suo bel viso”. E rimangono almeno i ricordi di ciò che per lei aveva immaginato, rimangono i pensieri che quei riccioli, quegli occhi, quelle labbra avevano suscitato, o sono destinati a svanire malinconicamente come quell’aria densa di salsedine? Mi sovvenivano allora sì dolci e care le parole di quell’umanista, tale Cristoforo Landini: “le azioni finiscono con gli uomini, i pensieri, vincendo ogni secolo, vivono immortali e s’innalzano all’eterno”.
Se quanto piace al mondo è breve sogno, se tutte le gioie e le speranze sono destinate a dileguarsi come neve al sole (cosa rimane, disse il vate, delle nevi dell’anno prima?), se il tempo passa e non s’arresta ognora, se la stessa rosa che sboccia oggi domani appassirà, allora , “erigere un tempio, far vivere un marmo, comporre un immortale inno” immortalare la bellezza di una Donna, deificarla nell’opera eterna, sublimarla nella più perfetta delle forme sono gesta degne di una dimensione più che umana. Io non appartengo certo a quella ideal razza inimitabile di oltre-uomini in grado, come Fidia, Petrarca, Poliziano, Ariosto, Tasso, Metastasio, Canova, di fissare forme eterne nel marmo e nelle parole.
Se della mia vita potessi salvare solo un’ora certo preserverei dall’oblio la notte chiara in cui tanto pensai a te. Se Monna Morte concedesse ai miei occhi rivolti alla fuggente luce un sol minuto pria di non veder più “questa bella famiglia d’erbe e di animali” certamente sceglierei di rivivere teco “quella favola bella che ieri m’illuse che oggi t’illude”: se mi restasse a quel punto di vita un sol minuto lo vivrei per un’eternità. Da quella notte infatti non sono più solo: ti rivedo continuamente nel chiarore della luna, risento il tuo riso nel soave scrosciar di ogni ruscello di montagna, riodo il tuo respiro in ogni risacca marina, riammiro i tuoi occhi in ogni cielo stellato, accarezzo i tuoi riccioli in ogni spumeggiante cascata, poichè tu sei rimasta “dolce ne la memoria” la mia amata immortale.

VIVAS VALEAS FLOREAS

ETERNAMENTE TUO, F.

Ovviamente, la lunghezza di questa immaginaria missiva protrasse il suo concepimento ben oltre il mese, fino ad oltre l’inizio del Mondiale di F1, addirittura alla vigilia del GP della Malesia, seconda gara di quell’anno. Quando avevo conosciuto Elisa, le Williams stavano dominando il mondiale con i motori Renault e i piloti Damon Hill e Jacques Villeneuve (il suo primo sorriso, difatti, rallegrò la triste domenica del mio compleanno in cui avevo ricevuto in regalo dalla sorte la rottura del motore di Schumacher – che partiva dalla pole - nel giro di ricognizione). Dopo una fase di appannamento, le vetture di Patron Frank stavano proprio in quell’anno per tornare sulla creste dell’onda, grazie ai motori BMW e al talento di due piloti perfettamente complementari fra loro come Juan Pablo Montoya e Ralf Schumacher. Proprio il fratellino di Schumy, nelle qualifiche malesi, stupì il mondo lottando (per la prima volta) per la pole (fino all’anno prima la Williams era una vettura valida ma non da prima fila). Anche i colori erano tornati simili a quelli di cinque anni prima: la sponsorizzazione tedesca “Allianz” prevedeva un elegantissimo bianco-blu molto simile cromaticamente a quello delle gloriose sponsorizzazioni “Rothmans”.

Accesi la televisione proprio nel momento in cui, alla penultima curva dell’ultimo tentativo (all’epoca non vi erano i segmenti odierni denominati Q1, Q2 e Q3, che regolano e scaglionano lo spettacolo e le esclusioni, ma ci si giocava il tutto per tutto all’ultimo secondo utile prima della bandiera a scacchi), Ralf arrivava lungo e, bloccando le ruote, mandava in fumo una possibile, clamorosissima, pole position.

Ancora più clamoroso era il fatto che io avessi perso quasi tutta la sessione. Cosa era successo? Semplicemente, avevo fino a tarda notte provato a terminare quanto avete appena letto e, non riuscendoci per la spossatezza, lo avevo rifinito di mattina. Poiché però il labor limae porta via ancora più tempo delle prima smazzate sul marmo, avevo sforato l’orario solito della colazione e, quindi, l’inizio delle qualifiche tenendo conto del fuso orario con la terra di Sandokan. Non mi era mai capitato (né mai sarebbe capitato in seguito) di lasciarmi sfuggire inconsapevolmente l’orario di una “funzione comandata” come la qualifica di un gran premio. Questo, più di ogni altra parola scritte, testimonia la sincerità degli affetti a cui tutte le figure retoriche fungono da ornamento.
Come però un vedovo che, parlando sulla tomba dell’amata sposa, si senta dopo tanti anni sciolto dall’obbligo di fedeltà post-mortem proprio dal dialogo immaginario, così io sentii, dopo un lustro, di aver ricevuto il “permesso” di cercare nel mondo qualcuna nelle cui sembianze, nei cui modi, nel cui nome, poter avere almeno l’illusione di prolungare il rapporto con la mia amata.
La frequenza del corso di ingegneria, all’epoca ambiente quasi monacale per scarsità di fanciulle e severità di costumi (nel senso che, essendo severi i professori agli esami, le aule erano popolate da aspiranti ingegneri disposti a “sospendere” fra cielo e terra la propria vita in favore dello slancio ascetico verso il sapere scientifico) non mi agevolava certo nella ricerca di una “quasi sostituta”.
Il caso volle però pormi come compagna di banco una fanciulla originaria di San Marino, di un anno maggiore di me, di qualche centimetro superiore a me per altezza e anch’essa, come la mia Elisa, giocatrice di pallavolo.

Non aveva per la verità il fisico atletico e le gambe da modella della mia amata, ma nel grigiore di ingegneria spiccava comunque, se non altro per gentilezza di viso e slancio di figura. Era vagamente bionda (probabilmente tinta e quindi originariamente castana) e, oltre a tutte le somiglianze fisiche e anagrafiche elencate, si chiamava proprio Elisa.
Decisi di fare un tentativo con lei, esattamente come Dante fece con la “donna dello schermo”. La mia fama di “imbattibilità” negli esami più “tosti” mi facilitava il compito di “agganciarla”. Poiché neanche ricordo come avvenne, probabilmente non deve essermi costato troppa fatica. Anzi, forse fu lei ad agganciare me. Sta di fatto che, per un anno e più, fu usuale per me svolgere esercizi di analisi o di fisica a casa sua, dandole modo di apprendere spiegazioni che in aula non venivano date con altrettanto puntiglio (all’epoca molto veniva dato per acquisito dagli insegnanti). Inframezzavo alle spiegazioni degli esercizi qualche moderato complimento sulla sua avvenenza (non dovevo esagerare per non cadere nell’iperbole, dato che neppure ella si sentiva il paradigma della bellezza femminile) e, soprattutto, sull’interesse che doveva suscitare in un mondo così maschile. Scherzando, dicevo che doveva avere il cellulare intasato di chiamate di ammiratori, come colei che “benigna sen va sentendosi laudare” - “Non mi chiama mai nessuno” disse invece con la boccuccia delusa e quasi supplicante (come volesse fossi io a chiamarla), dopo che avevo fatto cenno alla cosa all’arrivo di un sms sul suo cellulare. Una volte, mentre stavamo studiando, entrò sua madre ed io, per recitare da bravo ragazzo, anche se non mi aveva visto, la salutai con un educatissimo (e per me insolito, amando io poco i convenevoli) “buona sera, signora”.

Più difficile era invece trattare con le amiche bruttine e femministizzate che la circondavano. Allora come ora mi rifiutavo di essere “politically correct” e non trattenevo la verità quando dovevo rispondere a fandonie come i paragoni fra la bellezza femminile e maschile e la presunta uguaglianza nei due sessi di fattori come l’età o l’attrazione sessuale.

“Devi goderti la vita ora, a vent’anni, a trenta è tutto finito” mi diceva accaloratamente. Ed io rispondevo “finito per voi, che ve la potete godere ora, per noi, semmai inizia, perché allora inizierò ad avere soldi e potere, se riesco a laurearmi bene e a trovare un lavoro conseguente!”
“Un po’ maschilista” commentò la sua inseparabile compagna piccola, scura e panciuta proprio come una melanzana. Già da allora era uso appellare “maschilismo” il rifiuto di un uomo a piegarsi alla propaganda pseudoegalitaria femminista quando questa cozza contro ogni natura, ogni istinto ed ogni ragione.
E pure, dico, ogni giustizia. Sì, persino nella crudele natura c'è un grammo di giustizia! Chi non ha avuto privilegi nella prima parte della vita ha compensazioni nella seconda. E a chi, nella prima parte ha potuto, per privilegio di natura (accresciuto dalla cultura cavalleresca) permettersi di tutto davanti al sesso opposto, la natura chiede il conto.
Quando si hanno meno dei vent'anni non si hanno nè poteri nè ricchezze da contrapporre alla bellezza che già fiorisce sulle coetanee e quindi al di là di ogni nascondimento (dettato da delicatezza o ipocrisia) si può soltanto essere ammiratori dal basso all'alto, uomini episodici (quando va bene) o ammaliati perennemente illusi e frustrati (quando va male), comunque socialmente trasparenti, cavalieri serventi pronti a tutto per un sorriso, ma più frequentemente mendicanti alla corte dei miracoli pronti a tutto per un sorriso (nella speranza di qualche briciola di carità amorosa), giullari di cui ridere e a cui irridere nel disio,, o attori da porre in ridicolo innanzi a sè e agli altri quando recitano male la parte dei seduttori
Se e quando con il tempo, lo studio, il lavoro, la fatica, l'impegno, la fortuna o il merito individuali si ha avuto modo di raggiungere una certa posizione di preminenza o prestigio nella società le cose cambiano. E' in genere dopo i quaranta anni che ciò accade (quando accade).
Solo allora, infatti, si possono aver conquistato quelle doti immediatamente apprezzabili e oggettivamente valide al pari della bellezza con le quali essere universalmente mirati, amorosamente disiati e socialmente accettati a priori, a prescindere dalle soggettività, e al primo sguardo, così come le belle donne lo sono per le grazie corporali.

Nonostante questi battibecchi, il nostro rapporto proseguiva settimana dopo settimana (anche durante le lezioni, non ci si vedeva tutti i giorni, perché, anche se sugli esami più importanti l’Elisa sanmarinese frequentava le mie stesse lezioni, essendo in ciò quasi una “fuoricorso”, per gli altri seguiva i corsi del suo anno) con una simpatia reciproca non affettata e difficile da sperimentare in luoghi ove lo sbilanciamento numerico fra i sessi è così forte da rendere le femmine “preziose” come acqua nel deserto.

Una volta, in pieno inverno, uscendo dal solito cancello, rischiai di cadere su una placca di ghiaccio proprio mentre inizia la lunga discesa che dall’ingresso della facoltà solitaria, tranquilla ed immersa nel verde in posizione elevata come si conviene al sapere, porta al semaforo giù sui viali trafficati. D’istinto, mi aggrappai a lei, che, come un “bastone della giovinezza” mi permise di non perdere l’equilibrio. “Visto, che anche io ti servo a qualcosa!?” – commentò con dolce soddisfazione probabilmente riferendosi a tutte le volte in cui ero stato io, nelle cose dello studio, ad impedirle di cadere a terra nella disperazione.

Salimmo sulla mia elegante e sbarazzina Panda 1000S verde metallizzato e ci immettemmo nel flusso denso di veicoli. “No, dai, se mi offri anche il pranzo mi fai sentire una merda” – mi disse Elisa – “vieni a mangiare da noi, te lo offro io, siamo fra ragazze, se ti accontenti, qualcosa di discreto sappiamo sempre preparare”.
Accettai quindi tale profferta (in quanto, per una volta, vagamente antifemminista). Il traffico dei viali era intasato dalla pioggia al punto tale che uno stesso semaforo richiedeva spesso due “turni” di attesa col rosso e solo con notevole ritardo l’incrocio veniva sgomberato dai veicoli attraversati col verde, ma poi bloccati nel mezzo del crocevia dalla coda precedente. Nonostante questo, la fretta dell’ora di pranzo (avevamo appena finito le lezioni che quel giorno occupavano fortunatamente solo mezza giornata) faceva viaggiare fra un semaforo e l’altro le vetture, fianco a fianco, a non meno della velocità massima concessa dal codice in centro abitato. Una signora alla guida di un’utilitaria, evidentemente stanca di aspettare di poter attraversare i viali dopo l’ennesimo “turno” di verde andato a vuoto, accennò ad immettersi. Mi vide sopraggiungere e fece per fermarsi. Poi, inspiegabilmente e come se niente fosse, avanzò fino ad occupare tutta la mia corsia. Vie di fuga non e ne erano: a sinistra vi era l’aiuola spartitraffico, a destra il possibile flusso di altre vettura (senza contare che, se quell’auto avesse attraversato, sterzare a destra avrebbe solo spostato il luogo della collisione).
All’epoca la mia auspicata carriera da pilota (seppur pagante) era di fatto già sfumata. Dopo i difficili inizi col “formulino” Ford, un paio di gare turismo e, soprattutto, un paio di decine di milioni di danni in test molto sfortunati, avevo già terminato ogni budget presente e futuro. L’occhio, però, era ancora quello allenato alla reazione fulminea, ma pacata e precisa. Facendo appello quindi all’abs “naturale” che all’epoca avevo nel piede (le generazioni odierne, nate e cresciute non solo con l’antibloccaggio dei freni, ma pure con i vari controlli di stabilità, non sapranno mai il significato di quel genere di simbiosi con l’auto e l’asfalto), modulai la frenata al limite del bloccaggio (sempre in agguato su un asfalto bagnato così liscio e così poco drenante), senza esagerare nei primi istanti (se si eccede con la pressione sul pedale prima che possa avvenire il trasferimento di carico sull’anteriore, questo si blocca subito), massimizzando gradualmente ma con decisione (una volta sentito “carico” l’avantreno) e rilasciando parzialmente ad ogni accenno di bloccaggio, fino ad arrestarmi a pochi centimetri dalla portiera dell’incauta signora. “Che bravo! Io l’avrei centrata”. La mia risposta fu senza parole: mi limitai a fare all’altra guidatrice un teatrale segno di “prego, si accomodi”. Non dissi ad Elisa che anche io, fino a qualche istante prima, ero quasi sicuro di “centrarla”.
Mi tenni il segreto per guadagnare “punti-prestigio” agli occhi della mia compagna di corso.

Arrivati sani e salvi nel suo appartamento (che condivideva con un paio di altre studentesse), fui “coccolato” per tutto il pasto (nel senso che mi pareva di essere tornato bambino quando, di straforo, finivo per mangiare “quello che c’era” a casa delle zie, le quali, comunque, premettendo l’imprevisto, facevano di tutto per accontentare qualunque piccola voglia culinaria). Non ricordo quello che venne preparto per pranzo, ma sicuramente devono essere state ottime pietanze giacché, in caso contrario, me ne sarei ricordato per le difficoltà di digestione durante le successive lunghe ore di studio. Gli esercizi di matematica e fisica scorrevano così veloci che senza accorgermene le grigie luci della giornata uggiosa avevano ormai fatto posto alle prime ore della sera.

Fu in uno di quei momenti, a casa sua, in uno di quei casuali pomeriggio di studio assieme, che si decise l’esito del mio “tentativo” con l’Elisa “dello schermo”. Dopo l’ennesima soluzione che a me pareva ovvia e a lei incomprensibile, la vidi sbuffare e dare vita con gli occhi ad un’espressione di indifesa sincerità e al contempo di indefinita bellezza. Uscendo dalle mie consuete parti di “compagno secchione” per entrare goffamente in quelle di “pretendente”, esclamai, con voce di adorante indifeso: “sei bella”. Per risposta, la mia “donna dello schermo” sprofondò il viso ridendo. Non era però, la sua, né una risata di scherno nei miei confronti, né di autoironia nei propri. Pareva proprio un riso sincero, anche se irrefrenabile quasi come quello di Angelica alla battuta di Tancredi nel Gattopardo. Si dice che il rido uccida la paura. In quel caso, invece, uccise ogni ulteriore tentativo “amoroso”. Forse ella aveva concepito il mio approccio come nient’affatto credibile o forse aveva capito di essere solo la “donna dello schermo” (anche se, di problemi di cuore, non ne avevo mai parlato). Fatto sta che aveva ragione: all’epoca le “qualità di guida” e quelle di studio non erano affatto le uniche a mia disposizione. Anche se non la usavo per venire all’Università, la mia BMW berlina sportiveggiante nuova era conosciuta per fama nell’ambiente e le mie “capacità di spesa” erano altrettanto note. Proprio quell’anno, ad esempio, pianificavo, alla fine degli esami del primo ciclo, di passare una settimana alle Canarie. “Che fortuna, vai alle Canarie!” mi aveva detto ella stessa.

D’altronde, all’epoca, se non altro per amicizia con il giovane titolare del negozio (non mio coetaneo per pochi decisivi anni di più) di fianco a casa mia, con il quale era in corso un gioco letterario sul “dandismo di destra” (gli avevo prestato la mia copia del “Ritratto di Dorian Gray” e tutte le volte in cui c’era da scegliere un vestito per me ci chiedevamo “ma Sir Henry cosa avrebbe scelto? E soprattutto cosa avrebbe detto?”) ero solito scialacquare denaro in vestiti firmati (quasi sempre Armani) alla moda (in attesa di chissà quale “occasione” mondana e amorosa), che a volte portavo anche in aula, sicché non era difficile individuarmi anche solo ad una prima superficiale occhiata come “un buon partito”. Eppure, mi ritrovavo ad esternare queste debolezze da sfigato disiante, come se mi volessi per forza accontentare. Le donne che più o meno intensamente desideriamo sono a volte stronze, ma mai stupide. In quel caso, l’Elisa mia compagna di corso ebbe l’intelligenza di capire come il mio interesse nei suoi confronti fosse “di schermo” a ben altro amore o, comunque, di rendersi conto di essere apprezzata in quanto “unica forma femminile vagamente in grado di suscitare un sia pur minimo palpito di desiderio”, e non in quanto “l’unica” intesa come “l’eccelsa”, “colei che non ha l’eguale” (come avrebbe detto il nostro comunemente amato D’Annunzio). Forse percepì esattamente quanto mi “sforzassi” di desiderarla. Anche se quando ero con lei a volte il trasporto era sincero (soprattutto quando vedevo la vetta della sua figura leggermente più in alto di me o quando percepivo il suo stile di vita, fra studio e pallavolo, nella mia immaginazione simile a quello della mia “vera” Elisa), spesso, lontano, mi chiedevo: “ma perché non c’è niente di meglio di lei? Perché mi devo accontentare?”

Serva questo di lezione a tutti i razionalisti che, dietro la scia di un’improvvida esternazione del premio Nobel Nash (padre della teoria dei giochi), pensano che “abbassare le pretese” sia un metodo efficace per “andare a segno”. Ciò è invece doppiamente sbagliato: in caso di esito positivo, non si ha comunque colei che sola potrebbe appagare il nostro bisogno estetico e ci si trova daccapo (frustrati e bisognosi, si continua a percepire quindi la mancanza di bellezza e a chiedersi “perché le belle non possono toccare in sorte a me?”, finendo poi per doverci voltare a guardare tutte le “sventole” che passano per strada sospirando “capitano solo agli altri!”); in caso di esito negativo, la colpa è solo nostra, in quanto a nessuna donna sfugge la “rabbia” del nostro istinto per l’incolmabile distanza fra il sogno di bellezza e la forma reale che il nostro “accontentarci” ci ha posto accanto (assieme ai medesimi sacrifici ed alle medesime limitazioni che ogni fidanzata, dalla più bella miss universo alla più brutta delle anonime lavapiatti di Calcutta, egualmente – e comprensibilmente, trattandosi di amore - impone e pretende).
Insomma, la media pesata probabilistica della scelta “al ribasso” è sempre negativa: è vero che “accontentandosi” le probabilità di riuscita aumentano, ma, almeno nel mio caso, il risultato condizionato al successo è “negativo” (rabbia per dover ammettere di non essere fra gli “eccellenti” che si accompagnano alle belle donne, frustrazione per non poter godere di quella bellezza di cui il mio animo ha da sempre sentito profondo bisogno, spesso espresso in versi e sublimato in studio), tanto quanto quello condizionato all’insuccesso.

Qualche tempo dopo vidi la mia compagna di corso accompagnata dal suo “fidanzato”: un ragazzo bruno e simpatico, ancora più basso di me. La cosa rincuorò me, che dai tempi del liceo sentivo di “non essere all’altezza”, già nel senso letterale dell’espressione, delle ragazze alte e slanciate da cui ero attratto. Era chiaramente un tipo sveglio, anche se, probabilmente, non al mio livello d’intelletto (fra gli “eccellenti” all’epoca in corsa per il primato nei corsi dell’ingegneria dell’informazione ci si conosceva più o meno tutti ed egli non era nel “giro”). Fui sicuro che ebbe successo perché non dovette accontentarsi, ma vide in quell’Elisa che per me era “donna dello schermo” qualcosa, credo, di simile a quanto per me era l’Elisa conosciuta a Giulianova, ovvero il massimo a cui potesse aspirare.

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Boh amico bez, ti mancava l’intuizione che davi troppa importanza alla vista, la bellezza è una scala maggiore, bella fino alla noia,

Adesso ritrarre le Elise qui conforta la convinzione che tanto spetti a quelle disgraziate collezioniste di testicoli, altrettanto farebbe ritrarre volti in panda su una tela ed appenderla in una latrina autostradale: avrebbero vista a tanti membri, quanti ne spetterebbero secondo bez

Idea bez, ritrai Elisa ed acquarello, metti il tutto nel bagno di una discoteca e scrivi “performance artistica in corso, si prega di piscarci sopra”. Non è male come concetto e se lo declini nel modo giusto puoi entrare nel mondo degli artisti early 40 e scopare qualche figlia del 2001, giusto per festeggiare la ricorrenza

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È straordinario come il nostro amico abbia letto e ritenuto l'intera letteratura italiana e probabilmente mondiale senza giungere neppure alle soglie della modernità. Fosse arrivato almeno alle prime pagine dei Promessi Sposi - non dico alle Note Azzurre di Carlo Dossi - si sarebbe accorto di scrivere come l'Ignoto secentista sbeffeggiato da Manzoni. Piaccia o meno, la lingua è andata avanti con le idee e, grazie a Ezra Pound, abbiamo definitivamente appreso e accettato che "Beauty is difficult" per gli artisti - figuriamoci per noi.

E il lenzuolo si gonfia sul cavo dell'onda 
E la lotta si fa scivolosa e profonda

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@Tesista76 said:
Boh amico bez, ti mancava l’intuizione che davi troppa importanza alla vista, la bellezza è una scala maggiore, bella fino alla noia,

La bellezza, per me, è tutto.

"O Poeta, divina è la parola, ne la pura bellezza il ciel ripuosa ogni nostra letizia/ E il verso è tutto

Non sono versi scritti ovviamente da me, ma paiono esserlo per me. Come mi alzo alle 3 per cogliere la bellezza della montagna che richiede tempismo, così sarei disposto a rinunciare a tutto il resto pur di cogliere in una donna terrestre la bellezza celeste.

Un proverbio arabo sostiene come "falso sia l'interiore che non corrisponde all'esteriore".

Se non interpreta il mio sogno estetico ella non può ricoprire quella funzione di cui abbisogno e per cui la desidero in quanto donna. Quindi accontentandomi non risolvo nulla e dovrei comunque cercare altrove il soddisfacimento del mio bisogno di bellezza. E allora a cosa serve la donna non bella? Serviva (magari, ma non bastava) quando cucinava e faceva da mamma. Adesso tanto vale stare soli aspettando.

Del resto, ho pure precisato in chiosa che accontentarsi non paga. Mi dispiace, ma su questo il fondatore della teoria dei giochi ha clamorosamente toppato. Non ha considerato il valore negativo del dover stare assieme ad una donna che, non rappresentando il nostro sogno estetico, ci farà sempre girare la testa verso le bellezze passanti. E pretenderà pure le stesse attenzioni e gli stessi servigi di miss mondo (in Italia).

Come si fa a corteggiare, a trascorrere tempo, a dedicare attenzioni se l’interessata non è, almeno in quel momento, il nostro sogno estetico, se tutte le volte che siamo con lei vorremmo essere con un’altra, se tutte le volte che passa una bellezza dobbiamo sospirare, guardarla, guardare il cielo e poi abbassare gli occhi alla nostra compagna dicendo: "mi sono dovuto accontentare"? E’ questo "l’amore"?

Adesso ritrarre le Elise qui conforta la convinzione che tanto spetti a quelle disgraziate collezioniste di testicoli, altrettanto farebbe ritrarre volti in panda su una tela ed appenderla in una latrina autostradale: avrebbero vista a tanti membri, quanti ne spetterebbero secondo bez

Ragazzi, passi prendiate in giro quanto il volgo vile chiama “amore” (l’ho fatto anch’io, forte dell’insegnamento del nostro Schopenhauer sull’inganno dato dalla Natura all’uomo per propagarne la specie). Che però vi facciate beffa di quanto la ideale comunità dei dotti di ogni epoca, ed in particolar modo il Cardinal Bembo, il buon Ariosto ed il sommo Poliziano, ha scorto ed eternato come “bellezza” non è accettabile.
Se non ti conoscessi per la profonda umanità e la schietta intelligenza di molti altri tuoi interventi, questo commento varrebbe a farmi rivalutare le femministe misandriche: paragonare una “amata immortale” ad un bidet sulla base dei cazzi visti potrebbe quasi giustificare la definizione di uomo-medio come “ammasso di ormoni” incapace di sentimento.

Idea bez, ritrai Elisa ed acquarello, metti il tutto nel bagno di una discoteca e scrivi “performance artistica in corso, si prega di piscarci sopra”. Non è male come concetto e se lo declini nel modo giusto puoi entrare nel mondo degli artisti early 40 e scopare qualche figlia del 2001, giusto per festeggiare la ricorrenza

Sapessi quante volte ho pensato che se, cinque anni dopo averla persa di vista, avessi reincontrato Elisa convincendola con questa lettera a copulare, ora avrei una figlia maggiorenne! Ancora più sconcertante è pensare a come la figlia che ella potrebbe aver avuto copulando con un altro potrebbe, incontrata oggi, suscitarmi gli stessi desideri della madre.
Per la prima volta mi avete fatto sentire un vecchio puttaniere! Devo proprio rifugiarmi nella scrittura per sopravvivere.

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@marko_kraljevic said:
È straordinario come il nostro amico abbia letto e ritenuto l'intera letteratura italiana e probabilmente mondiale senza giungere neppure alle soglie della modernità. Fosse arrivato almeno alle prime pagine dei Promessi Sposi - non dico alle Note Azzurre di Carlo Dossi - si sarebbe accorto di scrivere come l'Ignoto secentista sbeffeggiato da Manzoni.

Manzoni chi? Il piccolo aristocratico milanese nato da un adulterio della madre, cresciuto e vissuto fra imbonimenti illuministi ed infine sbeffeggiato (a ragione) secoli dopo dal personaggio di Silvio Orlando nel film sulla scuola (“della letteratura italiana dell’Ottocento si salva solo Leopardi: mentre Manzoni scrive e riscrive i Promessi Sposi, Tolstoj infila quattro capolavori di fila”)?
Quello che ha pensato di scrivere un romanzo sul Seicento senza fare i conti coi gesuiti (che infestano ancora oggi la “cultura”, a iniziare dall’usurpatore terzomondista del trono di Pietro)? Quello che è considerato fra i “grandi” della nostra letteratura per meriti politici (adesione acritica alla retorica risorgimentale) più che letterari? Quello che divide con il “bandista di Parma” (Giuseppe Verdi) il primato della sopravvalutazione delle proprie opere rispetto a contemporanei molto più talentuosi ma molto meno politicizzati?
Dovrebbe fregarmene qualcosa del giudizio suo o di chi per lui? Rispondo come avrei risposto ai suoi frati questuanti: “già dato”. Mi basta aver dovuto scriverci commenti e schede del libro alle medie ed al liceo.
Io scrivo per “la ideale comunità dei dotti di ogni epoca” (presieduta, come noto da Pietro Bembo e avente ideal sede in un empireo con le fattezze a metà fra una camera del parlamento e la biblioteca marciana). Poco mi cale del giudizio della cultura “mainstream”, sia essa ottocentesca o contemporanea.

Piaccia o meno, la lingua è andata avanti con le idee e, grazie a Ezra Pound, abbiamo definitivamente appreso e accettato che "Beauty is difficult" per gli artisti

Occhio che quando fu pensato l’omaggio ad Ezra Pound con quel titolo, si intese primieramente la difficoltà imposta al lettore nell’apprezzare l’ardua bellezza della poesia di ogni tempo (e quindi anche contemporanea), non già la difficoltà dell’autore nel raggiungere quella bellezza!

Apprezzare la bellezza costruita con le parole è come apprezzare la bellezza di una parete rocciosa: bisogna innanzitutto saper scalare. Per godere, ad esempio della bellezza dello spigolo del Sass d’Ortiga sulle Pale di San Martino, per vedere quanto sia elegantemente “arrotondato”, quante migliaia di possibili appigli offra, quante provvidenziali clessidre facilitino la scalata, è necessario possedere la tecnica e l’allenamento per affrontare un quinto grado. In caso contrario, sembrerà affilato, strapiombante, privo di possibilità di salita, indistinguibile da un qualsiasi muro di cemento la cui possibilità di salita consista solo nel tirarsi a forza di braccia su per una corda. Solo chi sa arrampicare almeno fino ad un certo livello potrà salirvi, al contrario, con piacere e senza sforzo, a piccoli passi morbidi, come si fa sugli scalini di un lettino a castello.
L’aver attribuito cattedre di letteratura e di filologia a vero e proprio ciarpame umano intellettualizzato, l’aver dato diritto di parola e critica a gente nata per zappare la terra o servire i tavoli, l’aver esaltato come poeti modesti ragionieri (mentre ci si permettevano sberleffi al “poeta laureato” che, prima di esser appellato tale, aveva studiato al Cicognini di Prato!) ha prodotto un malgusto letterario incapace di riconoscere la bellezza generata dalle parole, come se, in ambito alpinistico, gli accademici del CAI, vergassero guide in cui le più belle pareti dolomitiche fossero paragonate, appunto, a muri verticali in cemento soltanto perché “ormai nessuno, al giorno d’oggi, studia più il modo di riconoscere gli appigli e sfruttarli per salire”.

Confondere il Cinquecento con il Seicento, paragonare una scrittura rinascimentale (o aspirante tale) con l’ampollosità barocca, mescolare la ricerca dello stile puro e rarefatto, tipico del Petrarca, con l’insana voglia retrò di un pedante aristotelico significa, ad occhi che sappiano leggere la bellezza, significa non tanto aver disprezzato il mio scritto (che pure, lo ammetto candidamente, come tutti i tentativi dei dilettanti, può avere dei difetti o addirittura mancare completamente gli obiettivi), quanto, piuttosto, aver mostrato la propria totale ignoranza di cosa siano le belle lettere (che, se non piacciono, non per questo diventano "superate", ma semplicemente qualificano come impoetico - qualcuno più importante di me avrebbe non senza ragione detto "degenerato" - il singolo o la società che non sanno più apprezzarle).

Siete comunque in buona compagnia, proprio perché avete ragione. "La lingua è andata avanti con le idee". Quindi, le idee moderne (“uguaglianza”, “emancipazione”, “progresso”), che, come mostra Nietzsche sono tutte, senza eccezione, idee false, hanno falsificato la bellezza anche in letteratura, rendendo la prosa (come del resto la poesia) più plebea, più impura, più sgraziata, in una parola, più falsa (essendo il vero, Platone e Keats docent, legato al bello).
Il periodo umanistico-rinascimentale, picco sommo, in ogni campo, della civiltà europea (che, saltando a piè pari il medioevo, si era finalmente disfatta della componente sovversiva del giudeocristianesimo), aveva significativamente capito come i veri modelli ideali dovessero essere il Petrarca in poesia ed il Boccaccio in prosa. La successiva era barocca (figlia anche della controriforma e quindi, indirettamente, della menzogna cristiano-luterana) aveva iniziato a smarrire il sentiero, con i suoi primi “slanci moderni” (quasi che la contemporanea nascita della scienza galileiana, basata sui fatti e sulle verità dimostrabili, dovesse essere “compensata” dall’aumento di storture e menzogne negli ambiti extra-scientifici – filosofia, politica, arte - prima ancora guidati verso il vero e il bello dal Neoplatonismo). Il Leopardi, forse unico veritiero fra i poeti moderni, era riuscito a ritornare alla lingua di Petrarca rinnovandola (si veda, ad esempio, l’andamento bimembre – “ridenti e fuggitivi”, “lieta e pensosa” – proprio di “A Silvia” e già tipico del Petrarca - “solo et pensoso”, “tardi e lenti” – o l’uso “fonetico” delle preposizioni - “d’in su la vetta”, “D’in su i veroni” – veramente innovativo e coerente con la ricerca di quella musicalità che nel Petrarca era affidata invece alla sola e rigorosa metrica del sonetto). Peccato nessuno lo abbia seguito fino in fondo. Faccio un’eccezione per D’Annunzio, i cui versi sembrano davvero una partitura musicale, e i futuristi (che hanno ricercato la musica attraverso il paroliberismo o le parole “strane” alla Ardengo Soffici di “Sul Kobilek”), ma tutti gli altri poeti “moderni” (italiani) valgono poco o nulla per me, perché non hanno capito come la poesia debba essere parente più dello “spirito della musica” (ancora una volta Nietzsche docet) che non dello “spirito dei tempo” (Hegel mangiamerda).

Stimo ovviamente Ezra Pound senza riserve, anche perchè, nato americano (e quindi madrelingua inglese), comprese comunque la potenzialità musicale della tosca favella, tanto da ciminetarsi persino in essa (il contrario dei provinciali italiani di oggi che, per compiacere il mainstream e far più soldi, finiscono addirittura per buttare al vento la loro fortuna di madrelingua nella più poetica delle lingue cantando in inglese).

Io posso aver fallito nel cercare di riprodurre con una prosa boccaccesca la musicalità del Petrarca e nell’affidarmi alle citazioni del Poliziano e di altri artefici di bellezza risuonante del rinascimento per “significare” la poesia, ma almeno ho dimostrato di avere un’idea su dove bisognerebbe andare. I moderni invece, siano dell’ottocento o contemporanei, siano poeti o prosatori, siano critici o forumisti, vanno solo dove li portano le mode e le voglie di essere “al passo coi tempi” (ovvero, fuor di ipocrisia, apprezzati, lodati, premiati e possibilmente pagati dalla “cultura” dominante). Preferisco passare per un pessimo scrittore (che punta in alto per desiderio di una bellezza sinceramente amata) piuttosto che mostrarmi un buon scribacchino (che mette assieme delle parole al servizio delle idee moderne principalmente per “avere consenso”).

figuriamoci per noi.

Per noi, semmai, è difficile, per voi è semplicemente incomprensibile. Per tutti noi, qua dentro, è comunque "very expensive". Non sapevo che anche Ezra Pound facesse indipay. Ecco perchè ha dovuto occuparsi di economia!

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Bez, si scherza e si pro-voc-a un po’ per farti mollare queste circonvoluzioni gravitazionali attorno a pianeti disabitati e idee neoclassichpop

Però tu mi rimani nel barocco della tua giovinezza, ti spingi timidamente nel classicismo dell’adolescenza, vivi male il neo melodico presente e da 40enne elabori romanticamente. È vero che la musica contemporanea ti butta giù, ma hai totalmente saltato il jazz

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Caro Sig. Bez,

mi chiamo Enzo, conosco il suo amico tesista il quale mi ha chiesto di parlarle della donna più bella del mondo, almeno così dicono sia mia figlia

Non ho capito perché dovrei parlare di mia figlia in un forum di puttanieri, ma l’argomento mi stimola perché ho saputo che lei è un pretendente ed un appassionato e molto competitivo quindi è mio dovere metterla in guardia perché ha un caratteraccio

La madre la incontrai da giovane tra i campi, era sporca, grassa, fredda e ignorante (anche io brillavo poco a scuola) ma giovane e sveglia, rimase subito incinta e la mia gioia fu immensa

Avevamo all’inizio solo le nostre vite e nostra figlia, che crebbe ad una velocità impressionante

All’inizio le piaceva stare insieme a me, ma già da piccola si rivelava un carattere indomabile e nel giro di pochi anni con dispiacere la vidi diventare una donna bellissima ma profondamente sola

Non che non avesse avuto pretendenti, fior fior di ingegneri, bellissimi ragazzi della provincia lombarda, persino tanti uomini che lasciavano un paese lontano per lei

Peccato li trattasse tutti come maggiordomi o peggio, li guardava dall’alto in basso e li allontana dopo poco tempo

Così ha fatto anche con il suo più grande amore, l’ha spinto fino al limite pur essendo lui sposato con bimbi, e la triste conclusione fu una immensa nostalgia, da parte mia, perché mi ero affezionato a quella faccia simpatica da scapestrato

Lei si curò la ferita sostituendo subito il suo amante

Tutti quelli che le sono vicino le danno della viziata, della snob, diciamola come vorrebbero dirla, della stronza

In realtà alla mia bambina la bellezza ha dato solo solitudine e impegni, un senso della competizione esagerato ed a me ha riempito la vita di alti e bassi

Ho avuto un maschio che morì da giovane, non mi va di parlare di lui, è stato sfortunato ed io lo amavo tanto, quasii di più della passione per la madre e dei successi della figlia, perché eravamo simili, ci piaceva lavorare e soffrire per una donna acccettandone ogni capriccio perché alla fine ci riempiono la vita è ne danno senso

Sono morto molti anni fa anche io ma so che altri cervelli da 110 e lode si fanno bistrattare dalla mia ragazza, altri si lamentano e sbattono la porta, ma a tutti poi viene il magone a ripensarla bella con quei capelli rossi in boccoli da principessa e la sua voce diretta e dirompente

Lasci che le dica, la bellezza rovina il sonno, fa vivere in solitudine le persone e bisogna valutare delle amanti meno belle ma che curano le ferite

Se le sto consigliando di non incontrare mia figlia? Ci mancherebbe, può farlo con cautela, anzi vivrà una delle stagioni migliori della sua vita, ma sappia che poi la abbandonerà senza dubbio e a lei si cicatrizzerà una ferita callosa sul cuore o le lascerà fare lo schiavo fino alla fine

In bocca al lupo Sig. Bez

Maranello, 08/03/2019

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